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lunedì 7 febbraio 2022

Mani forgiate dall'amore della terra

 


Nicchi nicchi nacchi mammà tua t'accatta i vacchi papà tua a masseria ricca ricca a figghja mia.

Nella vasta aia attorno alla casa la vecchia donna culla la bambina mentre canticchia una nenia dal sapore antico.

Il capiente cesto intrecciato con vimini e canne è appeso ad un grosso ramo di gelso. Fissata saldamente con corde di ginestra, la spartana culla, soggetta al dondolio ritmato dalla donna è abbraccio sicuro per sonni tranquilli. Nicchi nicchi nacchi … continua a canticchiare l'anziana nonnina che nel frattempo sgrana fagioli.

Il casolare di campagna accoglie una famiglia di stampo patriarcale. Tutt'attorno è un fiorire di natura ben tenuta e coltivata da sapienti mani. La cultura contadina è amore per la terra e le piantagioni disseminate nella campagna circostante testimoniano il lavoro delle generazioni che lì hanno vissuto e tratto sostentamento.

Qualche gallina razzola. Ispeziona col becco il terreno. Cattura qualcosa e se ne ciba.

Il cane, un meticcio peloso, dormicchia ai piedi del gelso. Un belato arriva debole alle orecchie della donna. Bianchina, la capretta che fornisce il latte alla piccola e al resto della famiglia, è al pascolo oltre la collina. Conosce la strada di casa Bianchina e sa quando è l'ora per rientrare.


Sui fornelli della cucina economica in una pentola con acqua le patate finiscono di cuocere. Una giovane sposa entra dalla porta che dà sul cortile. Ha una cesta sulla testa. S'inchina. La solleva di poco e poggia la cesta su un tavolo. Srotola il canovaccio che aveva sistemato a mo' di ciambella sul capo per trasportare la cesta. Lo adagia su una spalla e getta nella ciotola in terracotta le verdure appena colte.

È quasi mezzodì. Al suono del rintocco delle campane tutti smettono il lavoro nei campi e nelle botteghe. Le donne un po' prima. Loro vanno a casa per preparare il pranzo. Una zuppa di fagioli con verdure. Insalata di patate... . Roba nostrana, coltivata con le proprie mani. Mani rugose. Dure. Callose e forti forgiate negli anni dall'esperienza contadina che le hanno rese preziose e impagabili.

lunedì 5 aprile 2021

Racconti calabresi: l'estate a Tropea

Tropea, isola della mia infanzia.

Siamo agli inizi degli sessanta. 

L'antico convento suscitò in me sensazioni fiabesche.

Sembrava di essere in un castello edificato da qualche principe o dai pirati in un'isola nel bel mezzo dell'oceano. 

La calura estiva si sentiva e l'acqua del pozzo non riusciva a chetarla. E le camere, ampie, coi letti a baldacchino; le tende appese tra un letto e l'altro per creare un po' di privacy, bianche, forse, all'origine ma rese grigie dal tempo, svolazzavano sollecitate dalla brezza che entrava dalle alte bifore. 

Le bifore si trasformavano, a seconda dei momenti, in torri o avamposti d'avvistamento. E da lì prendevano forma i velieri dei pirati. era una gara a chi inventava la favola più bella e originale.

La fantasia ci faceva vedere i velieri stagliarsi all'orizzonte. Dapprima minuscoli. Poi enormi e minacciosi con le bocche di fuoco dei cannoni armati per l'assalto.

La madonna dell'isola non era un'icona sacra. Era la damigella da difendere dagli assalitori. La principessa da custodire e portare in salvo a costo della propria vita.


Tropea distava pochi chilometri da casa mia ma all'epoca arrivarci era un avvenimento importante. una storia indimenticabile da raccontare. E poi l'isola! che non era di fatto un'isola ma un promontorio attaccato al paese che si presentava simile a un'isola deserta situata in mezzo al mare con una spiaggetta privata dove solo noi avevamo accesso. Questo pensavo mentre scendevamo dagli interminabili gradini che univano il cortile dell'isola alla spiaggia.

L'acqua era di colore cristallo, impalpabile. Trasparente! Difficilmente il mare era agitato in quel punto. E poi un giorno la quiete fu interrotta dall'incursione di uno strano signore. Non portava con sé ombrellone o telo da bagno e neppure il costume indossava. 

