Estate sullo jonio, tra fichi d'india e stelle


Ogni estate, tra le pietre calde del casolare e il respiro salato dello Jonio, qualcosa si muoveva dentro di me. Non era solo il ritorno a casa, ma un viaggio tra memorie, incontri, strade sterrate e silenzi che parlano. Questo è il racconto di un’estate che ha avuto il suono di una chitarra, il passo di un labrador fulvo, e lo sguardo di Teresa, che curava gli animali come si curano le ferite dell’anima.



E' una storia comune a tanti calabresi emigrati che, come ogni anno, alla fine della scuola si spostano nei paesi d'origine, in Calabria,. La mia famiglia si spostava nella casa di campagna affacciata sullo jonio. 

Il panorama che si gode  ancora oggi dalla sommità del costone roccioso è mozzafiato, e il silenzio è cadenzato dal canto delle cicale, dei grilli e sopra ai loro fastidiosi richiami si leva il dolce fischiettio degli uccelli. 

Il casolare è immerso nella campagna, su un alto spuntone roccioso quasi ricoperto da enormi piante di fichi d'india. Di anto in tanto, Micu il pastore che ogni mattina porta il latte caldo e appena munto, porta anche un agnellino: donna Angiulina cuomu voliti u vu mmazzu? vu hazzu ccà oppuru vu puortu a piezzi?  E i fhjicatieddhi i voliti oppuru no? ia vi dirria pemmu i fhaciti nzema a ri ntestini, macari apparta vi fhaciti na beddha stigghiolata…

Un racconto breve che racchiude la magia delle mie estati calabresi.

 

Estate sullo Jonio

 

Ogni anno, quando la scuola chiude i battenti e l’aria si fa più leggera, la mia famiglia parte verso sud, verso la nostra casa di campagna in Calabria. Il casolare, antico e solido, si erge su uno spuntone roccioso affacciato sullo Jonio, circondato da fichi d’India che sembrano sentinelle silenziose. Il panorama è un quadro vivo: il mare scintilla in lontananza, il cielo si fonde con l’orizzonte, e il silenzio è rotto solo dal canto delle cicale, dei grilli e dal fischiettio degli uccelli.

 

Ogni mattina, puntuale come il sole, arriva Micu il pastore. Con le mani grandi e il volto scavato dal tempo, ci porta il latte caldo, appena munto. A volte, con sé ha un agnellino. “Donna Angiulina, cuomu voliti u vu mmazzu? Vu hazzu ccà oppuru vu puortu a piezzi?” chiede con rispetto e familiarità. E poi, quasi sempre, aggiunge: “I fhjicatieddhi i voliti oppuru no? Ia vi dirria pemmu i fhaciti nzema a ri ntestini, macari apparta vi fhaciti na beddha stigghiolata.”



Estate sullo Jonio – Il compagno silenzioso

Tra i protagonisti silenziosi di quelle estati, c’è anche lui: il labrador fulvo. Non aveva un nome altisonante, solo “U Cane”, come lo chiamava Micu, ma per me era molto di più. Era il primo a svegliarsi, il primo a fiutare l’aria, il primo a capire se qualcosa non andava. 

"Quando Teresa partiva per le visite, lui la seguiva fino al cancello, poi tornava indietro e si sdraiava sotto il pergolato, aspettando. Quando io prendevo la moto, correva accanto per qualche metro, poi si fermava e mi guardava partire, come se volesse assicurarsi che tornassi.

Durante il temporale, fu lui a trovarci. Aveva seguito il nostro odore, le tracce nel fango, e ci raggiunse sotto la tettoia, fradicio ma felice. Teresa lo abbracciò come si abbraccia un fratello.

E quando suonai per la prima volta la chitarra, fu lui a sedersi accanto a noi, sul masso, le orecchie tese, lo sguardo fisso sull’orizzonte. Sembrava ascoltare, capire, custodire.

Non era solo un cane. Era il custode delle estati, il testimone silenzioso di ogni passo, ogni parola, ogni emozione. E quando, al tramonto, si sdraiava davanti al casolare con lo sguardo rivolto al mare, sembrava dirci che tutto era al suo posto".

