Il tavolo del nonno
"... nonno posso mettermi a disegnare al tuo tavolo da lavoro? dai dai nonnino tiprego.
Va bene ma fai attenzione, vedi che qua è tutto un macello, laa stanza è troppo piena..."
Il nonno, un anziano pittore, seduto dall'altra parte dello studio, lascia il suo dafare e traccia un bozzetto con la matita grassa...
IL TAVOLO DEL NONNO
📖 Prefazione
Ci sono storie che non si scrivono con l’inchiostro, ma con la grafite della memoria. Il Tavolo del Nonno è una di queste. È il racconto di un gesto semplice — una bambina che chiede di disegnare — che diventa il seme di un’eredità creativa. È un viaggio che attraversa generazioni, dove l’arte non è solo tecnica, ma ascolto, cura, trasmissione.
In queste pagine troverete il profumo della trementina, il rumore dei fogli accartocciati, la luce dorata che entra da una finestra. Ma soprattutto troverete mani che si tendono, occhi che osservano, e cuori che imparano a vedere.
Questo libro è per chi ha avuto un nonno che gli ha insegnato a guardare il mondo con occhi diversi. Per chi crede che l’arte sia un ponte, non un traguardo. E per chi sa che ogni tavolo da lavoro può diventare un altare di bellezza.
💌 Dedica
A chi ha ricevuto un pennello al posto di una risposta.
A chi ha imparato a parlare con i colori.
A Manuela e Valentina, perché ogni linea che tracceranno sarà anche una carezza del passato.
📚 Quarta di copertina
Cecilia era solo una bambina quando chiese al nonno di disegnare al suo tavolo da lavoro. Quel gesto, semplice e tenero, diede inizio a una storia che attraversa il tempo: dal primo bozzetto tracciato con matita grassa, alla scoperta dell’arte come forza sociale, fino alla nascita di nuove mani creative — quelle delle sue figlie, Manuela e Valentina.
Il Tavolo del Nonno è un racconto illustrato che celebra la bellezza della trasmissione, la potenza silenziosa dell’arte, e il legame profondo tra generazioni. Con tavole poetiche e parole che accarezzano, questo libro è un invito a custodire ciò che ci è stato donato, e a donarlo ancora.
✍️ Presentazione dell’autore
Il nonnino vive a Catanzaro, in Calabria, dove il vento porta con sé storie antiche e il mare riflette sogni nuovi. Scrittore e narratore visivo, ama intrecciare parole e immagini come fili di tela. Il Tavolo del Nonno nasce dal desiderio di raccontare l’eredità silenziosa che l’arte lascia nei gesti quotidiani, nei ricordi familiari, e nei piccoli occhi che imparano a vedere.
Quando non scrive, Nonnino, osserva. E quando osserva, crea.
È una storia che parla di eredità, creatività e amore che attraversa le generazioni.
Buona lettura😉
Il Tavolo del Nonno
Nel cuore di uno studio colmo di colori, tele impolverate e barattoli di vetro, viveva il nonno. Un pittore silenzioso, con le mani segnate dal tempo e gli occhi pieni di mondi. Ogni giorno sedeva al suo tavolo da lavoro, dove il caos diventava armonia sotto il tocco della sua matita grassa.
Un pomeriggio d’autunno, mentre la luce filtrava dorata tra le tende, una vocina ruppe il silenzio:
— Nonno, posso mettermi a disegnare al tuo tavolo da lavoro? Dai dai nonnino, ti prego…
Il nonno sollevò lo sguardo, sorrise sotto i baffi e rispose:
— Va bene, ma fai attenzione. Vedi che qua è tutto un macello, la stanza è troppo piena.
La bambina si arrampicò sullo sgabello, troppo alto per lei, e si mise a disegnare con la lingua tra i denti, come se ogni linea fosse una magia da domare. Il nonno, dall’altra parte dello studio, lasciò il suo dafare. Prese la matita grassa e iniziò a tracciare un bozzetto: lei, piccola e concentrata, immersa nel suo primo gesto creativo.
Il disegno non era perfetto. Ma era vero. Dentro c’erano l’amore, la pazienza, e quella scintilla che solo chi ha vissuto sa riconoscere.
Il Dono
Il giorno seguente, il sole si era appena arrampicato sopra i tetti, e lo studio del nonno era già immerso in quella luce dorata che sembrava fatta apposta per dipingere. La bambina entrò in punta di piedi, sperando di non disturbare. Ma il nonno l’aspettava.
— Vieni, piccola artista, disse con un sorriso che sapeva di segreti da svelare.
