Aldo Moro, Il Martire a Catanzaro

 di Franco Cimino 

QUELLA RENAULT QUATTRO ROSSA, OGGI A CATANZARO, E IL RACCONTO DELLA TRAGEDIA MORO CHE ANCORA DOMANDA



Sì, presuntuoso, arrogante, permaloso, come egli stesso si è definito oggi durante le due ore di intervento relazione, che Gero Grassi, parlamentare di lungo corso e presidente della Commissione parlamentare sul delitto Moro, ha tenuto nella sala convegni della Camera di Commercio delle tre province dell’area centrale della Calabria, con sede a Catanzaro.


Camera di Commercio che, sotto l’intelligente egida del suo presidente Pietro Falbo, ha promosso il convegno odierno dal titolo “L’eredità morale di Aldo Moro”, accompagnato da altri sottotitoli, come tracce di un ragionamento articolato intorno ai temi della sicurezza, della legalità e dell’etica in economia.

Del convegno ha fatto da preziosa premessa l’esposizione, nelle sale al pianterreno, della famosa Renault Quattro rossa, nella quale fu ritrovato il corpo esanime di Aldo Moro, in quel tragico 9 maggio 1978.

Quei tre sostantivi, con cui si è descritto — e con i quali forse è stato stigmatizzato da chi lo conosce — talvolta non sono difetti, ma qualità. Risorse. Elementi di forza. Che lui stesso ha voluto richiamare, attribuendoseli forse anche per quel tocco di vanità, o di furbizia retorica, che gli serviva per essere ascoltato dall’uditorio, affollato in particolare di ragazzi e studenti.

E questo gli è riuscito. Per ben due ore di relazione — pur condotta con un eloquio e un ritmo affascinanti, ma pur sempre due ore — è riuscito a mantenere viva l’attenzione di un pubblico, soprattutto quello scolastico, che difficilmente sopporta le lunghe lezioni dei docenti.

Proprio grazie a quelle sue “difettose qualità” egli ha potuto sostenere in tre, forse quattro decenni di indagini, le ricerche e i faticosi lavori parlamentari, portati avanti solo per cercare la verità sul delitto più inquietante che la storia politica italiana ricordi e non soltanto quella repubblicana.

Eh sì, se non fosse stato presuntuoso, non avrebbe lavorato intorno alla sua intuizione, che fu anche di altre personalità, non solo politiche. E modestamente anche della mia, come documentano le decine di articoli che scrissi all’indomani del delitto, quando non mi convinceva affatto che le Brigate Rosse fossero state le uniche ideatrici ed esecutrici di quella incredibile, “perfetta, geometrica potenza di fuoco” che scrisse col sangue la pagina più drammatica della storia della democrazia italiana.

“Presuntuoso” , Grassi, ad averla affermata, quell’intuizione. Se non fosse stato arrogante, non l’avrebbe spinta contro le ingenue incomprensioni di molti e le robuste resistenze di quei pochi che avevano interesse a tenere nascosta la verità e a impedire che venisse cercata. E soprattutto nella sede più solenne: il Parlamento.

Se non fosse stato permaloso, Gero Grassi non avrebbe potuto sopportare, sul piano umano, tutta quella fatica e quegli anni di resistenza — oserei dire democratica — per difendere la “vita” di un “uomo morto per abbandono” e quel grande politico cui si è voluto negare lucidità e intelligenza durante i giorni della ignobile prigionia.

Attraverso il dialogo con i suoi sequestratori e le tante missive inviate da quella prigione, Moro chiariva tutto ciò che riguardava quella tragedia, offrendo notizie anagrammate per chi avrebbe dovuto cercarlo e che invece, non leggendo bene quei testi, volutamente evitò di farlo.

Cosa assurda, come giustamente affermava — arrogantemente e presuntuosamente — Gero Grassi: in un Paese come l’Italia, in cui contestualmente operavano i servizi segreti degli Stati Uniti, di Israele e dell’Unione Sovietica, cioè i più potenti e attrezzati del mondo. In una realtà come la nostra non solo poté avvenire in pieno giorno quel rapimento che neppure una scena di film avrebbe potuto immaginare, ma accadde che nella capitale di questo importante Paese, alle nove del mattino, in una delle aree urbane più trafficate d’Europa, potesse sparire all’improvviso un piccolo esercito militare e le auto che lo trasportavano, con il prezioso ostaggio a bordo.

E accadde, incredibilmente, che nei cinquantacinque giorni del sequestro più importante del mondo non si avesse alcuna traccia. Assurdo ancora di più che, in una Roma teoricamente blindata in ogni metro quadrato, nella notte del 9 maggio una vecchia Renault rossa potesse scorrazzare per le vie della città e raggiungere via Caetani, nel mezzo tra Piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure, zona che — anche qui teoricamente — avrebbe dovuto essere tra le più controllate.