"U cana, Micu,fhicundiani, pampini, ... fhicatieddhi" 

Quelle parole, quel dialetto, sono musica per me. Sono il suono dell’estate, della terra, della mia infanzia. Ogni giorno è un rituale: il pane caldo, il profumo dell’origano, le risate sotto il pergolato, le storie raccontate al tramonto. E mentre il sole cala dietro le colline, so che quel luogo, quella vita semplice e vera, è il mio angolo di eternità.

 

il cinema all'aperto:

“A sera, la figlia di Micu, che non si è mai spostata da lì, neppure per seguire le lezioni all'università, mi dice: vieni, hai mai visto il cinema? Sì, le rispondo. Sì va be' ma non come questo. Il mio è esclusivo, vieni ti faccio vedere: seduti su un masso che senbra scavato apposta per far sedere due persone adulte, Teresa indica l'orizzonte: fai attenzione tra poco si accendono le luci...”

Una scena incantevole.  – Il cinema di Teresa 

A sera, quando il sole si ritira dietro le colline e l’aria si fa più fresca, Teresa, la figlia di Micu, mi prende per mano. Non si è mai spostata da lì, da quella terra che le ha dato tutto e che lei non ha mai voluto lasciare.

 “Vieni,” mi dice con un sorriso che sa di confidenza. “Hai mai visto il cinema?”

 “Sì,” le rispondo, un po’ confuso.

 “Sì va be’, ma non come questo. Il mio è esclusivo, vieni ti faccio vedere.”

 Camminiamo tra le sterpaglie e i profumi della sera, fino a un masso che sembra scolpito apposta per due persone adulte. Ci sediamo. Davanti a noi, l’orizzonte si apre come un sipario. 

“Fai attenzione,” dice Teresa, “tra poco si accendono le luci.” 

E allora, come per incanto, il cielo si tinge di viola, poi di arancio, poi di blu profondo. Le prime stelle si affacciano timide, una dopo l’altra, come spettatori che prendono posto. Il mare riflette ogni bagliore, ogni sfumatura, e le luci dei pescherecci in lontananza sembrano lanterne sospese nel nulla.

 “Ecco il mio cinema,” sussurra Teresa. “Ogni sera un film diverso. Nessun biglietto, nessuna pubblicità. Solo noi e il mondo.”

 Resto in silenzio, rapito. In quel momento capisco che non c’è sala al mondo che possa competere con questo spettacolo. Il cinema di Teresa è fatto di cielo, di mare, di stelle e di storie che non hanno bisogno di parole.

 

  – L’acquazzone estivo 

Ma non è stato sempre così idilliaco il mio soggiorno lì. 

Un pomeriggio, mi ero allontanato dal casolare per esplorare un sentiero che si snodava tra gli ulivi e i fichi d’India insieme a Teresa. Avevamo camminato per qualche centinaio di metri, ed io ero perso tra pensieri e profumi, quando il cielo cambiò improvvisamente umore. Le cicale tacquero, gli uccelli volarono via in fretta, e un silenzio irreale calò sulla campagna. 

Poi, come se qualcuno avesse rovesciato un secchio d’acqua dal cielo, l’acquazzone estivo ci colse di sorpresa. Le gocce erano grosse, pesanti, e cadevano con una furia che sembrava voler lavare via ogni cosa. In pochi secondi, la terra si trasformò in fango, i sentieri sparirono, e io mi ritrovai fradicio, con le scarpe che affondavano e il cuore che batteva forte.

 Dal casolare, si sentivano le voci concitate di mia madre e di Micu che gridavano il mio nome. La mamma di Teresa, con un vecchio ombrello bucato, correva verso di noi come una furia, urlando: “zzitieddhi , ma duva siti? TV pigghiu a chjina annavota!”

