Il rifugio delle pieghe del tempo©
Il Rifugio
delle pieghe del tempo
L’immagine evoca un’atmosfera profondamente intima e familiare, dove ogni oggetto racconta un particolare della storia vissuta di chi vi abita.
L’atmosfera è calda e raccolta; la luce naturale che filtra
leggera da dietro le tende illumina gli spazi con delicatezza, creando un senso
di quiete e protezione.
È una casa vissuta ma ordinata: Libri, stoviglie, tessuti
piegati sulle sedie… tutto suggerisce una casa abitata con cura, dove il
disordine è solo il riflesso di una vita piena.
Rispecchia un’eleganza discreta, quasi virtuosa. L’arredamento
è testimone silenzioso dello stile di vita degli abitanti della casa: i mobili
in legno, il tappeto decorato, le ceramiche sul tavolo e le opere d’arte alle
pareti parlano di gusto e attenzione ai dettagli, senza ostentazione.
L’intimità familiare è tangibile testimone di presenze
silenziose: Anche se non ci sono persone nell’immagine, la loro presenza si
percepisce. Le sedie con cuscini e oggetti personali, il computer acceso, i
libri letti e riletti… tutto suggerisce che qualcuno è appena uscito dalla
stanza o sta per rientrare.
Le fotografie incorniciate e le opere d’arte sembrano scelte
con affetto, forse ricordi di viaggi, momenti importanti, o semplicemente
immagini che fanno parte della storia della famiglia.
Il tavolo con il computer e gli oggetti da lavoro indicano che
la casa è anche luogo di studio, lavoro, riflessione. Un ambiente che si adatta
alle esigenze di chi lo abita.
Il bozzetto a carboncino, con le ombre morbide e le linee
vibranti, amplifica il senso di nostalgia e profondità. Non è solo una stanza:
è un rifugio, un luogo dove il tempo rallenta e i legami si rafforzano.
Se questa fosse la casa di un romanzo, sarebbe l'ambiente ideale dove i personaggi si confidano, si ritrovano dopo una giornata difficile, o semplicemente condividono il silenzio.
In quella stessa stanza, dove ora regna la quiete e ogni oggetto sembra raccontare una storia di affetto e cura, un tempo si udivano i rumori sommessi della fame. Non quella fame che si annuncia con clamore, ma quella che si insinua lentamente, che si nasconde dietro gesti quotidiani e sguardi trattenuti.
Era l’inverno del 1944. La guerra aveva lasciato il suo segno anche lì, tra quelle pareti che ora sembrano proteggere dal mondo. La famiglia che abitava quella casa — i Conti — viveva con dignità, ma le dispense erano vuote e il pane razionato. Il padre, Arturo, insegnante di lettere, continuava a scrivere ogni sera al tavolo, con il suo calamaio e la carta ingiallita, cercando di dare un senso al caos che li circondava. La madre, Elena, cuciva abiti con vecchi tessuti, trasformando lenzuola in camicie e tende in gonne, mentre i figli, Luca e Miriam, studiavano alla luce fioca di una lampada a petrolio, sognando un futuro che sembrava lontano.
Un giorno, Miriam trovò una vecchia scatola di latta dietro una pila di libri. Dentro c’erano biscotti duri come pietre, dimenticati da tempo. Li portò in cucina come se avesse trovato un tesoro. Elena li mise nel forno per ammorbidirli, e quella sera, attorno al tavolo, si celebrò una piccola festa. Non per il cibo, ma per la speranza.
Fu in quel periodo che Arturo iniziò a disegnare la stanza a carboncino. Ogni tratto era un atto di resistenza, ogni ombra un ricordo. Non disegnava solo mobili e oggetti, ma la presenza invisibile della sua famiglia: le risate soffocate, le lacrime nascoste, i sogni condivisi in silenzio.
Anni dopo, quando la guerra era solo un’eco lontana, quel disegno rimase appeso alla parete. Non come decorazione, ma come testimonianza. Ogni volta che qualcuno lo guardava, sentiva il calore di quella sera, il profumo dei biscotti riscaldati, e la forza di chi aveva saputo trasformare la fame in poesia.
Miriam crebbe con quella stanza nel cuore. Ogni volta che la vita le sembrava troppo veloce, troppo rumorosa, tornava con la mente a quel rifugio di silenzi condivisi e biscotti riscaldati.