Piantò nella sabbia, ricordo bene, un coso fatto di legni che si aprivano a compasso e si serravano con delle viti a farfalla. E poi mise su un pezzo di cartone marroncino. Osservò il mare. Prese da una scatola di legno dei tubetti simili al dentifricio ma la pasta che usciva non era bianca. Erano dei vermetti colorati! Noi bimbi ci mettemmo in cerchio attorno a lui. Incuriositi. Ci scrutò ben bene e chiese al più grande: ti metteresti in posa? Il ragazzino lo guardò con aria interrogativa. Nessuno aveva capito cosa volesse dire “mettersi in posa”.

Senza aspettare risposta l'uomo lo guidò a qualche metro di distanza, gli mise in mano una canna e lo invitò a stare fermo.

In un batter d'occhio abbozzò la figura del giovane e poi iniziò a colorarlo. Era come assistere ad una magia! Pennellata dopo pennellata l'azzurro del mare si congiungeva al cielo e in lontananza, all'orizzonte, dei cirri tenui si mescolavano coi gabbiani. Il pittore, un uomo minuto coi baffetti stava in silenzio. Poi smise di dipingere. Estrasse una scatolina di metallo lucido, color argento, prese una cartina biancastra, l'adagiò tra le dita e con l'altra mano prese un batuffolo di tabacco, l'arrotolò e infine passò la punta della lingua per sigillare il cilindretto. serrò la sigaretta tra le labbra, l'accese con un fiammifero, uno di quelli che solitamente si accendeva il fuoco nelle case. Aspirò mentre osservava il dipinto. Per qualche istante non fece nulla. Pulì solo i pennelli ad una pezzolina e li sistemo nella cassetta di legno.

il sole era alto. Stava per scoccare il mezzodì. e noi dovevamo risalire per il pranzo. Il suono del fischietto richiamò la nostra attenzione. In fila per due e march. 

Quel giorno la figura del pittore catalizzò i nostri discorsi che, nonostante i nostri auspici, non incontrammo più.

lunedì 4 giugno 2012

c'era una volta in Calabria

Archeologia di un mondo che non c'è più

immagine tratta dal libro "I braccianti in Calabria" di Ledda e Veltri
"attimi di vita contadina"  foto Ledda/Veltri
"I braccianti in Calabria" 1983

Quando la terra si lavorava con la forza delle braccia e l'aratro era trainato dai buoi i contadini vivevano di stenti e di fatica. In quel tempo l'unico sostentamento proveniva dalla terra e dalle colture che il contadino riusciva a produrre. Perciò, il suo problema non era lo spread o la tassa sulla casa e neanche la macchina e i relativi giochetti strategici di Marchionne. Il contadino pregava la Divina Provvidenza, suo unico concessionario di fiducia, affinché facesse piovere nel momento giusto così da ottenere un buon raccolto e ché non si ammalassero gli armenti, l'asino, le capre, il maiale, le galline.

Il contadino si alzava al levar del sole e, bardato l'asino, si avviava a controllare il podere sulla soma del ciuco. Dava l'acqua alle colture attraverso una serie di ruscelli d'irrigazione che lui stesso scavava nel terreno e “stagghiava l'acqua” mandava l'acqua dove era necessaria, estirpava le erbacce infestanti e raccoglieva gli ortaggi e la frutta maturata dal sole.

L'acqua del fiume o della sorgente era di tutti e le regole di buon vicinato, affinché nessuno rimanesse senza, imponevano la turnazione programmata per le innaffiature dei poderi.
Ovviamente i terreni limitrofi ai pozzi d'acqua, alle fiumare o con sorgenti proprie erano le più ricche e ambite.

Gli utensili del mondo rurale erano pochi ma necessari: zappe, vanghe, tridenti, rastrelli, “chjiantaturi” punteruoli autoprodotti con dei rami e servivano per piantare le giovani piantine. Cesti, panieri e cannicci per raccogliere e contenere i frutti o essiccarli al sole.
E poi c'erano i cocci per mangiare o contenere le provviste in salamoia, sotto sale o ricoperti con la sugna di maiale che in dialetto calabrese si chiamano: salàturi, 'nsàlatera, pìgnata, vòzza.
La brocca, (a vòzza) è un recipiente di terracotta che un tempo conteneva l'acqua o il vino oggi è un souvenir.  

venerdì 3 settembre 2010

mestieri, c'era una volta in Calabria

C’era una volta, in Calabria.

