Empatia e rottura
Dal brut al polimaterico
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| "part. J'accuse." |
L’arte come etica del margine: due visioni a confronto.
Ci sono incontri che non si cercano, ma che accadono come rivelazioni. Il mio cammino nell’arte ha incrociato due figure che, pur distanti per tempo e geografia, parlano la stessa lingua dell’anima: Jan Dubuffet e Mario Iannino. Il primo mi ha raggiunto per caso, come una voce che risuona nel silenzio e apre varchi inattesi; il secondo è emerso come eco familiare, un compagno di pensiero che da tempo camminava accanto a me, invisibile ma presente.
Entrambi hanno fatto dell’arte un gesto di ascolto, un atto di resistenza, una forma di cura. In loro ho riconosciuto una tensione comune: quella di restituire dignità alle voci marginali, di cercare il senso nelle pieghe del non detto, di creare non per apparire, ma per comprendere. Il mio incontro con loro ha segnato l’inizio di un percorso che, pur non programmato, sembra scritto da una necessità profonda: quella di dare forma all’umano.
Nel panorama dell'arte consacrata la figura di Jan Dubuffet,
a mio avviso gode di un'aurea luminosa come tutti gli altri uomini che si sono
dedicati con sensibilità agli altri, ai diversi, diseredati e emarginati.
osservatori attenti, hanno impegnato tempo ed energie alla possibilità
intrinseca della comunicazione creativa. Quella che pomposamente è definita
arte colta si è appropriata della ricerca, ed ha, come sempre, contaminato le
intenzioni altruiste d quanti si sono messi in cammino sui sentieri delle anime
semplici, genuine, non contaminate dalla lusinga culturale dell'essere
"artista".
Jan Dubuffet ha incarnato una rivoluzione silenziosa, una
ribellione poetica contro l’estetica dominante, restituendo dignità espressiva
a chi ne era stato privato. Il suo lascito è un invito a riconsiderare il
concetto stesso di arte, liberandolo dai vincoli elitari e restituendolo
all’umano.
L’arte come gesto di ascolto
Nel solco tracciato da Jan Dubuffet, l’arte non è più un esercizio
di stile, ma un atto di “empatia radicale”. Egli ha scelto di volgere lo
sguardo là dove nessuno guardava: verso i margini, verso gli esclusi, verso
quelle voci che la società aveva silenziato. Con la teorizzazione dell’Art Brut,
Dubuffet ha elevato a forma d’arte le espressioni spontanee dei bambini, dei
malati psichiatrici, degli autodidatti, di tutti coloro che creano non per
mestiere, ma per necessità interiore.
Questa scelta non è stata solo estetica, ma etica. Dubuffet
ha rifiutato l’arte colta, quella che si nutre di accademia e mercato, per
abbracciare una creatività “non filtrata”, “non addomesticata”, che nasce dal
bisogno di comunicare, non dal desiderio di essere riconosciuti.
Contaminazione e appropriazione: il paradosso dell’arte
colta coglie un nodo cruciale in seno agli “ismi” della letteratura dell’arte. Nel
suo eterno bisogno di rinnovarsi, l’arte, ha spesso “saccheggiato” le fonti più
genuine. Ha preso in prestito l’estetica dell’Art Brut, l’ha raffinata,
teorizzata, esposta nei musei, trasformandola in oggetto di consumo culturale.
In questo processo, le intenzioni originarie — quelle di dare voce agli
invisibili — rischiano di essere snaturate.
L’artista come testimone, non come protagonista, quindi. E poiché
Dubuffet non si è mai posto come maestro, ma come “testimone” ha raccolto,
custodito, protetto le opere degli outsider, creando una collezione che ancora
oggi è un patrimonio di libertà espressiva. In questo, egli si è fatto “ponte”,
non “faro”. Ha rinunciato alla centralità dell’ego artistico per mettere in
luce gli altri per oltre venti anni.
Questa postura è rara, e per questo preziosa. In un mondo
che premia la visibilità, Dubuffet ha scelto di essere l’invisibile. Ha
camminato accanto alle anime semplici, non per rappresentarle, ma per
ascoltarle.
L’arte “grezza” è un’arte che cura. E Dubuffet insegna che
l’arte può essere “cura, resistenza, dialogo”. Può essere uno spazio in cui le
differenze non sono negate, ma celebrate. Il suo pensiero ci invita a liberarci
dalla lusinga dell’essere “artisti” per tornare ad essere “umani che creano”. E
in questo gesto, forse, si cela la forma più alta di bellezza.
L’incontro con Jan Dubuffet è stato un evento tellurico
inatteso. Un fatto non voluto o premeditato ma un incontro casuale come quegli incontri
che non si cercano, ma che ci trovano. Accadono come piogge improvvise in
giornate serene, eppure lasciano il segno, fertilizzano il terreno dell’anima.
Il mio incontro con Jan Dubuffet è stato così: non cercato, non previsto, ma
profondamente trasformativo. Come ogni cosa bella che accade senza un motivo
apparente, ha rivelato una trama invisibile, una sorta di “prescrizione
esistenziale” che attendeva solo di essere letta e vissuta.
Dubuffet non è stato solo un artista. È stato un “rivelatore
di mondi”, un cartografo dell’invisibile. La sua arte non si impone, ma si
propone. Non cerca di stupire, ma di “comunicare”. E in questo gesto di umiltà
creativa, ho riconosciuto una vocazione: quella di ascoltare, raccogliere, custodire
le voci che la cultura dominante tende a ignorare.