 Ci rifugiammo sotto una tettoia di canne, ridendo nervosamente, mentre l’acqua tamburellava sopra di noi come una batteria impazzita e veniva giù come dal setaccio. Teresa mi guardò, con i capelli incollati al viso e gli occhi che brillavano: “Questo è il vero cinema. Quello che non ti scordi più.” 

Aveva ragione. Quel temporale, quella corsa, quel rifugio improvvisato… erano scene che nessun regista avrebbe potuto scrivere meglio. 

 

Il giorno dell’acquazzone rimane inciso nella mia memoria come una delle prime volte in cui sentii davvero la forza della natura. Non era solo pioggia: era un richiamo, un avvertimento, una danza selvaggia tra cielo e terra. 

Quando finalmente rientrammo al casolare, zuppi e infangati, mia madre ci accolse con un misto di sollievo e rimprovero. Micu, che aveva già acceso il fuoco nel camino, ci porse asciugamani e una tazza di latte caldo, come se fosse tutto parte di un copione già scritto.

 Teresa si sedette accanto a me, con le ginocchia strette al petto e il viso ancora bagnato. “Qui la pioggia non avvisa,” disse. “Arriva, prende, e se ne va. Ma lascia sempre qualcosa dietro.”

 Quella sera, il casolare sembrava più vivo che mai. Le pareti trasudavano storie, il fuoco crepitava come se volesse raccontarne una sua, e fuori, il temporale continuava a tamburellare sul tetto, come un vecchio musicista che non vuole smettere.

 Micu raccontava di quando da ragazzo si era perso tra le gole del fiume durante una piena, e Donna Angiulina, con il grembiule ancora umido, preparava una zuppa che sapeva di casa, di protezione, di ritorno.

 E io, seduto lì, capii che anche i momenti di paura, di smarrimento, di pioggia improvvisa, fanno parte di quell’estate. Non solo il sole, non solo il mare. Ma anche il fango, il freddo, il batticuore. Tutto contribuisce a rendere quel posto, quella terra, così profondamente mia.

 La pietanza di mia madre Angiolina non è solo un piatto: è un rito, un gesto d’amore, un frammento di memoria che profuma di casa e di terra:

 

U morzeddhuzzu e fhicatieddhi di mamma Angiolina

 Tra i tanti sapori che hanno segnato le mie estati in Calabria, ce n’è uno che non potrò mai dimenticare: la pietanza di fegatini di mia madre, Angiolina.

 Era una ricetta semplice, come tutte le cose vere. Tagliava con precisione le parti molli dell’agnello: cuore, fegato, milza, esofago, reni. Li rosolava in una padella di ferro annerita dal tempo, insieme a cipolla tagliuzzata grossolanamente, qualche foglia di alloro, origano fresco raccolto dietro casa, e qualche pomodoro maturo, appena colto.

 Il profumo invadeva il casolare, si insinuava tra le stanze, usciva dalle finestre e si mescolava all’aria salmastra dello Jonio. Era impossibile resistere. Anche Micu, il pastore, si fermava ogni volta che passava, annusando l’aria come un segugio: “Donna Angiulina, ojia mi parunu i cieli aperti si on vi dispiacia mi fjiermu!”

 Seduti attorno al tavolo di legno, con le sedie sgangherate e i bicchieri sbeccati, si mangiava in silenzio. Non per mancanza di parole, ma per rispetto. Quel piatto parlava da solo. Raccontava di fatica, di sapienza contadina, di un amore che non aveva bisogno di fronzoli.

 E io, ogni volta che chiudo gli occhi, riesco ancora a sentirne il sapore. È il gusto dell’estate, della mia infanzia, della Calabria che mi ha cresciuto.

 

– Gli occhi di mio padre

 Di mio padre non ho memoria. È morto quando avevo tre anni, e ciò che resta di lui è poco, forse niente del tutto. Ma quel poco è inciso come una pietra antica, levigata dal tempo.

 Ricordo i suoi occhi. Non il colore, non la forma. Ma lo sguardo. Uno sguardo che si posava sulle cose con dolcezza, come se il mondo fosse fragile e meritasse attenzione. E ricordo le sue mani, lunghe e sottili, che sfioravano le corde della chitarra come se stesse accarezzando un’anima.

