Galleria Mancuso: restauro e rancore

 Uno spazio restituito, una civiltà da ricostruire.



Il superuomo, il populismo e la galleria che ci specchia.

Viviamo in un’epoca in cui il mito del superuomo si è travestito da influencer, da imprenditore rampante, da politico che “ce l’ha fatta”. Il populismo, in questa cornice, non è solo una strategia politica: è una pedagogia rovesciata. Ci educa — o meglio, ci diseduca — a credere che il valore coincida con la visibilità, che il successo sia una questione di volume, di podio, di applausi. E così, chi lavora nel silenzio, chi costruisce senso senza réclame, chi esercita la mitezza come forma di resistenza, resta invisibile. Non fa notizia. Non “buca lo schermo”.

La recente restituzione della Galleria Mancuso alla cittadinanza è emblematica. Un luogo che fu vivo, attraversato, spontaneamente abitato da arte, sindacato, ristorazione, e che poi è stato svuotato, lasciato al degrado, come tante arterie urbane che smettono di pulsare adesso, che è stato riaperto, riqualificato, restituito alla città, ci si aspetterebbe gratitudine, o almeno partecipazione. E invece — come spesso accade — si alza il coro dei lamentatori, dei professionisti del “non va bene”, dei critici senza proposta.

Ma, di chi è la colpa? Del sindaco che ha osato restituire uno spazio alla città, o di noi cittadini che non sappiamo più cosa farcene di uno spazio comune se non possiamo gridarci dentro? Forse la colpa è condivisa. Forse è il segno di una cultura civica atrofizzata, che ha perso l’abitudine alla cura, alla manutenzione, alla responsabilità diffusa.

Eppure, c’è una speranza. Sta proprio in quegli occhi innocenti che sanno ancora dire “il re è nudo”. In chi non si lascia sedurre dal clamore, ma continua a seminare senso, magari esponendo un quadro tra due vetrine chiuse, o aprendo un bar che diventa presidio di umanità. Sta in chi non cerca premi, ma presenza. In chi non grida, ma ascolta.

Forse la Galleria Mancuso può tornare a essere questo: non un monumento al decoro, ma un laboratorio di convivenza. A patto che la città — e chi la abita — voglia davvero abitarla, non solo giudicarla.

ps:

Il nodo cruciale della nostra epoca: la trasformazione dell’etica in ornamento, e del potere in spettacolo crea:

Il superuomo da discount e la rapina dell’etica

Non parliamo del superuomo di Nietzsche, figura tragica e problematica, ma del suo surrogato da talk show: il superuomo da discount, costruito dalla politichetta da quattro soldi, quella che si nutre di slogan, selfie e premi autocelebrativi. Questo simulacro non eleva, non sfida, non interroga. Diseduca. Trascina le masse verso una strada chiusa, senza ritorno, dove la complessità è bandita e la mitezza è derisa.

Il trucco è sempre lo stesso: impossessarsi dei concetti etici, svuotarli, e poi rivenderli come merce di propaganda. La parola “merito” diventa sinonimo di sgomitare. “Libertà” si riduce a licenza di prevaricare. “Comunità” si trasforma in claque. E chi osa dire che il re è nudo viene zittito, ridicolizzato, o accusato di invidia.

Ma la verità è che non c’è nulla di eroico in chi si costruisce un podio con le relazioni giuste e le scorciatoie opache. E non c’è nulla di “popolare” in chi usa il populismo per legittimare la propria mediocrità. Il vero gesto etico, oggi, è forse quello di chi non urla, non sgomita, non si mette in posa, ma continua a fare il proprio lavoro — artistico, educativo, civile — con serietà e senza réclame.

La Galleria Mancuso non ha bisogno di superuomini. Ha bisogno di presenze umane, di gesti quotidiani, di arte che non chiede premi. Ha bisogno di chi sa ancora dire, con occhi innocenti: “il re è nudo”. E di chi, vedendolo, non si volta dall’altra parte.

Ora il Comune ha riaperto la galleria, l’ha ripulita, l’ha restituita alla città. Ma invece di accogliere il gesto come occasione di rinascita, si alza il solito coro: chi critica il colore, chi denuncia l’abbandono, chi si lamenta per principio. Non c’è proposta, non c’è visione. Solo rumore.

E allora la domanda torna: di chi è la colpa? Del sindaco che ha osato riaprire uno spazio urbano, o di noi cittadini che non sappiamo più cosa farcene di uno spazio comune se non possiamo gridarci dentro? Forse la galleria non è il problema. Forse è il sintomo. Il sintomo di una civiltà che ha smarrito la capacità di convivere, di custodire, di riconoscere valore nel silenzio operoso.

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Abbiamo aperto questo blog nell’aprile del 2009 con il desiderio di creare una piazza virtuale: uno spazio libero, apolitico, ma profondamente attento ai fermenti sociali, alla cultura, agli artisti e ai cittadini qualunque che vivono la Calabria. Tracciamo itinerari per riscoprire luoghi conosciuti, forse dimenticati. Lo facciamo senza cattiveria, ma con determinazione. E a volte con un pizzico di indignazione, quando ci troviamo di fronte a fenomeni deleteri montati con cinismo da chi insozza la società con le proprie azioni. Chi siamo nella vita reale non conta. È irrilevante. Ciò che conta è la passione, l’amore, la sincerità con cui dedichiamo il nostro tempo a parlare ai cuori di chi passa da questo spazio virtuale. Non cerchiamo visibilità, ma connessione. Non inseguiamo titoli, ma emozioni condivise. Come quel piccolo battello di carta con una piuma per vela, poggiato su una tastiera: fragile, ma deciso. Simbolo di un viaggio fatto di parole, idee e bellezza. Questo blog è nato per associare le positività esistenti in Calabria al resto del mondo, analizzarne pacatamente le criticità, e contribuire a sfatare quel luogo comune che lega la nostra terra alla ‘ndrangheta e al malaffare. Ci auguriamo che questo spazio diventi un appuntamento fisso, atteso. Come il caffè del mattino, come il tramonto che consola. Benvenuti e buon vento a quanti navigano ogni singola goccia di bellezza che alimenta serenamente l’oceano della vita. Qui si costruiscono ponti d’amore.

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