Body art come antidoto social
OGGI:
Parliamo dell’ossessione per la fisicità nel mondo dello spettacolo e la sua ambigua relazione con l’identità, l’arte e il narcisismo.
Nel panorama mediatico contemporaneo, il corpo è diventato una sorta di biglietto da visita. Non basta più saper cantare, recitare, o esprimere un talento: bisogna anche “apparire”. Questo vale per tutti, indipendentemente dal genere o dal ruolo. La bellezza fisica diventa una condizione quasi imprescindibile per essere visibili, desiderabili, vendibili. neo diversi ruoli: i Cantanti curano più l’immagine che la voce. Gli Attori sono selezionati per l’estetica prima che per la profondità interpretativa. E persino il Pubblico stesso che deve fare da corollario si sente chiamato a rispondere a canoni estetici imposti dalla produzione.
E, nel teatrino globale dell'apparire, la creatività corre ai ripari:
La body art nasce come forma di espressione radicale: il corpo diventa tela, linguaggio, provocazione. Ma anche qui il confine è sottile e qualche interrogativo si pone:
- È trasgressione o autocelebrazione?
- È denuncia dei canoni o reinvenzione degli stessi?
- È libertà o nuova prigione estetica?
Molti artisti usano il corpo per raccontare storie, traumi, identità, ma il rischio è che anche questa forma venga inglobata nel sistema narcisistico dello spettacolo, dove l’apparenza vince sulla sostanza.
Il corpo non è solo estetica. È memoria, è politica, è cultura. Può essere:
- Veicolo di protesta (pensiamo alle performance femministe o queer).
- Strumento di guarigione (nell’arte terapia, nella danza contemporanea).
- Spazio di identità fluida, dove genere, appartenenza e espressione si mescolano.
Ma per arrivare a questo livello di lettura, serve uno sguardo critico, consapevole, capace di distinguere tra ciò che è espressione e ciò che è esibizione.
La body art come forma di resistenza è una delle espressioni più potenti e radicali dell’arte contemporanea. Qui il corpo non è solo mezzo, ma messaggio. Non si tratta di decorazione o estetica, ma di posizione politica, denuncia sociale, rivendicazione identitaria.
La body art nasce negli anni ’60 e ’70 in un contesto di contestazione: guerra, patriarcato, razzismo, repressione sessuale. Gli artisti iniziano a usare il proprio corpo per:
- Sfidare i tabù: nudità, dolore, sangue, fluidi corporei diventano strumenti di rottura.
- Denunciare il controllo sociale: il corpo non più oggetto da disciplinare, ma soggetto che si autodetermina.
- Rivendicare identità marginalizzate: queer, femministe, persone razzializzate usano la body art per affermare la propria esistenza.
Performer come:
- Marina Abramović: con performance come Rhythm 0, mette il corpo a disposizione del pubblico, mostrando quanto sia fragile il confine tra arte e violenza.
- ORLAN: usa la chirurgia estetica come mezzo artistico, decostruendo i canoni di bellezza imposti.
- Zoe Leonard e Ana Mendieta: esplorano il corpo femminile come territorio di memoria, trauma e resistenza.
La body art resiste perché è sinonimo di corpo politico e poetico:
- Rifiuta la mercificazione: non si può vendere un corpo che sanguina, che urla, che si espone vulnerabile.
- Interroga lo spettatore: non lo intrattiene, lo mette a disagio, lo costringe a riflettere.
- Rompe la passività: chi guarda diventa parte dell’opera, complice o testimone.
Nel presente, la body art si è evoluta. Alcuni artisti la portano sui social, altri nelle piazze, ed È ancora resistenza quando:
- Denuncia la transfobia, il razzismo, la violenza di genere.
- Rivendica corpi non conformi, disabili, grassi, queer.