 Mia madre, Angiolina, lo guardava rapita. Non parlava mai di lui con tristezza, ma con una luce negli occhi che non ho mai visto in nessun altro momento della sua vita. Quando raccontava di quelle sere d’estate, in cui lui suonava sotto il pergolato e lei preparava la cena, sembrava che il tempo si fermasse.

 “Suonava per me,” diceva. “E io cucinavo per lui. Era il nostro modo di dirci tutto.”

 Ora, ogni volta che sento il suono di una chitarra, anche lontano, anche imperfetto, mi sembra di vederlo. Seduto su una sedia di vimini, con lo sguardo perso tra le note e le mani che danzano leggere. E mia madre, lì accanto, con il grembiule e il cuore pieno.


– La chitarra di papà e i ricordi di Micu

 Un giorno, mentre rovistavo nella soffitta del casolare, tra sacchi, cassette di legno e attrezzi arrugginiti, trovai una custodia impolverata. Era la chitarra di mio padre.

Le corde erano allentate, il legno segnato dal tempo, ma bastò sfiorarla per sentire qualcosa risvegliarsi. Un suono flebile, quasi un respiro. La presi tra le mani e la portai fuori, sotto il pergolato, dove il sole filtrava tra le foglie.

 Micu, che era lì a bere il suo caffè d’orzo, la vide e si fermò. I suoi occhi si fecero lucidi, e per un attimo non disse nulla. Poi, con voce bassa e rotta, iniziò a raccontare.

“Turi… tuo padre… non era solo bravo a suonare. Era uno che faceva parlare la chitarra. Quando la prendeva in mano, sembrava che il vento si fermasse per ascoltarlo. Suonava la sera, quando tutti erano stanchi, e la sua musica faceva dimenticare la fatica.”

Si sedette accanto a me, accarezzando il legno con rispetto. “Mi ricordo una notte, c’era la luna piena e lui suonava una melodia lenta, triste. Donna Angiulina lo guardava come se stesse vedendo il cielo. Non parlavano, ma si capivano. E io, che passavo con le capre, mi fermavo sempre. Perché quella musica… quella musica era casa.”

Micu sorrise, poi si alzò. “Tienila con cura, Nino. Non è solo uno strumento. È la voce di chi ti ha voluto bene, anche se non hai potuto conoscerlo davvero.”

 

 – Le note per Teresa

 Qualche tempo dopo aver ritrovato la chitarra di mio padre, iniziai a prendere lezioni. All’inizio le dita erano rigide, il suono incerto, e ogni accordo sembrava una montagna da scalare. Ma dentro di me c’era qualcosa che spingeva: non era solo il desiderio di suonare, era il bisogno di ritrovare un filo, una voce, una presenza.

L’estate seguente, tornato in Calabria, portai con me la chitarra. Era stata restaurata con cura, le corde nuove brillavano al sole, e il legno sembrava respirare di nuovo.

Una sera, sotto il cielo che si stendeva come un sipario stellato, Teresa mi guardò e disse: “Allora, hai imparato?”

Sorrisi, un po’ timido. “Un po’. Vuoi sentire?”

Ci sedemmo sul solito masso, quello che sembrava scolpito apposta per noi. Il mare era calmo, le cicale tacevano, e il vento portava con sé il profumo del basilico e della terra calda.

Iniziai a suonare. Le dita tremavano, ma la melodia fluiva. Era una canzone semplice, fatta di pochi accordi, ma ogni nota portava con sé un frammento di memoria, un battito del cuore, un pezzo di mio padre.

Teresa ascoltava in silenzio, con gli occhi lucidi e il sorriso appena accennato. Quando finii, non disse nulla. Si limitò a poggiare la testa sulla mia spalla e a guardare l’orizzonte.

In quel momento capii che non era solo musica. Era un ponte. Tra passato e presente, tra chi c’era e chi non c’è più, tra me e lei.