Dubuffet ha camminato accanto agli emarginati, ai
diseredati, agli “altri” che la società tende a relegare ai margini. Ma non lo
ha fatto per pietà: lo ha fatto per “curiosità profonda”, per rispetto, per
amore della diversità. E in questo cammino, ho sentito di poterlo seguire, non
come discepolo, ma come compagno di viaggio.
L’Arte, il linguaggio
creativo risiede in ognuno di noi, è connaturato all’umano ed è specchio
dell’umano.
L’arte colta ha spesso contaminato le intenzioni pure di chi
si è messo in cammino con spirito altruista. Ha trasformato la ricerca in
prodotto, l’espressione in performance, il gesto in spettacolo. Ma Dubuffet ha
resistito a questa tentazione. Ha scelto la “terra”, il “fango”, la “materia
grezza”, "la pasta alta" e "la materia che trasborda" come simboli di una creatività che non ha bisogno di ornamenti.
L’ incontro con lui ha suggerito e insegnato che l’arte può essere
“cura”, “ascolto”, “testimonianza”. Può essere un modo per dire: “Io ti vedo.
Tu esisti. La tua voce conta.” La bellezza si cela nell’imprevisto.
Forse è proprio questo il dono più grande che Dubuffet ha fatto: ricordare che le cose più vere accadono quando non le cerchiamo. Che l’arte non è un mestiere, ma un modo di essere. Che ogni incontro, anche il più casuale, può diventare una “chiamata”, un “inizio”, una “prescrizione dell’anima”.
E su questo percorso, sulle tracce dell’arte che ascolta,
intendo ragionare e fare un parallelismo tra: Dubuffet e Iannino, due incontri,
un cammino, a mio avviso comune.
Come già scritto, ci sono incontri che non si cercano, ma
che accadono. Come pietre miliari lungo un sentiero che non sapevamo di
percorrere, ci rivelano una direzione, una vocazione. E, se pur casuale, l’incontro
con Jan Dubuffet è stato illuminante, necessario. Quello con Mario Iannino,
invece, è stato come ritrovare un compagno di viaggio che da tempo camminava
accanto a me, senza che me ne accorgessi.
Dubuffet mi ha insegnato che l’arte può nascere dal margine,
dalla ferita, dalla voce che non ha mai avuto spazio. Iannino mi ha mostrato
che quell’arte può anche essere “cura”, “memoria”, “resistenza”.
Entrambi, in modi diversi, hanno scelto di ascoltare gli
altri, di dare forma all’invisibile, di restituire dignità a ciò che la cultura
dominante tende a ignorare, forse perché soggiogata dal mercato e dall’esposizione
mediatica che ne consegue.
Per Dubuffet l’arte è ribellione gentile. Ha infranto le
regole dell’estetica colta per abbracciare l’*Art Brut*, quella forma di
espressione che nasce dalla necessità, non dalla tecnica. Ha raccolto le opere
dei “folli”, degli emarginati e dei bambini, degli autodidatti, non per esporle, ma per
proteggerle. Il suo gesto è stato radicale: ha detto che l’arte non appartiene
agli artisti, ma agli esseri umani.
Nel mio incontro con lui ho sentito una chiamata: quella di
liberarmi dalla lusinga culturale dell’essere “artista” per tornare a essere
*testimone*. Dubuffet non ha cercato il successo, ha cercato la verità. E in
questo, ho riconosciuto una parte di me che voleva emergere.
In Iannino l’arte è anche gesto civile.
Mario Iannino, artista calabrese, ha fatto dell’arte un
gesto civile. Nei suoi scritti e nelle sue opere, la materia diventa memoria,
il segno diventa denuncia, il vuoto diventa pieno. Il suo blog è un diario diresistenza poetica, dove ogni parola è un abbraccio, ogni immagine è una
domanda.
Iannino non cerca di stupire, ma di “ricordare”. Ricordare i
volti, le storie, le assenze. La sua arte è fatta di stratificazioni, di
palinsesti, di cancellazioni che rivelano. In lui ho ritrovato Dubuffet, ma
anche me stesso: la volontà di creare non per essere visti, ma per *vedere*.
Tra Dubuffet e Iannino corre un filo invisibile: quello
dell’altruismo creativo. Entrambi hanno scelto di camminare accanto agli altri,
non davanti. Hanno fatto dell’arte uno spazio di ascolto, non di affermazione.
E io, nel mio piccolo, ho sentito di poterli seguire.
Il mio cammino artistico non è fatto di opere, ma di
incontri. Di gesti. Di parole che cercano un senso. Dubuffet mi ha insegnato a
guardare il margine. Iannino mi ha insegnato a custodirlo. E io, tra loro, ho
trovato il mio posto.
Forse l’arte non è altro che questo: un destino condiviso.
Un luogo dove le anime semplici si incontrano, si riconoscono, si abbracciano.
Dove il gesto diventa ponte, il segno diventa voce, la materia diventa memoria.
Dubuffet e Iannino mi hanno mostrato che l’arte non salva il
mondo, ma può “salvare la purezza dello sguardo”. E in questo sguardo
decontaminato, io continuo a camminare.
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