Dopo la guerra, studiò medicina. Voleva curare, voleva restituire. Portava con sé la memoria di quei giorni difficili, e ogni paziente era per lei una storia da ascoltare, non solo un corpo da guarire. Si trasferì a Firenze, dove divenne una pediatra molto amata. I bambini la adoravano: aveva una voce calma, mani gentili, e raccontava storie mentre auscultava i cuori.
Non si sposò mai. Diceva che l’amore lo aveva distribuito tutto tra i suoi piccoli pazienti, tra i libri che leggeva la sera, e tra le lettere che scriveva a suo fratello Luca, emigrato in Argentina. Ma conservava il disegno a carboncino del padre, incorniciato sopra la scrivania. Ogni volta che lo guardava, sentiva il calore di casa, il profumo del caffè d’orzo, e la voce di Elena che le diceva: “La bellezza è anche nelle cose semplici, Miriam.”
Negli ultimi anni, quando la memoria cominciava a sfuggirle, quel disegno diventò ancora più prezioso. Era il suo filo d’Arianna, il suo ritorno. E quando morì, a novantadue anni, il disegno fu donato alla biblioteca del quartiere, con una nota scritta a mano:
"Questa è la mia casa. Non quella fatta di mattoni, ma quella fatta di amore, resistenza e sogni condivisi."
Il disegno a carboncino era rimasto appeso per decenni sopra la scrivania di Miriam, come una finestra aperta su un tempo che nessuno poteva più toccare, ma che lei continuava a vivere ogni giorno. Le linee morbide, le ombre leggere, il tratto incerto ma vibrante di suo padre Arturo sembravano pulsare ancora, come se la stanza ritratta respirasse piano, in silenzio.
Quando Miriam morì, il disegno fu donato alla biblioteca del quartiere, accompagnato da una lettera scritta a mano, vergata con la stessa calligrafia elegante che usava per le sue ricette e le sue annotazioni mediche. Diceva:
"Questo disegno è la mia casa. Non quella fatta di mattoni, ma quella fatta di amore, resistenza e sogni condivisi. Se qualcuno lo guarda con attenzione, sentirà il rumore dei passi di mia madre, il fruscio delle pagine sfogliate da mio fratello, e il silenzio pieno di parole di mio padre."
Il bibliotecario, un uomo anziano con gli occhi pieni di storie, lo appese in una piccola sala laterale, dove pochi andavano. Ma chi ci arrivava, restava. Il disegno non mostrava nulla di straordinario: una stanza, un tavolo, delle sedie, un tappeto, qualche oggetto sparso. Eppure, c’era qualcosa. Una presenza. Un calore. Come se qualcuno fosse appena uscito dalla stanza e stesse per rientrare.
Una ragazza di nome Chiara, studentessa di storia dell’arte, lo vide per caso. Era entrata in biblioteca per cercare un manuale, ma si fermò davanti a quel disegno come se avesse trovato un libro aperto. Tornò il giorno dopo. E quello dopo ancora. Finché decise di scrivere la sua tesi su quell’immagine. Iniziò a scavare: trovò lettere, fotografie, racconti. Scoprì che Arturo aveva scritto poesie durante la guerra, che Elena aveva tenuto un diario, che Luca aveva mandato cartoline dall’Argentina con disegni infantili e parole piene di nostalgia.
Il disegno divenne il cuore del suo lavoro, e il suo lavoro divenne un libro: “Ombre di casa”. Fu adottato in alcune scuole, letto nei circoli letterari, discusso nei caffè. Il disegno fu richiesto da un museo per una mostra sulla vita domestica durante il conflitto. Esposto tra oggetti d’epoca e fotografie sbiadite, attirava sguardi lunghi, silenziosi. Alcuni piangevano. Altri sorridevano. Tutti sentivano qualcosa.
Anni dopo, una compagnia teatrale berlinese decise di ricreare quella stanza. Non solo come scenografia, ma come esperienza. Lo spettatore entrava da solo, restava cinque minuti, poi usciva. Nessuna parola. Solo la stanza. Solo il tempo sospeso. Solo il disegno, vivo.
Oggi, quel bozzetto è ancora lì, nella biblioteca. La carta ingiallita, la cornice semplice, la luce che lo accarezza al tramonto. E ogni tanto, qualcuno entra, si ferma, e sente. Non guarda solo un disegno. Entra in una casa. In una storia. In una memoria che non smette di parlare.