"u zzappatura"



I castagni sono carichi. I ricci iniziano ad aprirsi; qualcuno, ancora verde, è già caduto tra le felci. Difficile vederlo, ma chi ha l’occhio allenato distingue subito le spine del riccio da foglie, legnetti e felci. Marco è lì col padre in compagnia di altri uomini che parlano tra loro: “ncigniamu e ccà!”* dice il padre ai contadini muniti di zappe, “rampamu u margiu de castagni luongu luongu u violu sinnò, si perdunu”.
Gli uomini si allineano. L’uno affianco all’altro alzano le zappe fin sopra le loro teste e le lasciano cadere nel terreno da rivoltare. Marco, più in là, raccoglie ricci, basta una bottarella nella “cresta” per aprirli e lui è un maestro nel farlo senza schiacciare le castagne tenere. La sua tecnica è semplice: col tacco sinistro tiene fermo il riccio e col destro imprime una leggera forza dall’alto verso il basso nella scriminatura formata dal verso delle spine. Ha le tasche piene di castagne verdi. Quelle sono destinate alla madre e alla sorellina. Lui le mangia sul posto, come testimoniano le bucce intorno.
Gli uomini nel frattempo hanno fatto un buon lavoro. Le felci non ci sono più e il terreno è zappettato e livellato a dovere. Resta ancora una fetta di prato da zappare. Gli uomini avanzano; le zappe si alzano e s’abbassano come le assi di un enorme ventaglio. Le lame addentano la terra rossa. I contadini fanno leva sul manico, sollevano la zolla, girano le zappe e frantumano la zolla col dorso.

* iniziamo da qua! Zappiamo il prato dei castagni delimitato dal viottolo sennò, le castagne andranno perse.

giovedì 1 luglio 2010

itinerari turistici consigliati in Calabria


racconti di vita in Calabria 1

itinerari turistici.

©archivio M.Iannino

È il primo giorno di luglio, secondo il calendario dovremmo essere in estate: aria calda, molto sole e bagni a mare! Invece l’inverno sembra non voler cedere il passo alla bella stagione: l’aria è fresca, pioviggina e c’è molto vento, va bèh che il vento a Catanzaro non manca mai però questo è un vento fresco, autunnale, che non invoglia le persone a spostarsi sulla spiaggia per cercare refrigerio nelle acque cristalline dei mari calabresi o nei boschi dell’entroterra silano e aspro montano delle serre.
Si rimane in città! A dire il vero, a me non dispiace. Non mi pesa per niente, anzi preferisco il fresco al caldo afoso. Quando fa caldo, ma veramente caldo, anche l’acqua del mare è un brodo e l’unico modo per stare bene è rimanere a casa con le imposte chiuse e il climatizzatore acceso ma non sempre è possibile! Se ci sono ospiti non puoi stare in canotta o torso nudo e bighellonare tra quattro mura: non tutti amano le cose che ami tu! Magari a un buon libro o un bel film preferiscono le escursioni naturalistiche, le immersioni o anche, perché no, una passeggiata in pieno giorno nei luoghi caratteristici della Calabria. Visitare parchi e musei, scavi archeologici e gallerie d’arte…

(segue)

mercoledì 30 giugno 2010

racconti di vita: miserie e nobiltà

Racconti di vita in Calabria 1.
©archivio M.Iannino

Miserie e nobiltà.

