Tra i mercanti, fuori dalla bolla
Ad intuito Pontegrande e Pontepiccolo erano due località con qualche attinenza in comune al nome che li contraddistingueva. Lo supponevo. Ma non ne ero certo. Erano due quartieri attaccati l’uno dietro l’altro lungo la strada che da Catanzaro porta a Sant’Elia. Compresi la toponomastica quando dovetti frequentare la terza media a Pontepiccolo. Iscritto d’ufficio, ricordo, perché fui “espulso” dal collegio. Correva l’anno … non ricordo quale anno corresse ma correva veloce per i miei 13/14 anni stracolmi di adrenalina e voglia di conquistare il mio posto nella società oltre le mura dei salesiani.
Mia madre aveva preparato il “corredo” da portare a Napoli e sistemato in valigia con cura. Partì
con un bel vestito blu chiaro che usai solo per il viaggio di andata. Come d’incanto
crebbi di botto. All’improvviso quei pantaloni e quella giacca che mi piacevano
tantissimo non riuscì ad indossarli: tropo piccoli per il mio corpo in transito!
Ritornai a casa con dei pantaloni recuperati tra gli indumenti usati senza
matricola che la lavanderia metteva a disposizione di chiunque li riconoscesse.
Però, quelli, non li reclamò nessuno. Erano grandi per me ma m piacquero e li
adattai.
Arrivai a casa di venerdì, ricordo. Il giorno seguenti andai
al mercatino che all’epoca si faceva a Pontepiccolo. Nella strada interna,
sinuosa, si piantavano le bancarelle dell’usato e delle cose nuove. Vestiti,
fiori, piante, frutta e verdura e c’era anche un ragazzino che vendeva grucce
in legno e altre di plastica che il padre recuperava dai negozi che volevano
disfarsene. Passai oltre. Mi avvicinai ad una bancarella che esponeva jans,
magliette, indumenti intimi e anche lenzuola. Dalla tettoia in stoffa tenuta su
da una intelaiatura tubolare svolazzavano dei vestiti da donna. Piegati, e
accatastati sul ripiano di tavole, c’erano dei jeans. Belli. Azzurri. Ruvidi. Li
rigirai tra le mani e chiesi il prezzo. Non ricordo quanto costassero ma mi
piacquero. Indeciso sulla misura, il commerciante mi indicò il furgone,
abbastanza alto e capiente da essere adibito a camerino lo inforcai ed uscì contento.
Soddisfatto dell’acquisto tornai sui miei passi. Incontrai il ragazzo delle
grucce. 50 lire tre grucce di legno. Mi disse. Ma dipende, a chi mi è simpatico
gliene do anche qualcuna in più. Tieni, mi sei simpatico. Te la regalo per
appenderti ‘sti jeans nuovi. Che sono? Roy rogers. Ottima scelta. Mi fai un
favore stai un po’ qua che devo andare urgente urgente a bagno. E senza aspettare
risposta se ne andò. Di punto in bianco mi trovai a fare il venditore di grucce.
dopo qualche ora eccolo rispuntare. Stavo per andarmene anch’io, gli dissi. Tu non
tornavi e si è fatto tardi. Questi sono i soldi che ho venduto qualche gruccia …
No tieniteli tu, tanto questi sono trovati. Ah io mi chiamo “Talianu” e tu?
Rimasi ancora qualche minuto accanto alla pila di grucce,
quasi per rispetto verso quel ruolo improvvisato che mi aveva dato Talianu. Lui
era tornato con l’aria di chi ha risolto un’urgenza e si sente leggero. Mi
guardò, sorrise, e mi disse: “Hai fatto più vendite tu in un’ora che io in
tutta la mattinata. Sei portato, si vede.”
Mi fece compagnia per un po’, raccontandomi che il padre
lavorava in una lavanderia del centro e che spesso recuperava oggetti
dimenticati o scartati dai negozi. “Le grucce sono solo l’inizio,” disse. “A
volte troviamo camicie, cravatte, persino scarpe. Basta saperle sistemare e
rivendere.”