Arturo Conti non era un uomo che parlava molto. Preferiva il silenzio delle pagine, il fruscio della carta sotto la mano, il suono secco della punta di carboncino che graffiava il foglio. Era un insegnante di lettere, ma più che insegnare, cercava di seminare dubbi, di accendere piccole scintille nei suoi studenti. Aveva occhi profondi, da lettore instancabile, e mani che sapevano essere ferme anche quando il mondo tremava.
Durante gli anni della guerra, Arturo diventò il pilastro invisibile della sua famiglia. Non era il tipo da grandi gesti, ma ogni sera, dopo aver diviso il pane in quattro parti uguali, si sedeva al tavolo e scriveva. Non si trattava di diari, né di racconti: erano lettere. Lettere che non spediva mai. Le indirizzava a un amico immaginario, forse a se stesso, forse a un figlio futuro, e raccontava la vita com’era — cruda, fragile, ma anche sorprendentemente resistente.
Una di quelle lettere, ritrovata anni dopo tra le pagine di un libro di Leopardi, diceva:
“Oggi Miriam ha trovato dei biscotti. Li abbiamo mangiati come se fossero oro. Elena li ha scaldati nel forno, e per un attimo abbiamo dimenticato la fame. Ho guardato i miei figli ridere, e ho pensato che forse la bellezza non è nei versi, ma nei gesti. Ho disegnato la stanza. Non per ricordare, ma per non dimenticare.”
Il disegno nacque quella sera. Arturo lo tracciò con mani stanche, ma con lo sguardo lucido. Ogni oggetto era un frammento di vita: il tappeto consunto, le sedie con i cuscini cuciti da Elena, il tavolo dove Miriam studiava e Luca costruiva piccoli aeroplani di carta e barchette. Non c’erano persone nel disegno, ma c’era tutto di loro.
Dopo la guerra, Arturo non cercò riconoscimenti. Continuò a insegnare, a scrivere, a vivere con discrezione. Ma ogni tanto, quando la casa era silenziosa e il sole filtrava tra le tende, si sedeva davanti al disegno e lo osservava. Come se fosse uno specchio. Come se, in quelle ombre morbide, ci fosse ancora la voce di Elena che gli diceva: “Hai fatto bene, Arturo. Hai tenuto insieme tutto.”
Morì in una mattina d’autunno, con un libro aperto sul petto e una tazza di caffè d’orzo ancora calda sul comodino. Miriam trovò il disegno appoggiato sul tavolo, con una nota scritta a matita:
"Non è arte. È casa."
Luca aveva mani piccole ma precise, dita che sapevano piegare la carta con una delicatezza che sembrava quasi sacra. Mentre il mondo fuori si sgretolava sotto il peso della guerra, lui costruiva aeroplanini e barchette di carta, come se volesse dare forma ai sogni che non poteva ancora vivere.
Ogni foglio era una promessa. I fogli di quaderno, le pagine strappate dai vecchi libri di scuola, persino le lettere mai spedite di suo padre — tutto diventava veicolo di speranza. Gli aeroplanini li lanciava dal balcone, osservandoli planare tra i panni stesi e le antenne arrugginite, immaginando che potessero raggiungere suo zio in Calabria, o magari volare fino in Argentina, dove un giorno avrebbe voluto andare. Le barchette, invece, le lasciava galleggiare nelle pozzanghere dopo la pioggia, come se fossero navi in partenza da un porto invisibile verso direzioni dove tutto era possibile.
Una volta, Miriam gli chiese:
— “Ma dove vanno, Luca, tutti questi tuoi sogni di carta?”
E lui, senza smettere di piegare, rispose:
— “Vanno dove non ci sono bombe. Dove c’è silenzio. Dove possiamo ridere senza avere paura.”
Arturo lo osservava spesso, in silenzio, dal tavolo dove scriveva. Vedeva in quei giochi una forma di resistenza, una poesia fatta di pieghe e traiettorie. Annotò in una delle sue lettere:
“Luca costruisce il futuro con le mani. Non lo sa, ma ogni barchetta che galleggia è un atto di fede. Ogni aeroplanino che vola è un grido di libertà.”
Quando la guerra finì, Luca non smise di costruire. Da ragazzo, disegnava progetti di ponti e alianti. Da adulto, emigrò in Argentina, dove divenne ingegnere aeronautico. Ma in ogni casa in cui visse, conservò una scatola di cartone con dentro le sue prime creazioni: barchette ingiallite, aeroplanini con le ali piegate, alcuni con scritte infantili come “Per Miriam” o “Verso il sole”.