Può capitare a chiunque di prestare volentieri il proprio bagaglio culturale, mettere a disposizione la propria conoscenza e impegnare corpo e anima in collaborazioni con terze persone. Magari suffragate da una persona che si conosce da tempo e della quale si ha piena fiducia. Una persona impegnata nel campo degli affari e della politica. Insomma una persona solare, perlomeno questo è il lato esteriore che ha saputo contrabbandare per accaparrare consensi e fiducia tra la gente ma che davanti agli affari, ai soldi sonanti, mostra il vero volto. Va bèh, può capitare! Dirà qualcuno. Può capitare a chiunque di sbagliare giudizio davanti a una serie di sorrisi elargiti nei banchetti organizzati. Può capitare, quindi, e non c’è bisogno di farne un dramma, di iniziare un’avventura imprenditoriale, o una qualsiasi attività culturale o ludica con una persona ambigua che presenta il conto alla fine.
Dopo che si è sgobbato una stagione intera, la persona viscida in questione, sempre col sorriso, seduta al tavolo ingombro di foglietti volanti, ti dimostra di avere perso più soldi di quanti non ne abbia messo tu, al di là del tempo perso per organizzare gli eventi, e dichiara che non c’è nessun dividendo da fare perché la cassa è in rosso.
Può capitare… può capitare che te ne debba andare con le pive nel sacco nonostante i conteggi in attivo, che tu sai per certo e che documenti secondo la tua logica, empirica ma reale, in base agli eventi, le spese fatte e le entrate, ma che lei, quest’essere ignobile del quale ti sei fidato, continua a non voler sentire ragioni, e insiste nel dire che non è vero e che la cassa, che naturalmente hai lasciato a lei senza mai pensare di dare un’occhiata, controllare velocemente, perché sicuro della sua onestà, è vuota, bèh… è capitato! che fare? Nulla! Ti stringi nelle spalle e ammicchi. Ti serva da lezione, mio giovane amico. La prossima volta sì più accorto, e non lasciare a nessuno la possibilità di spegnere la fiammella della passione che alimenta il tuo lavoro!

(segue)


lunedì 28 giugno 2010

Il pranzo della festa: melanzane ripiene

Racconti di vita in Calabria 1

Il pranzo della festa: melanzane ripiene.

©archivio M.Iannino

Oggi, come un tempo, in occasione delle festività, quando tutta la famiglia è radunata nella casa paterna e accoglie nuove generazioni di figli, nipoti e amici, la grand-mère, mamma e nonna, aiutata da figlie e nuore, vivacizza la cucina col suo daffare mentre sul piano cottura i fornelli accesi  a fuoco basso cuociono i cibi preparati di buon mattino per l’occasione.

Seguendo le ricette tradizionali, la regina della casa, prepara l’impasto per farcire le melanzane opportunamente bollite e svuotate.
Amalgama pane bagnato e uova fresche, insieme alla polpa delle melanzane tagliata a dadini e soffritta con aglio tritato, prezzemolo e pepe nero. Fatto ciò riempie i mezzi gusci di melanzane, ricopre con del sugo di pomodoro precedentemente preparato a parte, e mette in forno a 180° per 10 minuti circa. Ma la nonna non osserva gradi e tempi di cottura, li modifica in sintonia con le caratteristiche del forno; scruta la teglia e quando la parte superiore è dorata e asciutta al punto giusto, spegne e porta in tavola.

(segue: i cugini siciliani)

la superstizione: il malocchio

Racconti di vita in Calabria 1

La superstizione: il malocchio.

Il gatto nero che attraversa la strada? Passare sotto una scala a pioli? Il volo degli uccelli in un verso piuttosto che in un altro? Il grido di un animale notturno?

Niente di tutto questo!

Per alcuni il sintomo della iattura più nera è raffigurato dall’espressione facciale di certa gente: sguardo torvo, occhi ravvicinati e labbra sottili che non sanno distendersi in una corroborante risata. Quando si ha la malaugurata sorte d’incontrare soggetti simili, specie ai funerali, è facile assistere a un tocca tocca generale: chi tocca ferro e chi le parti basse proprie. Pare che queste persone abbiano il potere di assorbire le energie vitali di chi guardano con invidia ma, a volte, anche involontariamente.

L’osservato, lentamente cade in un torpore singolare: perde le forze e inizia a sbadigliare e quando uno iettatore butta il malocchio, tradizione vuole che ci si debba rivolga alla comare che sa “sciumicare” cioè sappia togliere l’affascino dell’occhio invidioso.

La comare recita, dopo aver fatto segnare la fronte col simbolo della croce per tre volte, alcune semplici parole che a conoscerle riporta alla mente una nenia dialettale. Già a conoscerle!