Dal fondo della stanza, tirò fuori una cassetta in legno, consumata ai bordi, con l’odore di trementina e sogni. L’aprì lentamente, rivelando colori ad olio, pennelli di ogni misura, spatole, carboncini, e una piccola tavolozza macchiata di mille sfumature.
— Questa è la mia vecchia compagna di viaggio, disse. Ora è tua.
Poi sollevò un treppiedi pieghevole, leggero ma robusto, perfetto per dipingere en plein air.
— Quando il mondo chiama, non si può restare chiusi tra quattro mura. Questo ti porterà dove i colori nascono: tra gli ulivi, sotto il cielo, accanto al mare.
La bambina lo abbracciò forte, lasciando una piccola impronta di grafite sulla camicia del nonno. E così, con la cassetta in mano e il treppiedi sotto il braccio, uscì nel giardino, pronta a dipingere il mondo.
Il Primo Quadro
Quel pomeriggio, il giardino sembrava più grande del solito. Il cielo era un mare di azzurro, e le foglie danzavano leggere nel vento. La bambina montò il treppiedi con attenzione e posizionò la tela. Davanti a lei, un vecchio ulivo contorto si stagliava contro il cielo, con le sue radici che sembravano mani pronte ad abbracciare la terra.
Dipinse lentamente, mescolando i colori con esitazione e stupore. Il verde non era mai solo verde. C’era il verde che rideva, il verde che dormiva, il verde che ricordava. E il cielo? Non era mai solo blu. Era nostalgia, era promessa, era silenzio.
Il nonno la osservava da lontano, seduto su una sedia di vimini. Non disse nulla. Ma quando la bambina tornò con la tela tra le mani, lui la guardò a lungo, poi prese un vecchio telaio di legno e lo incorniciò con cura.
— Questo non è solo il tuo primo quadro, disse. È il primo sguardo che hai dato al mondo.
La Maestra
Gli anni passarono come stagioni. La bambina crebbe, e con lei crebbe la sua arte. Studiò, viaggiò, espose. Ma non dimenticò mai il tavolo del nonno, né la cassetta in legno che portava con sé come un talismano.
Un giorno, in una scuola di periferia, si trovò davanti a una classe di bambini vivaci e curiosi. Alcuni non avevano mai tenuto un pennello in mano. Altri non sapevano che i colori potessero parlare. Lei li guardò, e capì.
Capì che l’arte non era solo bellezza. Era potenza creativa. Era uno strumento per raccontare, per guarire, per costruire. Era voce per chi non ne aveva. Era casa per chi si sentiva perso.
— Oggi non vi insegnerò a disegnare, disse. Vi insegnerò a vedere.
E così, la bambina diventata maestra aprì la sua cassetta, montò il treppiedi, e iniziò a dipingere con loro. Non su una tela, ma nei cuori.
I Riccioli d’Oro
Cecilia, la bambina che un tempo disegnava con la lingua tra i denti e il cuore pieno di meraviglia, è ora una donna. Madre premurosa di due gemelline dai riccioli d’oro: Manuela e Valentina. Due raggi di sole che corrono per casa con le mani sporche di tempera e gli occhi pieni di domande.
Il vecchio treppiedi è ancora lì, accanto alla finestra. La cassetta in legno, ormai levigata dal tempo, custodisce ancora i colori del nonno. Cecilia la apre ogni tanto, come si apre un libro di preghiere, e lascia che le sue figlie ci affondino le dita, mescolando il blu con il giallo, il rosso con il verde, senza paura.
— Mamma, possiamo disegnare al tuo tavolo da lavoro? Dai dai, ti prego…
Cecilia sorride. Le parole sono le stesse, ma ora è lei a pronunciarle con la voce del nonno nel cuore.
— Va bene, ma fate attenzione. Vedi che qua è tutto un macello…
Le bimbe ridono, si arrampicano sugli sgabelli, e iniziano a disegnare. Cecilia le osserva, poi prende la matita grassa e traccia un bozzetto: due piccole artiste, immerse nel loro mondo, circondate da barattoli, pennelli e sogni.
Il Museo Silenzioso
Era una domenica di primavera quando Cecilia decise di portare le gemelle nel vecchio studio del nonno. La casa era rimasta chiusa per anni, ma il tempo non aveva cancellato il profumo di trementina né il silenzio carico di memoria.
Manuela e Valentina entrarono correndo, ma si fermarono di colpo. Davanti a loro, il tavolo del nonno. I barattoli, le tele, le matite grasse. Tutto era lì, come se aspettasse ancora una mano gentile.
— Questo era il regno del mio nonno, disse Cecilia. Qui ho imparato a vedere il mondo con occhi diversi.