 

– Teresa e i suoi sogni

 Teresa si è iscritta a Veterinaria a Messina. Una scelta che ha sorpreso molti: lei, così legata alla campagna, agli animali, alla vita semplice, aveva deciso di affrontare l’università. Ma non amava soggiornarvi. Diceva che la città le toglieva il respiro, che il rumore le confondeva i pensieri.

Così studiava a casa. Si alzava presto, sistemava i libri sul tavolo sotto il pergolato, e tra una pausa e l’altra aiutava Micu con le capre o raccoglieva le erbe per la cena. Preparava gli appelli con disciplina, e quando arrivava il giorno dell’esame, partiva all’alba, affrontava la città come una missione, e tornava la sera, stanca ma soddisfatta.

“Non mi serve stare lì,” diceva. “Io studio meglio dove conosco il canto degli uccelli e il profumo della terra.”

La sua determinazione era silenziosa, ma potente. Non cercava approvazione, non faceva rumore. Era come il vento che modella le rocce: costante, invisibile, ma inarrestabile.

E io, che la osservavo da lontano, capivo che quella ragazza seduta sul masso, che una volta mi aveva mostrato il suo “cinema esclusivo”, stava costruendo il suo futuro con la stessa grazia con cui si accarezza un animale ferito: con pazienza, con rispetto, con amore.

– Il primo tirocinio di Teresa

Teresa aveva sempre avuto una mano gentile con gli animali. Anche da bambina, quando un gatto randagio si avvicinava al casolare, era lei a parlargli piano, a offrirgli un po’ di pane, a curargli le ferite con l’infuso di malva che preparava con Micu.

Quando arrivò il momento del primo tirocinio, non fece grandi annunci. Mise in valigia qualche libro, il camice bianco ancora piegato, e partì all’alba, come faceva per gli esami. Era stata assegnata a una piccola clinica veterinaria tra le colline catanzaresi, dove si occupavano di animali da fattoria e qualche cane di quartiere.

Al ritorno, la sera stessa, la trovammo seduta sotto il pergolato, con lo sguardo perso nel bicchiere di limonata. “Com’è andata?” le chiesi.

“Strano,” disse. “Ho visto un vitellino nascere. Ho tenuto le mani sotto la pancia della madre, ho sentito il calore, il tremore. Poi ho visto un cane morire. Era vecchio, stanco. Gli ho accarezzato la testa mentre chiudeva gli occhi. E ho capito che non basta sapere. Bisogna sentire.”

Micu, che ascoltava in silenzio, annuì. “U sapiri è nenti senza u cori,” disse piano.

Teresa sorrise. “Domani ci torno. Mi hanno chiesto di assistere a una piccola operazione. Ho paura, ma ci vado.”

Quella sera, mentre il cielo si riempiva di stelle e il profumo della terra saliva dal casolare, capii che Teresa non era più solo la ragazza del cinema sull’orizzonte. Era diventata qualcosa di più: una donna che camminava tra la vita e la morte con rispetto, con forza, con grazia.

– La strada per Teresa

 Quest’anno, per la promozione, mi hanno regalato una moto. Non una qualsiasi: una enduro, robusta, adatta alle strade sterrate, alle salite polverose, ai sentieri che sembrano disegnati da capre e vento.

La prima volta che l’ho accesa, il rombo ha risuonato tra gli ulivi come un tuono gentile. Teresa, che stava studiando sotto il pergolato, ha alzato lo sguardo e ha sorriso. “Ora sì che sei uno di noi,” ha detto.

Pochi giorni dopo, è arrivata la chiamata: una capra in difficoltà, in una contrada sperduta, dove le strade non esistono, solo pietre, sterpaglie e vecchi muretti a secco. Teresa doveva andare, ma il suo vecchio scooter non avrebbe retto.

“Ti porto io,” le ho detto, infilando il casco e accendendo la moto. “Prendi, infilatelo, questo è per te”.

Il tragitto è stato un viaggio dentro il cuore della Calabria: salite impervie, curve strette, il profumo del le zagare e delle ginestre, di rosmarino selvatico, e il sole che filtrava tra le fronde. Teresa, dietro di me, stringeva lo zaino con gli strumenti, concentrata e silenziosa.