- Usa il corpo per dire: “Io esisto, anche se non rientro nei vostri standard.”
di contro, il ruolo dei social media nella costruzione di un’esistenza riflessa, spesso fonte di insoddisfazione e frustrazione. È un tema che tocca la psicologia, la sociologia, l’estetica e persino la filosofia dell’identità.
Social media come specchio deformante:
I social media non riflettono la realtà: la modellano, la filtrano, la curano. L’identità che vi si costruisce è spesso una versione idealizzata, selezionata, performativa di sé. Questo genera:
- Confronto costante: ci si misura con vite altrui che sembrano perfette, felici, realizzate.
- Ansia da prestazione: ogni post è una prova, ogni like una conferma, ogni commento un giudizio.
- Alienazione da sé: si finisce per vivere più nel profilo che nella propria pelle.
L' “esistenza riflessa” — ovvero quella che vive nello sguardo degli altri — può diventare una prigione:
- Nel corpo come vetrina quando: si cerca l’approvazione attraverso l’estetica, non l’autenticità.
- La vita come contenuto: esperienze vissute non per sé, ma per essere condivise.
- La felicità come performance: si mostra di essere felici, anche quando non lo si è.
Il risultato? Un senso di vuoto, di inadeguatezza, di disconnessione dalla propria verità.
Numerosi studi hanno collegato l’uso intensivo dei social a:
- Depressione e ansia: soprattutto tra i giovani.
- Disturbi dell’immagine corporea: alimentati da filtri e modelli irraggiungibili.
- Dipendenza da validazione esterna: il bisogno compulsivo di essere visti, approvati, celebrati.
l'invito a resistere all’esistenza riflessa è un atto d'amore per sè stessi.
La resistenza passa per:
- Autenticità radicale: mostrarsi vulnerabili, imperfetti, veri.
- Disconnessione consapevole: prendersi pause, tornare al corpo, alla presenza.
- Riappropriazione del sé: vivere esperienze senza doverle documentare.
Essere unici! costruire identità propositive non per esporre in vetrina ipotetiche potenzialità virtuali ma per crescere e costruire realtà migliori.
La body art come antidoto contro l’estetica social è una forma di resistenza viscerale, poetica e politica. In un mondo dove i corpi vengono filtrati, ritoccati, esibiti per piacere agli algoritmi, la body art si impone come gesto di verità: crudo, imperfetto, autentico.
Contro il filtro, la ferita!
I social media impongono un’estetica levigata: pelle liscia, pose studiate, sorrisi calibrati. La body art, invece, mostra:
- Corpi segnati: cicatrici, smagliature, fluidi, dolore.
- Gesti estremi: incisioni, performance fisiche, esposizione del disagio.
- Presenza reale: non mediata, non modificata, non vendibile.
È un’arte che rifiuta la perfezione e abbraccia la vulnerabilità.
Il corpo come dissenso, dunque.
La body art diventa un atto di dissenso contro:
- La standardizzazione dell’identità: dove tutti devono somigliarsi per piacere.
- La mercificazione del sé: dove il corpo è prodotto da vendere.
- La dittatura del like: dove il valore è misurato in approvazione digitale.
Invece di cercare consenso, la body art cerca conflitto, riflessione, scossa.
Molti performer contemporanei usano il corpo per sfidare l’estetica social:
- Franko B: con il suo corpo sanguinante, denuncia la violenza invisibile della società.
- La Pocha Nostra: collettivo che usa il corpo per decostruire stereotipi razziali e sessuali.
- Emma Sulkowicz: con la performance Carry That Weight, trasforma il trauma in arte pubblica.
Questi corpi non cercano di piacere. Cercano di esistere, disturbare, sopravvivere.
La body art ci ricorda che il corpo è imperfetto:
- Il corpo non è un contenuto: è esperienza.
- La bellezza non è conformità: è verità.
- L’identità non è immagine: è processo.
In questo senso, è un antidoto potente contro l’estetica social: non perché nega l’immagine, ma perché la trasforma in linguaggio, in lotta, in poesia incarnata.
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