Zelensky chiede, l’Occidente calcola
La guerra in Ucraina continua a essere un teatro di distruzione e calcolo geopolitico, dove le richieste di armi si intrecciano con interessi economici e strategie di potere.
A tre anni dall’invasione russa del 24 febbraio 2022, il conflitto in Ucraina ha lasciato cicatrici profonde: città devastate, milioni di sfollati, e una popolazione civile stremata. Ma la guerra ha anche rivelato il volto spietato della diplomazia globale, dove le risorse del suolo ucraino, come grano, litio e terre rare, sono diventate oggetto di interesse per potenze industriali e aziende multinazionali.
Nel frattempo, i paesi con industrie belliche avanzate hanno fornito armi a Kiev, spesso in cambio di accordi economici o strategici. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in visita alla Casa Bianca, ha chiesto missili Tomahawk, capaci di colpire a lungo raggio. Ma Donald Trump ha espresso freddezza: “Spero che la guerra finisca senza che l’Ucraina abbia bisogno dei Tomahawk”, ha dichiarato, sottolineando che fornire quei missili sarebbe un’escalation e che servono anche per la difesa americana.
Mosca ha reagito minacciando conseguenze gravi se tali armi venissero consegnate. E mentre Zelensky insiste sulla necessità di armamenti per difendere il paese, Trump mantiene una posizione ambigua: non ha detto no, ma nemmeno sì. Il leader ucraino ha ammesso che la questione territoriale sarà il nodo più difficile nei negoziati di pace, ma ha ribadito che un cessate il fuoco è prioritario.
Intanto, la NATO e l’UE discutono progetti come il “muro di droni” anti-Mosca, ma anche qui emergono tensioni: la NATO vuole gestirlo direttamente, frenando le ambizioni europee.
La guerra non è solo una tragedia umana, ma anche una vetrina di interessi economici, calcoli strategici e cinismo politico. Le richieste di armi da parte di Zelensky, pur comprensibili dal punto di vista difensivo, sollevano interrogativi etici: quanto costa, in termini di sovranità e futuro, ipotecare una nazione martoriata per ottenere strumenti di distruzione?
La narrazione eroica è una necessità umana: ci serve per dare senso al caos, per credere che il bene possa prevalere. Ma quando la realtà si fa guerra, lutto, distruzione, quella narrazione si incrina. Zelensky, come altri prima di lui, ha incarnato il sogno che la parola possa fermare il fuoco. Ma la storia — quella che non ha copione — lo ha costretto a recitare senza scenografia, sotto le bombe.
Chi osserva da lontano, come noi, non può parlare al posto di chi soffre. Ma può fare qualcosa di più sottile e duraturo: testimoniare. Non per spiegare, ma per ricordare. Non per vincere, ma per seminare.
La storia non insegna, è vero. Ma l’arte può raccontarla in modo che qualcuno, domani, la ascolti con il cuore aperto.
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