Eppure accadde. Accadde che Moro venisse barbaramente trucidato, dopo l’eccidio incredibile della sua scorta: due carabinieri e tre poliziotti.

Permaloso significa sensibilità accesa, non comune. Non solo fragilità del sentire o eccesso di reazione emotiva, ma anche e soprattutto profondità di sentimento, quella che spinge a battersi per la verità. E così fece quell’arrogante, presuntuoso, permaloso deputato pugliese che amava Aldo Moro non solo per averne frequentato le lezioni universitarie da studente, ma soprattutto per averne condiviso la lezione politica e ammirato la profondità del pensiero.

Soprattutto quel pensiero che, fin dall’inizio del suo lavoro alla Costituente — a soli trent’anni — e poi fino ai suoi ultimi giorni, anche quei cinquantacinque drammatici, vedeva nella libertà lo spazio infinito in cui dovevano affermarsi, nella società e nelle sue diverse strutture sociali, economiche, politiche e culturali, tutte le altre libertà dalle quali derivano i diritti fondamentali della Persona.

Diritti che la Costituzione, come dice anche Grassi, riconosce e non concede, perché sono naturali: la libertà è essenza costitutiva della vita umana, corredo prezioso e inalienabile che la accompagna dalla nascita.

Gero Grassi, che avevo ascoltato in altre occasioni e letto nei suoi libri, oggi è apparso gigantesco. Per la lucidità con cui ha ripercorso quei cinquantacinque giorni e gli anni successivi, per l’intelligenza con cui li ha collocati lungo il filo sottile che attraversa tutta la storia della Repubblica, dalla Liberazione fino ad oggi, quarantotto anni dopo la tragedia Moro.

Per la cultura profonda con cui ha saputo collocare in Aldo Moro, nel pensiero costituente, il valore più profondo della democrazia italiana: la libertà come processo di perenne liberazione dell’uomo e della società, come forza che lega inscindibilmente la libertà al progresso e l’economia alla creatività umana.

Una democrazia, la nostra, particolare e più forte di altre, perché fondata sulla centralità della Persona, intorno alla quale si muovono le grandi sensibilità etiche e la pluralità delle istituzioni del nostro Stato libero e democratico.

Grassi oggi è apparso imponente e imperioso per il coraggio con cui ha spiegato dettagliatamente le ragioni per cui Aldo Moro fu ucciso: certo, dalle mani sporche delle Brigate Rosse, ma su volontà intrecciate di forze internazionali — da Israele agli Stati Uniti, fino all’Unione Sovietica — tutte convergenti nell’interesse di bloccare quel processo di alta democrazia che Moro stava portando avanti per realizzare la democrazia compiuta, attraverso il compromesso storico.

Aggiungo: non solo con Berlinguer.

Per entrambi, quel compromesso doveva rappresentare un momento straordinario di passaggio verso quella forma di democrazia che la Costituzione aveva disegnato, e per la quale era necessario che tutte le forze politiche, in particolare quelle popolari, e quindi anche il Partito Comunista, fossero pienamente riconosciute — dal popolo e da se stesse — come autenticamente democratiche.

Aldo Moro, in questo disegno, fu grande e profetico. E anche vincitore, perché, nonostante l’interruzione di quel processo, una sorta di democratizzazione reale avvenne. Tragicamente, però, quel Partito Comunista non c’è più, e non ha avuto il tempo di allontanarsi dalla vita politica attraverso una revisione critica e una trasformazione forte e consapevole, come Moro auspicava e come il suo amico Enrico Berlinguer, con il suo metodo di lavoro, stava realizzando.

La tragedia, quando si fa beffa della storia, diventa ancora più drammatica, perché prima ancora del Partito Comunista fu fatta sparire — per vie diverse, e non come ancora erroneamente si vuol dire, quelle giudiziarie — la Democrazia Cristiana, sulla quale forse si è abbattuta quella terribile profezia contenuta in una delle ultimissime lettere di Aldo Moro.

Oggi, in parte, la vera storia di questi cinquant’anni di Repubblica è stata ricostruita, anche se, mancando la certezza del luogo in cui fu tenuto prigioniero e poi ucciso il leader della Democrazia Cristiana, resta ancora aperta a scenari più terribili e clamorosi.

