Creatività o propaganda?
cultura
L’IMMAGINE DOPO IL REALE. ESTETICA DELLA POST-VERITÀ TRA ARTE E PROPAGANDA
di Vittorio Politano
Viviamo in un’epoca in cui la verità ha perso il suo statuto ontologico per diventare una questione di algoritmo. La corsa dell’intelligenza artificiale, l’iperproduzione di immagini e l’invisibile regia delle piattaforme digitali stanno modificando in profondità non solo il modo in cui vediamo il mondo, ma soprattutto ciò che scegliamo (o siamo indotti) a considerare reale. In questo scenario, l’arte – e più precisamente l’immagine artistica – è chiamata a ridefinire la sua funzione critica: da riflesso a rifrazione del presente.
Negli ultimi mesi, numerose mostre internazionali – da Berlino a São Paulo – si sono concentrate su un tema ormai inevitabile: la disinformazione visiva. Non più solo “fake news”, ma fake aesthetics: un’intera economia del falso che si alimenta della nostra dipendenza dallo schermo. L’immagine, oggi, non documenta: suggerisce, distorce, seduce. Non illustra la verità, ma la sostituisce con una simulazione credibile.
Un esempio emblematico è l’opera della giovane artista tunisina Nour Belkhiria, che nell’ultima Biennale di Lione ha presentato una serie di video generati da AI che raccontano, con apparente realismo documentario, eventi storici mai accaduti: proteste cancellate, rivoluzioni immaginate, martiri inventati. Non si tratta di un gioco concettuale, ma di una riflessione potente sul controllo narrativo e sulla capacità dell’immagine di riscrivere la memoria collettiva. La sua arte non denuncia: mimetizza. E proprio per questo inquieta.
Questa nuova estetica della post-verità ha radici profonde. Già Guy Debord, nel 1967, parlava della “società dello spettacolo” come di un sistema in cui “il vero è un momento del falso”. Oggi quella profezia si è incarnata negli strumenti stessi della visione: filtri, deepfake, ricostruzioni tridimensionali, realtà aumentata. Ma se l’immagine ha cessato di essere finestra sul mondo, cosa resta della sua funzione politica?
Alcuni artisti rispondono con l’ironia. Il collettivo argentino Terrorismo de Autor ha invaso Instagram con profili fittizi di personaggi politici, costruendo una guerriglia semiotica che mette in crisi il confine tra propaganda e satira. Altri, come la fotografa nigeriana Zainab Balogun, scelgono di restituire dignità al visibile attraverso ritratti intensi, quasi sacri, che resistono alla voracità dell’immagine-merce. In entrambi i casi, si percepisce un’urgenza comune: sottrarre l’immaginario al controllo algoritmico, restituendogli una complessità che il digitale tende a cancellare.
Anche le istituzioni culturali cominciano ad interrogarsi. Il Centre Pompidou ha recentemente lanciato un programma di residenza per artisti che lavorano con i dati, mentre il MAXXI di Roma ha dedicato un ciclo di incontri all’“etica della visione”, coinvolgendo filosofi, hacker, curatori. Ma il rischio è quello dell’autoreferenzialità, di una critica che si esercita solo nei luoghi deputati all’arte, mentre il resto del mondo continua a essere plasmato da memi, pubblicità e influencer.
In questo cortocircuito tra verità, immagine e potere, forse il compito più urgente non è produrre nuove immagini, ma imparare a leggerle. Reinventare un’alfabetizzazione visiva che non sia solo estetica, ma anche politica. Perché oggi, più che mai, chi controlla l’immaginario controlla il reale.
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