Io lo ascoltavo con curiosità, mentre il mercatino cominciava a svuotarsi. Il sole calava dietro le colline di Sant’Elia e l’aria si faceva più fresca. Talianu mi propose di aiutarlo anche il sabato successivo. “Ti do una percentuale, eh, anzi no facciamo a metà!. Ma devi venire presto, alle sette. Prima che arrivino i vecchi a cercare le occasioni.”
Accettai. Non tanto per i soldi, ma per quella sensazione di
libertà, di movimento, di vita vera che si respirava tra le bancarelle. Era
come se ogni oggetto avesse una storia, e ogni cliente una piccola missione da
compiere.
Tornai a casa con i jeans nuovi, una gruccia di legno in
mano, e qualche moneta in tasca. Mia madre mi guardò, sorpresa. “Dove sei
stato?” chiese. “Al mercato,” risposi. “Ho lavorato.”
Lei non disse nulla, ma mi parve che sorridesse. Forse aveva
capito che stavo crescendo. Non solo nei pantaloni, ma anche dentro.
Il sabato successivo mi svegliai prima del solito. L’aria
era ancora fresca e pungente, ma già si sentiva il fermento della giornata.
Pontepiccolo si animava piano piano, come un organismo che si stiracchia dopo
il sonno. Mi misi i jeans nuovi, quelli comprati la settimana prima, e una
maglietta bianca che mia madre aveva stirato con cura. Avevo in tasca qualche
spicciolo e tanta voglia di rivedere Talianu. E farne di nuovi.
Lo trovai già lì, intento a sistemare le grucce su una
coperta stesa a terra. Mi vide e mi fece un cenno con la testa, come a dire
“sei dei nostri”. Mi diede subito da fare: “Oggi ci dividiamo. Tu stai qui, io
vado a cercare altra roba. Se qualcuno chiede, 50 lire tre grucce. Se ti
sembrano simpatici, fai come vuoi.”
Il mercato era più affollato del solito. Passavano signore
con borse di tela, uomini con cappelli calati sugli occhi, bambini che
correvano tra le bancarelle. Una donna si fermò, ne scelse sei, mi diede 100
lire e mi disse: “Tienile pure, sei bravo.” Mi sentii importante. Come se quel
gesto avesse certificato la mia presenza nel mondo.
Verso le undici tornò Talianu con un sacco pieno di cinture,
alcune nuove, altre da sistemare. “Le mettiamo qui, vicino alle grucce. Oggi
facciamo il banco misto.” Mi raccontò che aveva trovato un negoziante disposto
a regalargli la merce invenduta. “Basta avere la faccia giusta,” disse. “E tu
ce l’hai.”
Quel giorno vendemmo quasi tutto. Alla fine, seduti sul
marciapiede, dividemmo il guadagno. “Ti sei meritato questo,” disse, porgendomi
una banconota da 500 lire. “E se vuoi, sabato prossimo si replica.”
Tornai a casa con le tasche piene di monete tintinnanti e il cuore ancora più
pieno. Avevo scoperto che il mondo non era solo scuola, regole e collegi. Era
anche mercatini, incontri, parole scambiate sotto una tettoia di stoffa. Era
anche Talianu. Tutto ciò ballava nella mia testa ad ogni passo che, per fare risuonare le monete, marcavo come un militare mentre marcia.
Quel gesto, semplice e potente, aveva un peso che andava ben
oltre il valore delle lire. Portare a casa quei soldi, guadagnati con le tue
mani, con la tua iniziativa, era come dire: “Ci sono anch’io. Posso
contribuire. Posso essere utile.” Era un modo per affermare la propria
esistenza, per uscire dall’ombra dell’adolescenza e cominciare a camminare con
le proprie gambe.
Mi sentivo gratificato. Importante nel portare a casa quei
soldi, averne dei miei e darne a mia madre.
Mia madre non disse molto. Ma lo sguardo, quello sì,
parlava. Un misto di sorpresa, orgoglio, e forse anche un pizzico di
malinconia: il figlio che cresce, che si allontana un po’ da quel nido fatto di
attenzioni e preoccupazioni, per affacciarsi al mondo con le sue forze.