Questo vuoto pesa molto, anche se i “dubbi” e le indagini della Commissione Parlamentare di luoghi ne indicherebbero chiaramente uno: il palazzo di proprietà dello IOR, la banca del Vaticano gestita per anni da quel cardinale inquietante, Marcinkus, l’americano con l’attico super elegante e il sigaro cubano sempre in bocca, che stranamente nessun Pontefice ha mai voluto rimuovere da quel potente ruolo.

Si è detto che ci stesse provando Papa Luciani, il “Papa buono”, morto all’improvviso dopo solo trentatré giorni dalla sua elezione al soglio pontificio.

Spero che la ricerca della verità — quella vera e compiuta — riprenda presto, e che questo politico sensibile e coraggioso possa continuare, facendo presto però, sulla strada ormai in dirittura d’arrivo.

Sarebbe questo il dono più bello che si potrebbe fare al politico bellissimo che l’Italia e l’Europa hanno avuto: affinché presto si possa parlare di lui, come oggi in parte ha fatto l’illustre relatore, non solo come di un corpo chiuso nel bagagliaio di una macchina, ma come di uno dei più grandi pensatori politici del Novecento, un costruttore di democrazia, un vero soldato della libertà.

Un uomo che, illuminato dalla fede e da una concezione laica della politica, riteneva che la garanzia di libertà e di democrazia per i popoli fosse condizione necessaria per liberare il mondo dall’ingiustizia, dalla povertà, dalle dittature, dalle guerre.

Raggiungere la verità sulla tragedia Moro — che è tragedia della democrazia e della vita, in qualsiasi senso la si intenda — significa realizzare uno dei desideri più grandi di Aldo Moro: consegnare ai giovani un futuro pulito e chiaro, ma soprattutto coniugabile con i sogni dei ragazzi.

Un futuro che, perché possa essere, ha bisogno che il presente e il passato siano ripuliti dal sangue innocente, dall’ipocrisia del potere, dalla falsità dei potenti e dall’ignominia di quanti, con la complicità di livelli internazionali, hanno cospirato contro la democrazia italiana.

È stata una bella giornata oggi. Davvero bella.

Ringrazio ancora chi l’ha promossa e i tanti ragazzi che vi hanno partecipato con serietà e sincerità di sentimenti, e con quell’attenzione che pensavo fosse ormai un elemento poco impiegato nelle belle fatiche della curiosità giovanile.

Se avessi potuto, tuttavia, io personalmente sarei sceso con una corda da una delle finestre del palazzo camerale, per non passare dall’ingresso dove è parcheggiata la Renault rossa, che fu lo spazio stretto del primo riposo di quell’uomo bellissimo, che tanto ha dato anche alla mia persona e alla mia crescita morale e culturale.

Sono democristiano da quando avevo quattordici anni, e non ho mai cessato di esserlo, neppure quando un certo “novismo” avrebbe potuto consentire anche a me, fra opportunismo e trasformismo, di realizzare facili carriere, anche istituzionali, di livello.

Sono democristiano da sempre per gli insegnamenti che mi sono giunti da uomini immensi, quali De Gasperi, Dossetti, La Pira, Zaccagnini, Fanfani e altri: personalità davvero straordinarie.

Ma se sono rimasto democristiano con un alto senso morale della politica e delle istituzioni, e con quella fede nella libertà profondamente radicata nel mio animo, se ho conservato quel senso dell’onestà non negoziabile neppure dinanzi al più stringente interesse personale o familiare, se ancora mi batto — con più forza di prima — per gli ideali che ho sempre professato, in particolare quelli della difesa della vita umana ovunque e in qualsiasi sua manifestazione, anche nella natura, per quelli della giustizia, della carità e della verità, come mi suggeriva anche il mio maestro e amico vescovo Antonio Cantisani, se non mi stanco ancora — dopo quattro anni dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina e due anni dal genocidio contro i palestinesi — di lottare contro la guerra, contro tutte le guerre, comprese quelle non viste e non dichiarate sparse nel pianeta, se non mi arrendo dinanzi alla più grande delle imprese, quella della Pace vera, fatta di giustizia, verità e libertà per i popoli oppressi e per i territori ad essi sottratti; se, e se ancora, io credo nella Politica, quale risorsa fondamentale per raggiungere tutti questi obiettivi, oltre che luogo privilegiato nel quale l’io diventa il noi senza perdere neppure un grammo di sé, questo lo devo prevalentemente ad Aldo Moro.

Non soltanto all’uomo “crocifisso”, ma all’uomo vivo, che non morirà mai, perché le idee di cui fu portatore vivranno per sempre.

E si affermeranno.

E io ne sarò felice, anche se non sarò io personalmente a goderne.

Ma ardentemente spero che sia presto, e che le mie figlie e tutti i figli del mondo possano goderne pienamente.


Franco Cimino

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