Arrivati, la scena era semplice e cruda: una capra ferita, sdraiata sotto un albero, il pastore preoccupato, il silenzio della campagna. Teresa si è inginocchiata, ha aperto lo zaino, e ha iniziato a lavorare. Le sue mani erano sicure, il suo sguardo fermo. Io, accanto, tenevo la moto e il tempo.

Quando tutto è finito, il pastore ci ha offerto pane e olive e un pezzo di formaggio stagionato. Teresa ha accettato, stanca ma soddisfatta. “Questa è la mia clinica,” ha detto. “E tu, con questa moto, sei il mio autista ufficiale.”

Abbiamo riso, mentre il sole calava dietro le colline. E io ho capito che quel regalo non era solo una moto. Era una chiave. Per aprire strade nuove, per accompagnare chi sa curare, per vivere l’estate come non l’avevo mai vissuta.

 

– La corsa nel vento

 E poi, una mattina di luglio, il sole già alto e l’aria vibrante di cicale. Teresa ricevette una chiamata urgente: una vacca in difficoltà, in una contrada remota, lontana da qualsiasi strada asfaltata. Il pastore, preoccupato, aveva chiesto aiuto. Il sentiero era impraticabile per qualsiasi mezzo normale. Neppure i muli avrebbero potuto transitare velocemente.

“Prendiamo la moto,” le dissi, già con il casco in mano.

Teresa non esitò. Salì dietro di me con lo zaino pieno di strumenti, il camice arrotolato e lo sguardo determinato. La moto ruggì e partimmo, tra nuvole di polvere e il profumo selvatico della campagna.

Il tragitto era duro: pietre smosse, salite ripide, tratti dove il sentiero sembrava scomparire. Ma l’enduro reggeva, e io sentivo il cuore battere forte, non solo per l’adrenalina, ma per la consapevolezza che stavamo facendo qualcosa di importante.

 Arrivati, trovammo il pastore accanto all’animale, che giaceva ansimante. Teresa scese, si inginocchiò, e iniziò a lavorare. Io restai in silenzio, osservando. Le sue mani si muovevano con sicurezza, il sudore le colava sulla fronte, ma non si fermava. Era lì, nel suo elemento, tra terra e vita.

Dopo quasi un’ora, la vacca si alzò lentamente, barcollando. Il pastore si commosse. “Figghia mia, tu si na benedizzioni,” disse, stringendole le mani.

Teresa sorrise, stanca ma felice. “E lui,” disse indicando me, “è il mio cavaliere col motore.”

Ridemmo tutti, e mentre tornavamo indietro, con il sole che calava e la moto che scivolava tra le ombre degli ulivi, capii che quell’estate non era solo un’altra stagione. Era un viaggio. E io, finalmente, ne facevo parte.

 

– La deviazione

Il ritorno fu problematico.

La luce del tramonto si stendeva come un velo dorato sulla campagna, e il rombo della moto sembrava quasi ovattato tra le colline. Teresa, dietro di me, era silenziosa, forse stanca, forse assorta nei pensieri dopo l’intervento.

A un certo punto, arrivammo a una diramazione. Due sentieri, entrambi sterrati, entrambi familiari eppure diversi. Mi fermai un attimo, incerto. “È di qua,” dissi, più per convinzione che per certezza.

Ma non era di là.

Dopo pochi minuti, il sentiero si fece più stretto, le pietre più insidiose, e la vegetazione più fitta. La moto iniziava a sobbalzare, e Teresa si aggrappava con forza. “Nino, questo non è il sentiero dell’andata,” disse, con tono calmo ma deciso.

Mi fermai. Il silenzio era totale. Nessuna casa, nessun rumore, solo il frinire lontano delle cicale e il crepitio delle foglie sotto le ruote.

Scendemmo dalla moto. Teresa tirò fuori il telefono, ma il segnale era assente. “Aspettiamo,” disse. “Il cielo è ancora chiaro. Torneremo indietro appena cala il sole.”

