Ferite che ancora sanguinano

  Franco Cimino

QUELLA RENAULT QUATTRO ROSSA, TESTIMONE DI UNA STORIA DRAMMATICA ANCORA APERTA. ANCHE SULLA VITA DI UN UOMO CHE ANCORA VIVE. PER LA LIBERTÀ E LA DIGNITÀ DELLA VITA 

Alla stazione di Bologna, nella piccola area in cui una volta c’era la sala d’attesa di seconda classe, si vede un’enorme buca, ben delimitata e protetta. Se passi da quella stazione la puoi vedere.

È il vuoto volutamente lasciato per ricordare la strage del terrorismo neofascista, che — attraverso autentici criminali, non tutti scoperti e non tutti condannati, oltre a quelli che hanno subito processi e condanne definitive e che da molti anni sono tornati in libertà — il 2 agosto del 1980 ha devastato quel luogo e messo in ginocchio il Paese e ferito la  gloriosa Città della lotta antifascista.  

In quel preciso punto i terroristi neri deposero una bomba ad altissimo potenziale. Straziati nei corpi e polverizzati nella dignità, morirono ottantacinque  persone, tutte innocenti. Centinaia furono i feriti, che portarono per tutta la vita i segni non solo fisici di quella tragedia. 

L’orologio della stazione, quella grande palla rotonda che si trovava in alto sul muro che dava sul primo binario, segna ancora le 10 e 25. Anche questo puoi vedere, se ci passi, perché quell’orologio è stato lasciato com’era, fermato dalla potente deflagrazione di quel duro mattino. 

A Marzabotto, piccolo comune in provincia di Bologna( se ci vai perché qualcuno ti ci porta, altrimenti non ci andresti, scarsamente interessante dal punto di vista turistico com’è , non è mica Pisa o Capri!) troveresti una via o una piazza che conserva i segni dell’orrore compiuto dai nazisti con la complicità fascista, nell’aver massacrato cittadini inermi. E innocenti come “l’acqua” che protegge nel ventre il nascituro.

A Roma vi sono due luoghi storici fermamente incollati alla tragica storia recente del nostro Paese. Conservano ancora il nome che hanno sempre avuto: via Rasella e Fosse Ardeatine. Ricordano la barbara esecuzione che l’esercito nazista, con la complicità dei fascisti, compì sotto il comando di due dei più famosi criminali al servizio del più grande criminale della storia, i generali  Kesselring  e Kapplet, per Adolf Hitler, nei confronti di italiani trucidati per vendetta.

Non erano partigiani, anche se nel loro cuore lo erano, come nel sostegno — forse non soltanto morale — dato a quei soldati civili che, con l’aiuto degli americani, liberarono il Paese. Tutti uccisi. Tutti presi a caso da un elenco compilato a caso dai fascisti italiani.

Se ci vai, puoi quasi immergerti in quelle due notti di terrore e vedere, con gli occhi del tuo cuore, l’orrore che lì è stato consumato.

E potrei ancora continuare a segnalare luoghi italiani in cui, quasi “solennemente”, si celebrano annualmente — secondo il calendario civile — quelle drammatiche ricordanze.

Ma se ci vai anche da solo, in un giorno qualunque, sentirai le stesse cose, al di là della retorica celebrativa di cui gli Stati hanno sempre bisogno per rinvigorire la memoria e rinnovare i sentimenti su quei fatti e su quei passaggi storici.

Dachau, Auschwitz: piccole città europee.

La prima si trova in Germania, la seconda in Polonia

Ve ne sono altre, non meno importanti. Ma queste si richiamano più facilmente perché sono luoghi della memoria maggiormente visitati da quel “turismo della cultura e della storia, della politica e della morale”, che porta in quei luoghi — interi villaggi pienamente conservati dei lager nazisti — milioni di visitatori. 

In quei campi venivano sottoposti alla più terribile delle sofferenze milioni di ebrei, omosessuali, comunisti, testimoni di religioni minori, zingari e rom, intellettuali democratici e oppositori del nazifascismo. Un pezzo dell’indivisibile umanità che si trascinava tra lavori pesantissimi e tormenti inenarrabili, lungo quel breve tempo che li separava dai forni crematori, dove venivano inceneriti e dispersi al vento con il fumo nero che usciva dai comignoli del forno.

Ogni anno milioni di studenti, accompagnati dai loro docenti, passano da quel calvario. Se ci vai anche tu, vedresti la stessa cosa.

Anche qui potrei continuare, ma l’elenco sarebbe lungo. I luoghi delle tragedie conservati in tante parti del mondo sono incalcolabili, come le tragedie che vi si sono consumate.

A Manhattan, a New York — fino a quell’incredibile scenario di “guerre stellari”, che neppure il più grande regista di film  dí fantascienza avrebbe mai potuto inventare, c’erano due torri altissime, che si vedevano dagli aerei che sorvolavano la città della mela e da qualsiasi punto che si affacciasse anche a mille miglia di distanza sulla metropoli di ogni fascino e interesse planetario.