La comare recita in sostanza una preghiera in vernacolo, tramandata di generazione in generazione durante la veglia del SS Natale, e grosso modo recita così: San Giuseppe che vieni da lontano e che porti sulle spalle i guai del mondo, ti prego, togli il malocchio da dosso a …, e dopo aver pronunciato il nome del mal capitato, la comare, recita tre Ave e tre Pater e infine invita il postulante a lavare il viso con acqua e sale.
Ancora oggi, in alcuni luoghi, la nostrana sciamana è ringraziata con un chilo di zucchero e uno di caffè.
Non ci credo ma stando ad alcune testimonianze… pare che l’intercessione funzioni…

ps. dimenticavo: sembra che l'occhio potente del menagramo colpisca non solo le persone ma anche le colture e ogni bene che lui vorrebbe possedere

(segue: il pranzo della festa)

giovedì 24 giugno 2010

Shakespeare: da Bagnara in Inghilterra


storie di vita in Calabria:
le origini calabresi di Shakespeare
realtà o leggenda?

È un giorno come tanti; il sole sta scomparendo dietro i monti e l’uomo, seduto accanto alla barca tesse la rete. È un signore non più giovane ma neanche troppo anziano. Rammenda la sua rete aiutandosi con i piedi.
Buona serata avete pesce da vendere? Chiede un tizio. Il pescatore, senza scomporsi, dopo qualche manciata di secondi continuando nel suo daffare senza alzare lo sguardo e smettere di menar le mani:
poca roba! Guarda là nella barca vedi se nella cassetta c’è qualcosa …
il tizio sceglie alcuni esemplari per una zuppa e: questi! Quanto vengono?
Mah! Fai tu…
Sulla spiaggia di Bagnara un altro giorno va in archivio insieme alle storie degli uomini a prescindere del loro vissuto.
Il tizio porge qualche banconota al pescatore che gli fa cenno di poggiarla sulla barca affianco alla cassetta.
Totò ma lo sai che oltre alla Bertè anche Shakespear era un nostro compaesano?
Ma che dite professò!
Sì è proprio così: William Shakespeare, il grande drammaturgo era originario di Bagnara Calabra! Il suo vero nome era Michelangelo Florio Crollalanza, era figlio di Giovanni Florio (amico di Giordano Bruno, professore di lingue ad Oxford e precettore del principe Enrico) e Guglielma Crollalanza, due coniugi perseguitati dall’Inquisizione e riparati in Inghilterra. Shakespeare avrebbe tratto dalla madre lo pseudonimo con il quale è passato alla storia: William da Guglielma, quindi Shake (scrolla) e Speare (lancia).
Allora è vero! Esclama il tizio. Certo che è vero! Afferma il pescatore. No mi riferivo al fatto che scekkespir era ricchione! S’è preso il nome della madre ah ah… Totò – con tono perentorio, il saggio pescatore gli smorza la risata- è sempre valido il vecchio adagio: a lavarci la testa all’asino ci perdi tempo e sapone! Che c’entra se era o no omosessuale! Sta di fatto che è stato il più grande drammaturgo della storia, anzi ti aggiungo io che forse se non fosse stato per la sua estrema sensibilità, probabilmente dovuta al suo modo di essere, non avrebbe creato i capolavori che ci ha lasciato! Ricordati, Totò, che il valore dell’uomo non si misura in base alla preferenza sentimentale verso il proprio o l’altrui sesso… Ah professò! Già non vi sopportavo quando insegnavate … dù palle!...

bah! sospira il prof. è proprio inutile, che insisto a fare... una testa quadra non può morire tonda!

(segue: colture mediterranee)

©archivio M.Iannino

courtesy eredi Mamone: tramonto, olio su tela; Aniceto Mamone.

martedì 22 giugno 2010

racconti di Calabria: l'albero da frutta

Racconti di calabria.

Detti calabresi.

“L’arveru chi non frutta tagghialu e sutta!” ripete Pepè il giardiniere chiamato a potare gli alberi del giardino. che tradotto vuol dire: l'albero che non dà frutti taglialo perché inutile.

