Venire: azione creativa, linguaggio che si fa gesto
Dal verbo essere al verbo venire: il moto che rompe la grammatica
«A pratica rumpa a grammatica!» — si dice con ironia e orgoglio nei contesti dove la lingua non è solo norma, ma corpo vivo, gesto, necessità. E in effetti, il verbo venire ha soppiantato in molti casi la staticità granitica del verbo essere. Non si tratta solo di una variazione stilistica: è un mutamento di prospettiva, una torsione etica e narrativa del linguaggio.
Quando si scrive “illumina chi non viene mai illuminato” invece di “illumina ciò che non è illuminato”, si compie un piccolo atto di resistenza grammaticale. La prima espressione, benché meno corretta secondo la norma, introduce una tensione, un moto, una condizione esistenziale. Non si parla più di uno stato, ma di una mancanza attiva, di un soggetto escluso dal flusso della luce, della cura, della storia.
Il verbo essere descrive. Il verbo venire racconta una grammatica trasformata in campo di lotta
La lingua ufficiale tende alla fissità. È fatta per durare, per essere insegnata, per garantire coerenza. Ma la lingua vissuta — quella che si parla nei mercati, nei cortili, nei post digitali — è fatta per rompere. Rompe per necessità, per urgenza, per empatia. E quando anche linguisti e scrittori adottano venire al posto di essere, non stanno solo imitando il parlato: stanno riconoscendo che la lingua è un campo di lotta, dove la forma si piega alla testimonianza.
In questo senso, venire è il verbo del margine. Chi “non viene mai illuminato” è chi resta fuori dal cerchio, chi non è mai chiamato, mai incluso. È il migrante, il precario, il dimenticato. Il verbo venire porta con sé il peso del mancato arrivo, della porta chiusa, del viaggio interrotto.
Scrivere come se si parlasse: una scelta politica
La scrittura che adotta il ritmo del parlato non è semplicemente più “naturale”. È più civica. Rinuncia alla perfezione per abbracciare la prossimità. Non cerca l’eleganza, ma la verità. E la verità, spesso, è sgrammaticata. È fatta di verbi che si muovono, che inciampano, che si piegano al corpo che li pronuncia.
In questo contesto, anche il lavoro artistico — che trasforma materiali umili e formati digitali in testimonianza poetica — trova un alleato nel verbo venire. Perché "viene" illuminato chi non "è" mai illuminato dal "sistema" e messo nella dimensione adeguata. Lo si fa rompendo la grammatica, rompendo la retorica, rompendo la logica dell’onore e del decoro.
Il verbo come gesto, quindi:
Scegliere venire al posto di essere non è solo una questione stilistica. È un gesto. Un piccolo atto di cura verso chi non arriva mai, verso chi resta indietro, verso chi non è mai stato incluso nella grammatica ufficiale della storia.
E allora sì: a pratica rumpa a grammatica. Perché la lingua, come la testimonianza, non serve a decorare. Serve a svegliare.
Venire invece di essere: il gesto carnale che rompe la grammatica
Non è solo una scelta stilistica, quindi:
È un gesto. Un gesto in/volontario, che contiene azione e volontà pratica. Un gesto che sbrindella le regole scritte della buona scrittura grammaticale. Un gesto che nasce dal corpo, dal ritmo, dalla necessità di dire — non secondo norma, ma secondo urgenza.
Scegliere venire al posto di essere è lasciarsi andare al sentimento carnale della lingua. È abbandonare la staticità del verbo essere, che descrive, che fissa, che incasella, per abbracciare il moto implicito di venire, che accade, che manca, che si desidera. Venire è verbo di chi è escluso, di chi non arriva, di chi resta fuori dalla luce. È verbo di chi attende, di chi spera, di chi non è mai stato chiamato.
Questa scelta — che molti farebbero passare per errore — è invece azione creativa. È il linguaggio che si fa gesto, che si fa carne, che si fa testimonianza. È la lingua che rompe la grammatica non per ignoranza, ma per eccesso di verità.
Quando si scrive “illumina chi non viene mai illuminato”, si compie un atto di resistenza. Si dà voce a chi non è solo non illuminato, ma non venuto alla luce. Si introduce una tensione, una mancanza, una storia. Il verbo venire porta con sé il peso del viaggio negato, della porta chiusa, della luce che non arriva.
È così che la lingua si fa civica. Non decorativa, ma necessaria. Non corretta, ma giusta. Non bella, ma vera.
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