Il sabato seguente, il mercatino era più affollato del
solito. L’aria sapeva di pane caldo e di terra bagnata, e tra le bancarelle si
sentiva un brusio continuo, come un fiume di voci che non si fermava mai. Io e
Talianu avevamo sistemato le grucce e le cinture, ma quella mattina lui
sembrava distratto.
“Mi ha parlato uno,” mi disse, mentre sistemava una fila di
grucce. “Dice che cerca un ragazzo sveglio per lavorare in un negozio di
abbigliamento in centro. Serve uno che sappia parlare con la gente, sistemare
la merce, magari anche fare qualche consegna. Io gli ho detto di te.”
Mi bloccai. Era una proposta vera. Un lavoro vero. Non solo
il sabato, ma tutti i giorni. “E tu?” chiesi. “Tu non ci vai?”
Talianu scrollò le spalle. “Io sto bene qui. Mi piace il
mercato, mi piace la libertà. Ma tu… tu sei diverso. Hai qualcosa negli occhi,
come se stessi cercando una strada.”
Quella frase mi rimase dentro. Era vero. Cercavo una strada.
E forse quella proposta era un bivio: restare nel mondo delle bancarelle, delle
giornate improvvisate, delle vendite al volo… oppure provare a entrare in
qualcosa di più stabile, più adulto, più impegnativo. Almeno per il periodo
delle vacanze.
Ci pensai tutto il giorno. Tornai a casa con i soldi che
misi in un vassoio di creta, ma anche con il pensiero fisso. Mia madre,
vedendomi pensieroso, mi chiese: “Tutto bene?” Le raccontai. Lei non disse
nulla subito. Poi, mentre piegava una tovaglia, disse: “Se senti che è il
momento, prova. Ma non dimenticare chi sei.”
Il lunedì mi presentai al negozio. Il proprietario mi
guardò, mi fece qualche domanda, poi mi disse: “Inizia domani. Vediamo come te
la cavi.”
Fu così che lasciai il mercatino. Ma non mi dimenticai di Talianu.
Ogni sabato, passavo a salutarlo. E ogni volta, lui mi diceva: “Bravo. Ma
ricordati: le grucce ti hanno fatto iniziare.”
Il giorno dopo, alle otto in punto, ero davanti alla vetrina
del negozio. Si chiamava “Moda & Stile” e aveva manichini vestiti con abiti
eleganti, camicie stirate alla perfezione, cravatte dai colori sgargianti. Il
proprietario, il signor Rinaldi, era un uomo alto, con i capelli pettinati
all’indietro e un tono di voce che non ammetteva repliche.
“Puntuale. Bene,” disse, senza sorridere. “Seguimi.”
Mi mostrò il retrobottega, dove arrivavano i pacchi, dove si
stiravano i capi, dove si sistemavano le scorte. Poi mi diede un grembiule nero
e mi disse: “Oggi osservi. Domani lavori.”
Passai la mattinata a guardare. Come si piegavano le
camicie, come si accoglievano i clienti, come si parlava con tono gentile ma
deciso. Ogni gesto era misurato, ogni parola calibrata. Era un mondo diverso
dal mercatino: più ordinato, più rigido, ma anche più raffinato. E io, in mezzo
a tutto, mi sentivo un apprendista in un teatro nuovo.
A mezzogiorno, il signor Rinaldi mi fece sedere nel retro e
mi offrì un panino. “Hai occhio,” disse. “E hai educazione. Questo conta. Ma
qui si lavora sodo. Se resti, impari. Se molli, non torni.”
Annuii. Non avevo intenzione di mollare.
Il pomeriggio mi fece sistemare una vetrina. Mi diede tre
camicie, due cravatte e un paio di pantaloni. “Fammi vedere cosa sai fare.” Mi
tremavano le mani, ma mi concentrai. Pensai a come avrei voluto vedere quei
vestiti se fossi passato per strada. Quando finii, lui si avvicinò, guardò in
silenzio, poi disse: “Non male. Hai gusto.”
Quella sera tornai a casa stanco, ma felice. Avevo fatto il
mio primo giorno da lavoratore vero. E mentre raccontavo tutto a mia madre,
vidi nei suoi occhi qualcosa che non avevo mai visto prima: fiducia. Non solo
affetto, non solo preoccupazione. Fiducia.
Ero sulla strada giusta.
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