Pepè è un buon uomo, all’antica, con idee poco comuni che non collimano con i moderni concetti dell’ingegneria naturalistica e l’architettura del verde; lui, non avendo il coraggio di dire apertamente il suo pensiero in merito all’opportunità o meno di mettere a dimora certi tipi di alberi, ogni volta che passava nei pressi della magnolia, la osservava di sottecchi e mormorava: l’arveru chi non frutta tagghialu e sutta… dicia a bonanima e patrumma.
All’ennesima cantilena, gli chiesi:
Scusate, Pepè, perche secondo voi dovrei tagliare questo bel esemplare di magnolia?
No no pe’mmia vu potiti tenira ma l’anticu dicia accussì ca quando l’arvuru non frutta tagghialu e sutta! E patrimma mu dicia sempa: figghiarè ccu l’olivu ti fai l’ogghiu e u salatura, cu i ficu mangi quando su virdi e ti sicchi pe’ l’invernu e ti fai i crucetti ccu i nuci…
Sì ho capito che secondo vostro padre, persona saggia come tutti i contadini di una volta, l’albero da frutto è più utile ma anche quello che fa ombra e ottimi fiori profumati ha un suo perché! Un suo motivo d’esistere altrimenti, se così non fosse, anche per gli uomini varrebbe lo stesso concetto! O no? Che ne pensate?
Sì sì dottò, vui aviti puru ragiuna ma eu ‘nto terrenu meu chiantai sulu arvuri e frutta e patrimma i chiantau prima e mia e u nunnu meu prima e patrimma.
D’accordo Pepè ma quelli erano altri tempi, ora la frutta la trovi con facilità e non serve per sfamare la famiglia come quando c’era la carestia. Allora aveva un senso asserire che l’albero che non fruttifica è inutile, non serve e perciò deve essere tagliato alla base del tronco, deve essere eliminato dal terreno per fare spazio a colture commestibili. … dottò vui… u giardinu è u vostru e ammu vi piacia a vvui pemmia si fussera u meu u caccera! Mbèh quanta lordia vi fa quantu fogli cadunu…
Sì è vero, sporca come tutti gli alberi ma guardate che bei fiori!
Nel linguaggio dei fiori, la magnolia simboleggia dignità e perseveranza… Dottò, pemmia vu dissi: l’arvuru cchi non frutta tagghialu e sutta! Ca armenu ti caddiji d’invernu a lu focu!

(segue: tra spirito e materia)

lunedì 21 giugno 2010

racconti di vita in Calabria: 16; proclama elettorale

Racconti di Calabria.

Proclama elettorale nell'entroterra italico del 1950.

Sentite sentite tutti cosa ha detto don Ciccio! Don Ciccio va dicendo in giro che i morti non devono leggere e che quindi secondo lui non c’è bisogno d’illuminare il cimitero! Chi vuole luce davanti alle tombe dei defunti accende candele e lumini, lanterne e torce. Avete capito che uomo senza Dio ch’è don Ciccio, l’uomo che abbiamo eletto a sindaco! Vi pare giusto? Vi pare giusto che un padre o una madre dopo avere sofferto una vita devono continuare a soffrire anche là nell’estrema dimora?
E quanto può costare un lumino elettrico? Paesani! Quello dell’impresa mi ha detto che costa appena 10 lire al mese se lo facciamo tutti… e noi non spendiamo 10 lire al mese per i nostri cari?

Però duva và don Ciccio! Iddhu cu mmia si misa! Nciù hazzu vidira ia cuomu nci si comporta cu i gienti… la gente perbene rispetta il cane per il padrone figuriamoci le anime sante dei nostri cari morti! Si mi votati ammia vi giuru ca a prima cosa chi fazzu è propriu chista: a lucia a ri muorti!

Dal palco, un misero banchetto addobbato col tricolore verde bianco e rosso, un omino mingherlino tutto ossa e nervi lancia la sua arringa nei confronti di una posizione “politica” indegna per la piccola comunità montana. Una comunità composta da poco più di mille anime, quel tanto che basta per far assurgere il piccolo borgo a municipio. Un municipio arroccato tra i monti delle preserre calabresi che ha in organico un vigile urbano, un banditore e un elettricista. Il postale, un rumoroso quanto pestilenziale autobus, passa due volte al giorno tre volte la settimana e fa la spola tra Catanzaro, il capoluogo, e Serra San Bruno; lungo il tragitto, dalla durata di un paio d’ore, la corriera effettua fermate obbligate nei paesi di Borgia, Squillace, Vallefiorita, Palermiti, Centrache, San Vito, Chiaravalle, Torre di Ruggiero e il conducente scarica il sacco della posta e i pochi pacchi che gli emigranti mandano dalla Germania, dall’Argentina o dall’America. Il bigliettaio, dopo avere tolto l’ultimo pacco dal bagagliaio s’affaccia al finestrino, scruta se c’è qualche viaggiatore ritardatario, dà un’occhiata all’orologio, lo ripone nel taschino del gilet e fa cenno al collega autista che tutto è a posto: jamu ja partimu Peppì ca a strata è longa. La corriera riparte, tra rumori di lamiera scrollata e un fumo denso di nafta mal combusta, si fa spazio tra la gente in ascolto, il comiziante scende dal banchetto e si fa da parte per farla passare.