Seduti su una roccia, mangiammo un po’ di pane che il pastore ci aveva dato. Teresa mi guardò e sorrise. “Non è la prima volta che mi perdo. Ma con te è meno spaventoso.”

Quando il sole iniziò a calare, tornammo indietro lentamente, seguendo le tracce lasciate dalle ruote. Alla fine, ritrovammo il sentiero giusto, e il casolare ci apparve come un faro nella notte grazie anche al fiuto del cane.

Quella sera, sotto il pergolato, Teresa disse: “La strada sbagliata a volte serve. Ci fa capire quanto è preziosa quella giusta.”

E io, con la moto parcheggiata e il cuore ancora in corsa, capii che quell’estate mi stava insegnando molto più di quanto avessi immaginato.


Estate sullo Jonio – Il fiuto del labrador

La deviazione ci aveva rallentati, e il sole era ormai basso sull’orizzonte. Le ombre si allungavano tra gli ulivi, e il sentiero sembrava confondersi con la terra. La moto arrancava, e io cercavo di ritrovare il punto esatto da cui eravamo partiti. Teresa, dietro di me, non diceva nulla, ma sentivo la sua tensione.

Poi, all’improvviso, un abbaio.

Un suono familiare, deciso, che rimbalzava tra le rocce. Era lui: il labrador fulvo. Ci aveva trovati.

Non so come avesse fatto. Forse aveva seguito il rumore della moto, forse il nostro odore, forse semplicemente sapeva. Era lì, in cima a una piccola altura, con le orecchie tese e la coda che si muoveva lenta, come a dire: “Vi stavo aspettando.”

Ci guidò senza fretta, con passo sicuro, tra sterpaglie e sentieri dimenticati dopo avere condiviso con  noi il pane. Ogni tanto si voltava, controllava che lo seguissimo, poi riprendeva il cammino. Teresa lo chiamava piano, quasi commossa: “Bravo, cumpagnu. Senza di te ci saremmo persi.”

Quando finalmente il casolare apparve in lontananza, il cielo era già punteggiato di stelle. Il labrador si fermò, si sedette, e ci guardò arrivare. Poi si sdraiò davanti al portone, come faceva ogni sera, come se nulla fosse successo.

Quella notte, sotto il pergolato, Teresa gli mise una coperta accanto e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Lui chiuse gli occhi, soddisfatto, come se avesse compiuto il suo dovere.

E io capii che in quella terra, tra uomini, animali e silenzi, esisteva un linguaggio che non ha bisogno di parole. Bastano gli occhi, il fiuto, la presenza.



Estate sullo Jonio – Il pane rubato

La vigilia di San Rocco portava con sé un fermento che si sentiva nell’aria. Al casolare, tra le stigghiolate di Donna Angiolina, il vino di Micu e le risate di Teresa, tutto sembrava pronto per una serata perfetta.

Ma il labrador fulvo, come sempre, aveva altri piani.

Durante la cena, mentre Teresa raccontava del suo tirocinio e Micu brindava alla salute di tutti, il cane sparì. Nessuno se ne accorse subito. Fu Donna Angiolina, cercando il pane appena sfornato, a lanciare l’allarme: “U Cane! S’ha pigghiatu tuttu u pani! puru a stighjiolata cruda”.

Lo trovammo poco dopo, dietro il casolare, con il muso infarinato e lo sguardo colpevole. Ma non era solo. Accanto a lui, sotto un cespuglio di rosmarino, c’era una cagnetta magra, dagli occhi stanchi, che allattava una cucciolata di cinque piccoli. Il labrador le aveva portato il pane, spezzato in pezzi, lasciandolo lì come un’offerta silenziosa.

Teresa si inginocchiò, osservando la scena con commozione. “Non era per lui,” disse piano. “Era per lei.”

Micu si tolse il cappello e lo tenne sul petto. “U Cane sapi cchiù di nuatri,” mormorò.

