A passi lenti
Il compagno
"Compagno", per noi ragazzi di quartiere, significava "migliore amico". Era il modo più diretto e affettuoso per presentare chi ci stava accanto. Crescendo, quel termine ha assunto un peso diverso: non solo amicizia, ma militanza. Il compagno era chi condivideva un’idea, un progetto, una visione del mondo. Oggi, quell’epoca sembra svanita. Ma qualcuno resiste.
C’erano giorni in cui bastava vederlo da lontano per sentirsi meglio. Non camminava: avanzava. Con passo deciso, con quella baldanza che solo chi ha vissuto il campo da gioco conosce. Ex calciatore, dirigente, uomo di squadra e di quartiere. Portava addosso la sua storia come una maglia: consumata, mai sbiadita. Si definisce ancora, con convinzione, un compagno. Non per nostalgia. Per coerenza.
Militante del PCI, cresciuto con le parole di Gramsci, le visioni di Togliatti, la dignità di Berlinguer. La sua politica non era fatta di slogan, ma di gesti: una mano tesa, una discussione accesa, una presenza costante nei luoghi dove si costruiva il futuro. La sua socialità non era virtuale, ma concreta. E anche se quel tipo di comunità sembra dissolta, c’è chi ancora ci crede.
Il suo corpo, segnato dal tempo, rispondeva ancora al richiamo di un pallone immaginario, di una corsa sulla fascia, di un incitamento dalla panchina. Raccontava episodi di campo e di vita, con la stessa passione. La sua non era solo appartenenza: era lotta, era comunità.
Anche quando la memoria ha cominciato a vacillare, ha conservato lucidità sufficiente per ricordare episodi, nomi, battaglie. E soprattutto, conserva ancora la tuta: quella vecchia tuta sportiva con il logo della squadra dilettantistica catanzarese in cui aveva militato. Un simbolo che non ha mai smesso di rappresentarlo.
È questo: un uomo che ha vissuto con passione, che ha giocato e lottato, che ha creduto nella forza del collettivo. Un uomo che, anche nel silenzio dell’età, continua a parlare attraverso ciò che indossa, ciò che ricorda, ciò che era.
E noi, che lo abbiamo conosciuto, lo portiamo dentro come si porta una bandiera: non per esibirla, ma per proteggerla.
Negli ultimi mesi, il tempo ha cominciato a giocare contro di lui. La memoria si fa incerta, le abitudini quotidiane sono state messe sotto tutela amorevolmente dalla moglie: il bancomat, le uscite diradate, le chiacchiere al bar ormai orfane dei suoi interventi. Ma non si è arreso.
Questa mattina l’ho incontrato. Era accompagnato da una donna bionda — la sua badante, gentile e attenta. Mi fece cenno di avvicinarmi. Non era più quello di un tempo, ma era ancora lui. Mi abbracciò con trasporto, mi chiese della famiglia. Mi riconobbe. Ricordò episodi, battute, momenti.
“Che vuoi, ho novant’anni…” disse. “Ottantaquattro,” lo corresse lei, con un sorriso. E lui, con un lampo di orgoglio, si sbottonò il maglione. Sotto, la vecchia tuta sportiva, ancora in buono stato. Un gesto semplice, ma potente: come dire “Io sono ancora questo”.
E' un uomo. Un tempo archivio vivente di partite giocate sotto il sole e sotto la pioggia, di trasferte in pulmino, di discussioni accese negli spogliatoi e di abbracci dopo un gol. Era il tipo che ti sfotteva per affetto, che ti rincuorava con una battuta, che ti faceva sentire parte di qualcosa.
Oggi, quel qualcosa è memoria. E noi, che lo abbiamo conosciuto, abbiamo il dovere di custodirla. Perché non è solo passato: è esempio, è radice, è voce che continua a parlarci anche nel silenzio.

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