(segue: detti calabresi)

venerdì 18 giugno 2010

Racconti di Calabria; le astuzie del barone

Racconti di vita in Calabria.

Le astuzie del barone:

Un tempo i grandi latifondisti, per lo più nobili, curavano dappresso i lavori nei campi e intervenivano con decisione per incrementare la produttività e far lavorare alacremente le maestranze malpagate con ogni mezzo. Vessazioni, improperi, erano all’ordine del giorno ma dopo le prime rivendicazioni sindacali, i morti e l’occupazione dei terreni incolti o abbandonati, i proprietari terrieri decisero di adottare sistemi di controllo poco invadenti per evitare che braccianti e contadini incrociassero le braccia e mandassero a monte colture e raccolti.
Uno di questi, un certo barone Stuckaz, che vantava origini austroungariche, dall’alto del suo cavallo fa cenno al massaro che pronto gli corre appresso. Giunti su un dosso, il barone, scende da cavallo, si guarda attorno con fare circospetto, e rivolgendosi al suo massaro farfuglia: “tu sei il migliore, però devi fare in modo col tuo esempio di far lavorare di più tutti. Vedi io ti stimo e come segno della mia fiducia ti ho portato un uovo, questo è un uovo fresco fresco che mi sono tolto dalla bocca per darlo a te, in segno di stima, quindi mi raccomando fai del tuo meglio e acqua in bocca! Questo deve essere un segreto tra me e te, mi raccomando!”.
Il massaro, contento per l’attestato di stima e la concretezza dimostrata dal barone corse al suo posto di lavoro e ci mise l’anima per non deluderlo.
I giorni seguenti il barone, nel consueto giro a cavallo, nelle sue terre ripete con contadini, pastori, massari, raccoglitrici la pantomima della fiducia e dell’uovo. Completato il giro e avendo coinvolto pressocchè tutti, sicuro della complicità dei beneficiati rimase qualche giorno in panciolle ma quando riprese i consueti giri di perlustrazione si accorse che nell’ultimo periodo c’era stata un po’ di rilassatezza. Allora, il barone Stuckaz, dall’alto del suo cavallo lanciò un urlo: “Attia e l’ovu, attia si dicu attia…”. Ehi tu tu dell’uovo… a questa esortazione tutti indistintamente diedero mano agli arnesi con laboriosità inusitata.

(segue: proclama elettorale)

giovedì 17 giugno 2010

relatività dei bisogni e sostegno morale: racconti calabresi


racconti di vita in Calabria

Relatività dei bisogni e sostegno morale.

In molte famiglie del sud quando la sorte decide di mutare il corso degli eventi e la vita del capofamiglia cessa, solitamente, se in età matura, il figlio maschio più grande subentra a espletare le esigenze cui era preposto il padre; assume la guida della famiglia, si prende cura dei fratelli più piccoli e presta attenzione alle esigenze della casa fino a quando qualcuno dei fratelli subentra nel ruolo lasciato vacante dal padre.
Ma non per tutti è così! Lo sa bene Ciccillo il figlio di don Salvatore, un musicista di banda che per il suo ruolo di direttore d’orchestra era stato soprannominato “u capu banda”.
Don Salvatore, il maestro di musica accoglieva i ragazzi del paese in casa sua, insegnava loro ad amare la musica, a giocare con gli strumenti, prima in maniera casuale, talmente casuale che la moglie, donna Peppina, una santa donna, per invogliare i ragazzi allo studio sistematico della musica e degli strumenti li rimpinzava con dolcetti fatti in casa e zucchero caramellato così da far cessare al più presto lo strazio disarmonico delle note distorte che si perdevano nell’aria.
Ciccillo era il più piccolo della nidiata, 9 figli viventi e due aborti naturali subiti da donna Peppina per stenti durante la guerra.
Un malaugurato giorno, don Salvatore radunò i ragazzi e caricati gli strumenti sul pulmino, partirono di buon mattino alla volta di Papanice. Lì, nel papaniciano crotonese, si celebrava la festa patronale e lui, come capobanda più conosciuto della zona avrebbe dovuto aprire le celebrazioni a san Pantaleone, protettore di Papanice nonché di medici, ginecologi e ostetriche. Purtroppo, la banda non arrivò mai nella frazione a sud di Crotone per colpa di un farabutto che scaricò a bruciapelo… ma andiamo per gradi:
don Salvatore, sistemati i ragazzi, dopo aver dato un’ultima occhiata alle corde che serravano gli strumenti sul portapacchi, sale in macchina, ingrana la prima e lentamente intraprende il viaggio. Superate numerose curve, nell’unico rettilineo, un pastore litigava animosamente con un contadino. Il maestro bloccò il pulmino e scese con l’intenzione di pacificare gli animi ma partì il colpo dalla doppietta imbracciata dal pastore e fu l’ultimo suono che don Salvatore sentì.