Quella sera, il labrador non fu rimproverato. Anzi, fu celebrato. Teresa gli portò dell’acqua, Donna Angiolina mise da parte un po’ di carne per la cagnetta, e Micu costruì un piccolo riparo con assi di legno.

La festa continuò, ma con un silenzio nuovo, più profondo. E io, guardando il labrador sdraiato accanto alla madre e ai cuccioli, capii che anche lui, a modo suo, aveva fatto la sua parte.

Estate sullo Jonio – I nuovi pazienti di Teresa

Da quando Teresa aveva iniziato a curare gli animali del circondario, il casolare era diventato una sorta di ambulatorio rurale. Non c’erano orari, né appuntamenti: si presentavano quando serviva, con il passo lento dei contadini e lo sguardo preoccupato.

Quella settimana arrivarono in tre.

Il primo fu un asinello, vecchio e testardo, che si rifiutava di mangiare. Il padrone, un uomo che parlava poco e fumava molto, lo aveva portato con una corda sfilacciata e gli occhi bassi. Teresa lo visitò sotto il pergolato, accarezzandogli il muso e parlando piano. “Non è malato,” disse. “È solo triste. Ha perso la compagna.” Il contadino annuì, e se ne andò in silenzio, portandosi via l’asino e un consiglio: “Parlaci. Anche se non risponde.”

Il secondo fu un gattino, trovato tra le pietre di un muretto, con una zampa rotta e gli occhi pieni di paura. Il labrador fulvo lo aveva scovato, abbaiando fino a farci uscire tutti. Teresa lo curò con pazienza, fasciando la zampa e nutrendolo con latte tiepido. Lo chiamò “Pietruzzo”, in onore del luogo in cui era stato trovato. Dormiva accanto al cane, che lo sorvegliava come un fratello maggiore.

Il terzo fu il più difficile: una pecora gravida, in travaglio da ore. Il pastore era disperato. Teresa salì sulla moto con me, portando solo l’essenziale. Arrivammo al pascolo al tramonto, e lei si mise subito al lavoro. Dopo un’ora di silenzio e tensione, nacque un agnellino piccolo ma vivo. Il pastore pianse. Teresa sorrise. “È femmina,” disse. “Chiamala Speranza.”

Quella sera, il casolare era pieno di voci, di animali, di vita. Teresa, seduta con il camice sporco e il volto stanco, guardava il cielo. “Ogni paziente mi insegna qualcosa,” disse. “E ogni estate mi cambia un po’.”

m.i.

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Chi siamo

Abbiamo aperto questo blog nell’aprile del 2009 con il desiderio di creare una piazza virtuale: uno spazio libero, apolitico, ma profondamente attento ai fermenti sociali, alla cultura, agli artisti e ai cittadini qualunque che vivono la Calabria. Tracciamo itinerari per riscoprire luoghi conosciuti, forse dimenticati. Lo facciamo senza cattiveria, ma con determinazione. E a volte con un pizzico di indignazione, quando ci troviamo di fronte a fenomeni deleteri montati con cinismo da chi insozza la società con le proprie azioni. Chi siamo nella vita reale non conta. È irrilevante. Ciò che conta è la passione, l’amore, la sincerità con cui dedichiamo il nostro tempo a parlare ai cuori di chi passa da questo spazio virtuale. Non cerchiamo visibilità, ma connessione. Non inseguiamo titoli, ma emozioni condivise. Come quel piccolo battello di carta con una piuma per vela, poggiato su una tastiera: fragile, ma deciso. Simbolo di un viaggio fatto di parole, idee e bellezza. Questo blog è nato per associare le positività esistenti in Calabria al resto del mondo, analizzarne pacatamente le criticità, e contribuire a sfatare quel luogo comune che lega la nostra terra alla ‘ndrangheta e al malaffare. Ci auguriamo che questo spazio diventi un appuntamento fisso, atteso. Come il caffè del mattino, come il tramonto che consola. Benvenuti e buon vento a quanti navigano ogni singola goccia di bellezza che alimenta serenamente l’oceano della vita. Qui si costruiscono ponti d’amore.

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