Le bimbe si avvicinarono al tavolo. Cecilia aprì un cassetto e ne tirò fuori un foglio ingiallito. Era il bozzetto del nonno, quello che la ritraeva bambina, con la lingua tra i denti e lo sguardo concentrato. Sopra, la scritta:
“L’arte non si insegna. Si trasmette.”
Le gemelle lo guardarono in silenzio, poi si sedettero al tavolo. Cecilia prese la cassetta in legno, la aprì, e lasciò che le mani delle bambine scegliessero i colori. Nessuna lezione, nessuna regola. Solo libertà.
Fu allora che Cecilia capì: il vecchio studio non era solo un luogo. Era un museo silenzioso, dove ogni oggetto raccontava una storia, e ogni gesto era un ponte tra passato e futuro.
"... mamma mammina corri vieni qua presto guarda cosa abbiamo trovato. nel capanno dietro lo studio...!"
Il Capanno Segreto
— Mamma, mammina! Corri, vieni qua presto! Guarda cosa abbiamo trovato!
Le voci di Manuela e Valentina rimbalzavano tra le piante del giardino come farfalle impazzite. Cecilia, ancora assorta nel silenzio dello studio, si alzò di scatto e seguì le gemelle, incuriosita.
Dietro lo studio, nascosto tra rovi e vecchie assi di legno, c’era un piccolo capanno. La porta cigolava come se non fosse stata aperta da anni. Le bambine l’avevano scostata con la forza dell’entusiasmo, e dentro… il tempo si era fermato.
Il nonno, quando la sua stanza era diventata impraticabile, aveva trasferito lì il suo mondo. Il cavalletto, un po’ storto ma ancora in piedi, era appoggiato contro la parete. Accanto, una cassetta più piccola, con alcuni colori ad olio, un barattolo di trementina, e una tavolozza macchiata di nuove sfumature.
Cecilia si avvicinò lentamente. Sul cavalletto, una tela incompleta. Solo pochi tratti, ma bastavano: il profilo di una bambina, forse lei, forse una delle gemelle. Un gesto interrotto, ma pieno di intenzione.
— Non poteva stare fermo, sussurrò. Anche quando il corpo lo tradiva, le mani cercavano ancora il mondo.
Le gemelle si sedettero sul pavimento polveroso, incantate. Cecilia prese la tela, la poggiò sul tavolo, e con un pennello sottile iniziò a completare il disegno. Non per correggerlo, ma per accompagnarlo. Come si fa con una melodia lasciata a metà.
Fu lì, nel capanno dimenticato, che l’arte tornò a respirare. Non come memoria, ma come presenza viva. E il nonno, in qualche modo, era ancora lì. Tra le macchie di colore, tra le linee appena accennate, tra le mani di chi aveva imparato a vedere.
Capitolo VII: La Stanza che Respira
Era una mattina di settembre, l’aria ancora tiepida e il cielo punteggiato di luce. Cecilia, con le gemelle al suo fianco, tornò nello studio del nonno. Ma questa volta non per ricordare. Per ricominciare.
Avevano ripulito il capanno, restaurato il cavalletto, lucidato la cassetta in legno. Ogni oggetto era stato toccato con rispetto, come si fa con le reliquie. Ma ora era tempo di aprire le porte.
Cecilia affisse un piccolo cartello fuori dalla casa:
Scuola d’Arte Popolare – Il Tavolo del Nonno
Per chi vuole imparare a vedere.
I primi bambini arrivarono timidi, con fogli piegati e matite consumate. Poi vennero i ragazzi, gli adulti, persino gli anziani. Ognuno portava qualcosa: un sogno, una ferita, un ricordo. E ognuno trovava qualcosa: uno spazio, una voce, un colore.
Manuela e Valentina, ormai cresciute, aiutavano a preparare le tele, a mescolare i pigmenti, a raccontare la storia del nonno. Ogni tanto si sedevano al tavolo e disegnavano, come quel giorno lontano in cui tutto era cominciato.
Cecilia osservava. Non insegnava. Trasmetteva.
E lo studio, che un tempo sembrava abbandonato, ora respirava. Le pareti erano vive di schizzi, le finestre aperte al vento, il pavimento pieno di passi. Il cavalletto non era più vuoto. Ogni settimana, una nuova tela. Ogni tela, una nuova voce.
Un giorno, una bambina si avvicinò a Cecilia e chiese:
— Posso disegnare al tuo tavolo da lavoro?
Cecilia sorrise, come aveva fatto il nonno.
— Va bene, ma fai attenzione. Vedi che qua è tutto un macello…
E così, il tavolo del nonno continuò a vivere. Non come oggetto, ma come luogo dell’anima. Dove l’arte non si insegna. Si trasmette.
ps.
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