Onori e appalti: chi festeggia davvero la fine della guerra

Medio Oriente


La pace degli armati: fine delle ostilità, inizio delle spartizioni

La guerra tace. Le bombe non cadono più. I titoli dei giornali celebrano la “pace ritrovata”, mentre le telecamere si soffermano sui sorrisi diplomatici, sulle strette di mano, sulle cerimonie. Ma sotto la superficie, il silenzio delle armi non è sinonimo di giustizia. È solo il preludio a una nuova fase: quella della spartizione.

Le stesse mani che hanno firmato contratti per la produzione di armamenti ora si tendono per accaparrarsi appalti di ricostruzione. Le stesse voci che hanno alimentato la retorica bellica ora si presentano come garanti della stabilità. E il mondo civile, quello che dovrebbe indignarsi, si accontenta di una tregua che sa di compromesso, non di riparazione.

La ricostruzione di Gaza è diventata un affare. Un business da miliardi, dove le imprese nazionali si contendono il diritto di “ricostruire” ciò che è stato distrutto con le armi che esse stesse hanno prodotto. È il paradosso della pace moderna: non nasce dalla giustizia, ma dalla convenienza. Non è frutto di riconciliazione, ma di calcolo geopolitico.

Intanto, i civili—quelli veri, quelli che hanno perso figli, case, sogni—restano ai margini. Nessuna onorificenza per loro. Nessuna telecamera. Nessun tavolo negoziale. La loro voce è troppo scomoda, troppo vera, troppo lontana dai palazzi del potere.

Questa non è pace. È una pausa. È una redistribuzione di interessi. È la pace degli armati, non dei disarmati. E finché la giustizia sarà subordinata alla forza, finché la memoria sarà sacrificata sull’altare della diplomazia, finché la ricostruzione sarà un premio per chi ha distrutto, allora non potremo parlare di pace. Solo di tregua.

E noi, spettatori consapevoli, abbiamo il dovere di non accontentarci. Di chiedere verità, responsabilità, equità. Perché la pace, quella vera, non si firma. Si costruisce. E non con le ruspe, ma con la coscienza.


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