Feste sì, ma solo se fanno fatturato

 

Un po’ di educazione civica: il 4 novembre è la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, ma non è più una festività sentita da quando, nel 1977, una “rivoluzione al contrario” — ben lontana da quella copernicana di Kant — decise di declassarla, sacrificandola sull’altare della produttività industriale e del profitto.


Il 4 Novembre e il tempo rubato: quando la memoria vale meno del profitto

Ogni anno, il 4 novembre torna come una data silenziosa, quasi dimenticata. Non ci sono scuole chiuse, uffici deserti, né folle in piazza. Eppure, questa giornata racchiude uno dei significati più profondi della nostra storia nazionale: la fine della Prima Guerra Mondiale, il completamento dell’unità d’Italia, il sacrificio di migliaia di vite per un’idea di patria. Ma dal 1977, il 4 novembre non è più festa. È stato declassato, immolato sull’altare della produttività industriale, insieme ad altre ricorrenze civili e religiose. Perché ricordare non produce. Non genera profitto.

La decisione di abolire il 4 novembre come giorno festivo fu parte di una più ampia “razionalizzazione” del calendario, voluta dal governo in risposta alla crisi economica degli anni Settanta. Insieme a San Giuseppe, l’Ascensione, il Corpus Domini e i Santi Pietro e Paolo, anche la Festa della Repubblica fu spostata alla domenica. Il messaggio era chiaro: il tempo non è più spazio per la riflessione, ma carburante per la macchina produttiva.

Da allora, il 4 novembre è diventato una commemorazione istituzionale, celebrata con cerimonie militari, corone al Milite Ignoto, discorsi ufficiali. Ma per la maggior parte dei cittadini, è un giorno come un altro. La memoria collettiva si è assottigliata, la coscienza civica si è dissolta nel rumore di fondo del consumo.

 Il culto della produttività

Viviamo in un’epoca in cui il tempo è denaro, e il denaro è misura di ogni cosa. Le festività sono tollerate solo se generano fatturato: Natale è shopping, Pasqua è turismo, Ferragosto è consumo. Le ricorrenze civili, invece, sono viste come ostacoli alla crescita, come pause improduttive. Il cittadino è diventato consumatore, il lavoratore è diventato ingranaggio. E la storia? Un lusso per chi ha tempo da perdere.

Ma questa visione è miope. Perché una società che non ricorda è una società che non sa chi è. E una società che non sa chi è, non sa dove andare.

Eppure, qualcosa resiste. Resiste chi il 4 novembre si ferma, anche solo per un minuto, a pensare. Chi racconta ai figli cosa significa “Unità Nazionale”. Chi crede che la pace non sia scontata, che la libertà abbia un prezzo, che la dignità non si misura in euro. Resiste chi rifiuta di vivere solo per produrre, chi rivendica il diritto alla lentezza, alla riflessione, alla memoria.

Resiste anche la scuola, quando decide di spiegare ai ragazzi cosa fu la Grande Guerra, cosa significa “Milite Ignoto”, perché il sacrificio di chi ha combattuto non può essere dimenticato.

 Riscoprire il senso del tempo

Forse è tempo di una nuova rivoluzione. Non quella che taglia le feste, ma quella che le restituisce. Una rivoluzione che rimetta al centro la persona, la comunità, la storia. Che riconosca che il tempo non è solo denaro, ma anche memoria, dignità, cura.

Il 4 novembre non è solo una data. È un invito a ricordare che l’Italia è nata anche dal sacrificio, dalla lotta, dalla speranza. E che nessun profitto può cancellare il valore di ciò che ci ha resi un popolo.


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