Parenti serpenti

 
Si avvicinano le feste di natale e guardandomi in giro, oltre le luci intermittenti e i tantissimi "pensierini d'affetto" mi viene in mente ... LA COMMEDIA ALL'ITALIANA

A volte, anzi spesso, mi torna in mente il film satirico della commedia all’italiana Parenti serpenti, e non per caso: certi atteggiamenti familiari sembrano usciti direttamente da quella sceneggiatura. Mi riferisco a chi predica bene ma razzola male, soprattutto nei rapporti tra consanguinei. Proprio coloro che si mostrano più esigenti in fatto di affetti e valori familiari finiscono spesso per pensare solo al proprio benessere. Non vogliono essere disturbati nelle loro abitudini, fanno inviti mirati e risicati, ma non esitano a puntare il dito contro gli altri membri della famiglia. Sempre pronti a scorgere la pagliuzza nell’occhio altrui, ignorano la trave che alberga nel proprio.

La famiglia all’italiana: tra satira, ipocrisia e messaggi vocali, è lo specchio dei giorni nostri. Purtroppo, quando si parla di famiglia in Italia, si sfiora spesso il sacro e molti “morti” cadono sul campo alla luce di analisi fredde e sincere solitamente sottaciute per “amor del quieto vivere”. Ma il cinema ha saputo smascherare con ironia e amarezza le crepe dietro la facciata. 

Due film emblematici in questo senso sono “Parenti serpenti” di Mario Monicelli e “Scorribande” di Mimmo Calopresti. Entrambi, seppur con toni diversi, mettono a nudo le dinamiche tossiche, i rancori sedimentati e le ipocrisie che si annidano nei rapporti di sangue.

- In Parenti serpenti (1992), il Natale diventa il palcoscenico perfetto per mostrare come l’amore familiare possa essere solo una maschera. Dietro i sorrisi e i brindisi si cela un cinismo feroce, dove l’anziana madre diventa un peso da scaricare, e ogni figlio pensa solo al proprio tornaconto.

- Scorribande (1999), ambientato nella Calabria più autentica, racconta invece il ritorno a casa di un uomo che ha lasciato il Sud per cercare fortuna altrove. Ma il ritorno non è mai neutro: riemergono tensioni, silenzi, e quel senso di colpa che spesso accompagna chi si è “allontanato” dalla famiglia e dalla terra d’origine.

Questi film non sono solo racconti di finzione: sono specchi. Riflettono un tratto profondo del nostro tessuto sociale, quello che il sociologo Banfield definiva “familismo amorale”: l’idea che la famiglia venga prima di tutto, ma solo finché serve a garantire il benessere individuale. E chi predica l’unione, spesso è il primo a sottrarsi quando c’è da condividere fatiche, dolori o responsabilità. E non è raro che proprio i più esigenti in fatto di affetti siano anche i più restii a farsi coinvolgere davvero.

Oggi, molte di queste dinamiche si sono trasferite nei gruppi WhatsApp familiari. Lì si consuma una nuova forma di ipocrisia digitale:

- Chi non risponde mai, ma pretende aggiornamenti costanti.

- Chi manda cuoricini e preghiere, ma poi sparisce quando c’è da aiutare.

- Chi si offende se non riceve gli auguri, ma non li fa mai per primo.

- Chi usa il gruppo per lanciare frecciatine passive-aggressive, mascherate da “innocenti” catene o battute.

In fondo, come nei film, anche nei nostri telefoni si recita. Solo che il palcoscenico è uno schermo, e il copione è scritto a colpi di emoji e messaggi vocali.

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