Il fuoco sussurra.
Il fuoco sussurra:
Emana l’ultimo respiro collettivo nel falò di fine anno che
accoglie legna, memorie e desideri: nelle sue fiamme si dissolvono le ombre del
passato mentre il nuovo tempo, ancora fragile, attende di essere nominato e vissuto.
Il fuoco che resta: riti antichi per passi nuovi.
Mentre il 2025 si chiude e le tradizioni resistono al tempo,
il falò di fine anno diventa il gesto collettivo con cui bruciare pesi,
delusioni e sogni rimasti sospesi, per lasciare spazio a direzioni ancora da
immaginare.
Non è necessario avere letto gli esistenzialisti, Sartre,
Camus, Kierkegaard, Nietzsche e altri per impostare nuove direzioni ai propri
passi. A volte basta ascoltare il ritmo silenzioso dei giorni che passano, il
peso delle scelte rimandate, il desiderio ostinato di ricominciare. E mentre
questo 2025 è ormai alla porta d’uscita, con le tradizioni popolari che tardano
a morire nonostante le ripetute delusioni, qualcuno continua a sostenerle con
una dedizione quasi rituale. Persone di ogni età si prodigano a raccogliere
legna per il falò di fine anno, un gesto antico che resiste al tempo: dentro
quelle fiamme si bruciano le negatività, le vecchie mozioni di sogni
irrealizzati, tutto ciò che si vuole lasciare indietro prima di varcare la
soglia del nuovo anno.
Non serve aver letto gli esistenzialisti per intuire che
ogni essere umano, in fondo, cerca un varco, un nuovo orientamento, un modo per
rimettere in moto i propri passi. La filosofia può dare parole, ma l’esperienza
dà il ritmo. E il falò di fine anno è un gesto archetipico. Nonostante le
delusioni, nonostante la consapevolezza che bruciare un pezzo di legno non
cambia il mondo, le persone continuano a farlo. E non per ingenuità: spesso lo
fanno perché quel rito dà forma a qualcosa che altrimenti resterebbe informe. È
un modo per dire: “questo lo lascio andare, questo lo affido al fuoco, questo
non lo porto con me nel nuovo anno”.
C’è qualcosa di profondamente umano nel raccogliere legna
insieme, nel condividere un gesto che appartiene a generazioni. È come se la
comunità si concedesse un momento collettivo di sospensione, un piccolo atto
simbolico per rimettere ordine dentro il caos.
E forse è proprio questo il punto: non serve aver letto Sartre
per capire che la libertà è anche scegliere quali pesi non portare più. Non
serve aver studiato Camus per percepire l’assurdo e, nonostante tutto,
continuare a costruire. Non serve Nietzsche per intuire che ogni fine è anche
un inizio.
E tu, che sei capitato qui, come vivi questo passaggio di
fine anno? Lo senti come un rito, una formalità, o qualcosa di più intimo?
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