E quando, ormai anziano, tornò in Italia per visitare la biblioteca dove era custodito il disegno di suo padre, si fermò davanti a quell’immagine e sorrise.
— “Quella stanza era il mio hangar. E quelle pozzanghere, il mio oceano.”
Luca, ormai anziano, siede davanti al computer con la stessa concentrazione che da bambino dedicava ai suoi aeroplanini di carta. Il tempo ha piegato le sue spalle, ma non ha intaccato la sua curiosità. Le dita scorrono lente sulla tastiera, come se stesse ancora piegando un foglio, cercando la forma giusta per farlo volare.
La stanza intorno a lui è un rifugio di memoria. Il tappeto sotto il tavolo è lo stesso che sua madre Elena stendeva ogni primavera, battendolo con forza sul balcone. Le ceramiche sul tavolo, le fotografie alle pareti, persino il modo in cui la luce filtra dalle tende — tutto parla di casa, di radici, di un tempo che non ha mai smesso di abitare in lui.
Sul computer, Luca sta scrivendo una lettera. Non una mail qualsiasi, ma un racconto per sua nipote Martina, che vive a Rosario e sogna di diventare illustratrice. Le sta raccontando di quando, da bambino, costruiva barchette di carta e le lasciava andare nelle pozzanghere, immaginando che potessero attraversare l’oceano. Le scrive di Arturo, suo padre, che disegnava la loro casa con il carboncino, e di Miriam, che lo guardava lanciare aeroplanini dal balcone con gli occhi pieni di futuro.
“Martina, ogni sogno ha bisogno di una forma. Io usavo la carta. Tu usi i colori. Ma in fondo, facciamo la stessa cosa: cerchiamo di dare un corpo alla speranza.”
Luca sorride mentre scrive. Il computer è moderno, ma il gesto è antico. È lo stesso gesto che faceva Arturo, piegato sul tavolo, con l’inchiostro e la carta. È lo stesso gesto che ha attraversato generazioni, trasformandosi ma rimanendo fedele a sé stesso.
E in quella stanza, dove ogni oggetto è un testimone silenzioso, Luca continua a costruire. Non più barchette né aeroplanini, ma parole. Parole che volano, che galleggiano, che arrivano lontano.
Ecco la lettera che Luca sta scrivendo a sua nipote Martina, seduto nella stanza che un tempo fu il cuore della sua infanzia. Le dita scorrono lente sulla tastiera, ma ogni parola è un frammento di memoria, un ponte tra generazioni.
Catanzaro, 9 settembre 2025
Mia cara Martina,
Oggi la luce entra dalla finestra come faceva allora, quando ero bambino e costruivo aeroplanini di carta con tuo bisnonno Arturo che scriveva in silenzio al tavolo. La stanza è cambiata, certo. Il computer ha preso il posto del calamaio, e le barchette non galleggiano più nelle pozzanghere, ma nei tuoi disegni. Eppure, qualcosa è rimasto uguale: il bisogno di creare, di dare forma ai sogni.
Ti scrivo perché stamattina ho ritrovato una delle mie vecchie barchette. Era nascosta tra le pagine di un libro.. La carta è fragile, ingiallita, ma le pieghe sono ancora lì, precise. Sopra c’è scritto, con la mia calligrafia infantile: “Verso il sole.”
Avevo sette anni. E credevo davvero che quella barchetta potesse arrivarci.
Sai, Martina, tuo bisnonno Arturo non parlava molto. Ma disegnava. Con il carboncino, tracciava la nostra casa, i nostri silenzi, le nostre speranze. Ogni ombra era una carezza, ogni linea un pensiero. Quel disegno è ancora appeso nella biblioteca del paese. Lo chiamano “Il rifugio”. Ma per me è semplicemente casa.
Tu hai il dono dei colori. Io avevo quello della carta. Arturo, quello delle parole. Miriam, quello dell’ascolto. Ogni generazione ha il suo modo di raccontare. Ti scrivo per dirti che non devi avere paura di farlo. Disegna le tue barchette, i tuoi aeroplanini. Falli volare. Falli navigare. Falli vivere.
E quando ti sentirai persa, ricordati di questa stanza. Di questo tavolo. Di questa luce.
Qui, anche il silenzio ha voce.
Ti abbraccio forte, con tutta la carta che ho piegato nella vita e i sogni conservati, quelli ancora in attesa e quelli realizzati.
Nonno Luca
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