Nel cuore dell’assurdo: perché continuo a giocare
La libertà inutile: elogio del gesto che non serve.
In un mondo che non offre risposte, il gesto gratuito diventa un atto di resistenza: creare, pensare, immaginare senza scopo è forse la forma più autentica di libertà.
In un’epoca che pretende scopi e risultati, difendere il diritto all’inutile significa difendere l’essere umano nella sua forma più radicale.
Ci sono giorni in cui mi domando perché continuo a fare ciò che faccio. Perché mi ostino a scrivere, a immaginare, a costruire pensieri che non hanno un destinatario, un committente, un’utilità riconoscibile. In un’epoca che misura tutto in termini di produttività, efficienza, ritorno, io mi ritrovo a coltivare gesti che non producono nulla se non un fragile senso di presenza.
Il mio non è lavoro, perché non genera valore economico. Non è hobby, perché non nasce dal bisogno di svago. Non è vocazione, perché non risponde a nessun richiamo superiore.
Eppure, io continuo.
Continuo perché, nel silenzio del mondo, sento l’assurdo affacciarsi. È quella frattura tra il desiderio umano di significato e l’indifferenza della realtà. Una frattura che potrebbe paralizzare, e che invece, in me, genera movimento. Non un movimento finalizzato, non un progetto, ma un gesto: un fare che non serve a niente e proprio per questo diventa essenziale.
Scrivo per non soccombere al non-senso. Penso per non dissolvermi nella passività. Immagino soluzioni a problemi che nessuno mi ha affidato, come se il solo atto di pensarli fosse già un modo di abitare il mondo.
Il mio è un gioco serio, un gioco adulto. Un gioco che non intrattiene, ma sostiene. Che non distrae, ma radica. Che non risolve, ma apre. In questo gioco, l’assurdo non è un nemico da combattere, ma un orizzonte da attraversare. È la condizione stessa che rende possibile la libertà: se nulla ha un senso prestabilito, allora ogni gesto può diventare un atto di creazione.
E così, mentre il mondo corre verso obiettivi sempre più misurabili, io rivendico il diritto all’inutile. Rivendico la dignità del pensiero che non produce, della parola che non convince, dell’idea che non cambia nulla. Rivendico il valore del gioco come forma di resistenza all’omologazione, come spazio in cui l’essere umano può ancora permettersi di essere più grande delle sue funzioni.
Perché nell’assurdo, io gioco. E giocando, per un istante, mi sento libero.
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