La notizia corse veloce nonostante l’assenza dei mezzi di comunicazione e donna Peppina ebbe il tempo di vederlo riverso sotto un albero con le mani pressate sull’addome. Scambiarono le ultime parole, ultime promesse d’amore e fedeltà. Donna Peppina non si risposò nonostante i moltissimi pretendenti, tra l’altro, era ancora una bella donna, molto attiva e con un discreto fondo terriero, ma lei pensò bene di mantenere fede alle ultime promesse fatte al marito e poi aveva il timore che il nuovo eventuale marito potesse maltrattare i figli. D'altronde, i figli più grandi erano autonomi da qualche anno, il primogenito lavorava come muratore e il secondogenito faceva il geometra. Il primo era più fisico, amava il lavoro manuale mentre il secondo, più delicato fisicamente, era più portato alla riflessione e allo studio.
Non si sa se vi siano stati dei programmi in famiglia, ma si suppone di sì. Fatto sta che i due figli maggiori, superato il tempo del lutto, partirono alla volta del nord. Il secondogenito, ancorato ai valori della famiglia e logorato dalla lontananza, dopo vari tentativi d’inserimento decise di ritornare a casa. Il primogenito, quello che avrebbe dovuto assumere su di sé il peso maggiore, curare i sopravvissuti e garantire un minimo benessere, bèh, di quello si sono perse le tracce. Ah, pare abbia famiglia e vive all’estero.

(segue: le astuzie del barone)

domenica 23 maggio 2010

Racconti di vita in Calabria: divagazioni tra arte, folklore, storia e contemporaneità

Racconti di vita in Calabria. 1.
Cucina mediterranea e sapori di Calabria. 
Calabria mistica .
Percorsi culturali, luoghi, paesi e artisti.

©archivio M.Iannino
Palermiti

Costumi e società.

Siamo agli inizi degli anni cinquanta in uno dei tanti centri calabresi retti esclusivamente dall’economia contadina, insomma uno di quei paesini piccoli piccoli persi tra i boschi dell’entroterra e spopolati dal miraggio economico industriale, fenomeno ammiccante che ha invogliato la gente a lasciare i campi e invadere Torino, Milano e le altre città del nord dove si sfornavano le prime 500, le prime televisioni in bianco e nero, i primi frigoriferi. Città industriali che offrivano possibilità maggiori a meccanici, muratori, operai siderurgici e tessili piuttosto che a braccianti.
Ecco, dicevo, in uno di quei paesini calabresi dove il tempo era scandito dai tocchi delle campane e dove ancora la giornata iniziava all’alba e finiva al crepuscolo per i contadini, dopo nove mesi d’attesa e un travaglio casalingo, una nuova vita rallegra la casa di una bella famigliola composta da quattro sorelle e due fratelli, ma non finisce qui. A quei tempi si diceva che il sangue è ricchezza! La gioia albergava nelle famiglie numerose cosicché, dopo due anni arrivò una sorellina.
Come nelle favole, le giornate trascorrevano, tutto sommato, tranquille. I bambini giocavano, andavano a caccia di lucertole e i grandi impegnavano il tempo a scuola e/o nei campi. L’impegno, naturalmente dipendeva dalla disponibilità economica ma anche dalla cultura del tempo. I latifondisti, i piccoli proprietari terrieri, cercavano di tesaurizzare tempo e colture, nel senso che associavano agli studi la gestione e la cura delle terre, mentre i contadini poveri vendevano le braccia di stagione in stagione.

(segue) gli anni del dopoguerra

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