Paradossi, titoli & affini
LEI NON SA CHI SONO IO!
La frase famosa lanciata dal mitico Totò torna alla mente
ogniqualvolta ci imbattiamo in soggetti che antepongono il titolo al nome.
Quel titolo suona come monito all’interlocutore. Sembra un avvertimento: sta attento, hai davanti una persona con tanto di …
"Lei non sa chi sono io!": frase diventata quasi
proverbiale in Italia, grazie al genio comico di Totò. È il grido di battaglia
di chi si aggrappa al proprio status, al proprio titolo, come se bastasse
quello a definire il proprio valore. Vediamola più da vicino!
Il significato dietro la frase in Totò e la satira sociale:
Totò usava questa espressione per prendere in giro l’arroganza di certi
personaggi che si sentivano superiori solo per il loro ruolo o titolo.
Il titolo prima del nome: Quando qualcuno si presenta come
“Il Dottor Rossi” o “L’Avvocato Bianchi”, prima ancora di dire “piacere”,
spesso c’è un sottinteso: “rispettami, perché ho un titolo”.
È un monito non tanto velato all’interlocutore: La frase
diventa una sorta di avvertimento: “Attento a come parli, potrei essere
qualcuno di importante”.
Ma cosa ci dice davvero questa espressione? In una società
dove il titolo può aprire porte, c’è chi lo usa come scudo o come arma. È, una
prima mossa strategica di identità e status ma anche di insicurezza mascherata.
Spesso chi lo dice ha bisogno di riaffermare il proprio valore, come se non
bastasse essere sé stessi.
L’autoironia, l’autocritica è bandita per la persona
tuttodunpezzo (attaccato)! Che sembra temere l’altro e l’ironia e la critica
non è ben accetta. Totò ci invita a riflettere: il vero valore di una persona
non sta nel titolo, ma in come si comporta.
Nel film “Totò, Peppino e la... malafemmina”, Totò pronuncia
la frase con tono pomposo e ridicolo, proprio per smascherare l’assurdità di
certi atteggiamenti, diventata simbolo dell’italiano medio che si prende troppo
sul serio.
Le dinamiche sociali nel linguaggio sono affascinanti perché
ci mostrano come le parole non siano mai neutre: riflettono potere, identità,
appartenenza, e persino conflitto. Il linguaggio è uno specchio della società,
ma anche uno strumento per plasmarla.
Il linguaggio come strumento di potere nei titoli e nelle
formalità:
Dire “Dottore”, “Professore”, “Signor Presidente” non è solo
cortesia: è riconoscere una gerarchia. Chi usa questi titoli spesso lo fa per
affermare autorità o per ottenere rispetto.
Il passaggio dal “Lei” al “tu” può segnare un cambiamento di
status, confidenza o dominio. In certi contesti, dare del “tu” può essere una
forma di superiorità, in altri un gesto di inclusione.
Parole esclusive nei linguaggi tecnici, burocratici o accademici possono escludere chi non li conosce, creando barriere sociali. E il linguaggio diventa segno di appartenenza insieme al luogo di residenza.
Parlare in dialetto o usare slang giovanile è un modo per
dire “io sono parte di questo gruppo”. È identità, comunità.
Ogni gruppo sociale ha il suo modo di parlare, un codice d’appartenenza.
Pensiamo ai modi di dire tra amici, ai termini usati in certi ambienti
professionali, o persino alle emoji tra adolescenti usate anche dai millennials
e, come si diceva una volta: i matusa.
L’uso di termini neutri o rispettosi delle identità di
genere è una forma di riconoscimento sociale e di lotta contro l’esclusione. Quindi
è linguaggio inclusivo.
Il linguaggio è una forma di controllo. Ci sono parole che
non si possono dire, e questo rivela cosa una società considera pericoloso o
inaccettabile. Censure e tabu mascherati da eufemismi “per non offendere”, dire
“diversamente abile” invece di “handicappato” è un tentativo di rendere il
linguaggio più rispettoso, ma anche di nascondere la realtà dietro formule più
accettabili.
I casi di manipolazione linguistica sono ormai evidente. La
politica e la pubblicità usano il linguaggio per orientare pensieri e
comportamenti. “Riforma” può significare tagli, “libertà” può nascondere
deregulation.
Torniamo alla frase iniziale: “Lei non sa chi sono io!” è un
perfetto esempio di come il linguaggio possa essere usato per: affermare
status, intimidire e creare distanza sociale.
È, in sintesi, il bel vestito indossato per coprire difetti
fisici e insicurezze, un mimetizzarsi ed essere accettato per quel che si
appare.
Eppure, nasciamo tutti nudi!
Esatto. Nasciamo nudi, senza titoli, senza ruoli, senza
curriculum. Solo con la nostra individualità. È una verità semplice e potente,
che smaschera molte sovrastrutture sociali. Ma proprio perché siamo “nudi”, la
società si affretta a vestirci di nomi, etichette, e di aspettative.
alla nascita siamo solo esseri umani, con potenzialità
uniche. Nessuno è “avvocato”, “figlio di”, “ricco” o “povero” nel senso pieno.
Tutto questo viene dopo.
Il linguaggio, l’educazione, la cultura, la classe sociale,
persino il genere sono tutti “vestiti” che ci sono messi addosso dalle
convenzioni. È Crescendo che impariamo a parlare, a comportarci, a pensare
secondo modelli che ci vengono insegnati e si costruisce l’identità. Ma sotto
tutto questo, c’è sempre l’individuo.
Il paradosso dell’apparenza è un atteggiamento sociale
accettato, fa parte del gioco e ognuno lo interpreta e se lo gioca secondo
criteri personalistici, consci che la società premia chi “appare” in un certo
modo. Il titolo, l’abito, il modo di parlare diventano strumenti per essere
riconosciuti, accolti o respinti.
Totò lo sapeva bene. Con la sua comicità, ci ricordava che
dietro ogni “Eccellenza” c’è un essere umano che, come tutti, è nato nudo.
Spesso ci identifichiamo più con il ruolo che con la persona.
Ma quando togliamo la maschera, cosa resta?
Riscoprire l’individualità, essere sé stessi in un mondo che
ci vuole conformi è un atto rivoluzionario.
Riconoscere l’altro e guardare oltre il titolo, il vestito,
il linguaggio, decostruire è vedere la persona per quel che è.
Imparare a distinguere ciò che è nostro da ciò che ci è
stato imposto. Questa è la sfida che dovremmo affrontare, e poi tendere la mano nudi.
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