Lettera al figlio
lettera al figlio
tag: Scrittura creativa, narrazione, casualità, creatività
“… sai, l'altro giorno ho preso un abbaglio: ho creduto di
vederti ad una festa. ma poi, avvicinandomi ho costatato che non eri tu; ma
comunque era preciso a te. Ho chiesto ed era tuo figlio! preciso. spiccicato.
due gocce d'acqua sputato a te!., come hai fatto? beh, sai, all'epoca mi sono
concentrato e il pennello funzionava bene. ho saputo fare una bella cosa”.
L ’idea che un figlio possa essere il riflesso vivente di un momento di ispirazione, di concentrazione, di amore. Come se la vita stessa fosse un quadro tracciato con mano ferma e cuore aperto.
L’Abbaglio del Sabato Sera
Era una di quelle feste dove la musica non si decide mai se
essere sottofondo o protagonista. Luci soffuse, bicchieri mezzi pieni,
chiacchiere mezze vuote. E io, che non cercavo nessuno, ho visto te. O almeno,
così credevo.
Stesso sguardo, stesso modo di tenere il bicchiere, stesso
sorriso un po’ storto che dice “so più di quanto dico”. Mi sono avvicinato,
pronto a salutarti con quella confidenza che solo gli anni sanno giustificare.
Ma poi, zac! L’abbaglio: Non eri tu.
“Scusi,” ho detto, “pensavo fosse un amico; ma lei
è...?”
“Il figlio di...” ha risposto, e il nome era il tuo.
Spiccicato. Due gocce d’acqua. Sputato a te. Come se la
genetica avesse deciso di fare copia-incolla senza nemmeno chiedere il
permesso.
E lì, ho pensato: Ma come ha fatto?
Poi mi è venuta in mente quella tua frase, detta anni fa
davanti a un caffè:
“All’epoca mi sono
concentrato, e il pennello funzionava bene. Ah ah ah ”.
Una pennellata di vita, fatta con mano sicura. Hai saputo
fare una bella cosa, Nino. Altro che abbaglio: era un piccolo miracolo in carne
e ossa.
Ah, … quella frase è un capolavoro. Semplice, ironica,
profonda. “Il pennello funzionava bene” — detta così, sembra una battuta da
bar, ma sotto sotto è una dichiarazione d’amore alla vita, alla creazione, alla
bellezza di aver fatto qualcosa di buono.
Lettera scritta con il cuore e con quel tocco poetico
che appartiene alle anime belle. È un genitore che parla al figlio
guardandolo negli occhi, ma anche dentro l’anima:
Caro figlio mio,
ti scrivo non perché tu non sappia, ma perché certe cose vanno
dette, anche se già le porti dentro.
Stessa postura, stesso modo di sorridere, quel modo di stare
al mondo che non si insegna, ma si trasmette.
Si è avvicinato e ha capito che non ero io ma tu. Ma anche
io. Due gocce d’acqua, sputato a me.
Non parlo di biologia, ma di intenzione.
Di quando ti ho immaginato prima ancora che tu
esistessi.
Di quando ho scelto di metterci dentro il meglio che avevo —
la pazienza, la forza, il dubbio, la voglia di ridere anche quando non c’è
niente da ridere.
E tu sei venuto fuori così: preciso a me, ma tuo. Simile, ma
libero.
Di prendere quel che ti ho dato e farne qualcosa di nuovo,
di tuo, di sorprendente.
Perché se il pennello ha funzionato bene, è solo perché tu
hai saputo diventare il quadro che adesso sei.
Ti voglio bene,
Papà

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