L’11 settembre del 2001 (non c’è un uomo al mondo, vivente ancora da quel giorno, che non lo ricordi esattamente per come l’ha vissuto, anche nel posto in cui a quell’ora precisa si trovava) le torri furono abbattute nel modo in cui tutti abbiamo visto, anche le nuove generazioni, attraverso i filmati che quotidianamente vengono trasmessi o cercati in rete.

Anche lì milioni di “turisti” di tutto il mondo ci vanno. Quasi come un rito religioso. Che si preghi o no. Io non ci sono mai andato.

L’America dei miei sogni giovanili è troppo lontana. Ma chiunque può andarci. Ci puoi andare anche tu, e chiunque sia come te, viaggiatore curioso della vita attraverso il viaggio e la memoria dei luoghi più segnati dalla storia.

Ma non ci trovi, portandoti sul posto, altri due grattacieli gemelli che s’alzano in cielo alla stessa altezza dei primi. Oppure oltre, come sanno fare gli americani quando vogliono dimostrare che nulla può fermare la loro potenza e la loro ricchezza.

Nessuna torre troverai, ma solo un vuoto enorme e quell’enorme “ cratere” da cui si innalza solo un fascio di luce, che dalla profondità sale verso il cielo: una sorta di monumento per ricordare una delle giornate più drammatiche della storia, nella quale — oltre alla morte orribile di migliaia di innocenti — si è consumata una delle più grandi umiliazioni dell’America potente e dominatrice, messa in ginocchio da un manipolo di terroristi accecati dall’ideologia islamista e guidati da quel folle di Bin Laden, ucciso, poco tempo dopo,  in uno straordinario blitz dalle teste di cuoio statunitensi. 

Sono tutti luoghi dell’orrore.

Al di là delle simbologie retoriche e delle logiche, anche di pur buona propaganda, che gli Stati usano quando conservano e aprono al pubblico questi luoghi, è chiaramente evidente che tutti questi siano utili al cammino che l’umanità muove ininterrottamente verso il Progresso.

Quello vero — il Progresso — non è solo rappresentato dall’evoluzione della tecnica e dalla produzione della ricchezza, specialmente se essa, anzi esse, attraverso la democrazia possono essere divise e distribuite secondo il migliore criterio della giustizia e dell’eguaglianza possibili.

Ma non c’è Progresso autentico senza la costruzione di sempre più larghi spazi di libertà.

E non c’è libertà senza garanzia che quegli spazi siano liberi e sicuri.

E non c’è luogo libero e sicuro se non garantisce la sicurezza, la dignità, l’integrità della vita umana.

Il Progresso ha due condizioni necessarie affinché lo sia veramente.

Ambedue sono legate strettamente al tempo: il tempo presente, in cui esso progressivamente — mi scuso del volontario utilizzo della parola — si compie, si realizza, a piccoli passi ma certi. E il tempo futuro, a cui necessariamente esso è demandato.

Presente e futuro sono i tempi di coniugazione del Progresso.

Ma perché questi tempi non vengano violentemente interrotti, sospesi o alterati, è necessario far rivivere il tempo che precede, quello passato.

Il passato più scrutabile è quello che incontriamo con i nostri occhi di oggi. Sono anch’essi una parte efficace della nostra memoria.

Senza memoria non si vive coraggiosamente il presente, non si costruisce  quel futuro che a noi viventi — a questa contemporaneità che ci appartiene — è affidato nella responsabilità individuale e collettiva del suo farsi.

Per questo sono assai importanti questi questi spazi.

Specialmente quelli nei quali più insopportabile alla nostra coscienza e alla nostra sensibilità è l’orrore che li ha prodotti.

In ciascuno di questi luoghi, che si fanno memoria di sé e tracce del nostro cammino e di quello dei nostri figli, vi è dolore. Forte. Insopportabile. Inenarrabile.

In quelli più vicini a noi vi è la nostra responsabilità.

Che non può racchiudersi soltanto nel tardivo e lacrimevole senso di colpa, quello classico che ci autoassolve. La responsabilità è di non aver fatto nulla per evitarli, contrastarli, combatterli  in qualsiasi forma o modo la nostra personale forza lo consentisse, anche solo quella dell’immediata indignazione.

Il senso di colpa di averli dimenticati subito, trattandoli come qualcosa che non ci appartiene; come un fatto compiuto da altri, a danno di altri, che non siamo noi e neppure alcuno dei nostri parenti o amici.

Il senso di colpa è la responsabilità insieme di non aver fatto, noi testimoni del tempo, memoria attiva di quei fatti, da trasformare in pedagogia della resistenza e della libertà quando abbiamo parlato ai nostri figli, insegnato ai nostri scolari e studenti, conversato nelle numerose cene con i nostri commensali.

Se la memoria dell’orrore fosse rimasta in noi — e attraverso di noi quotidianamente si fosse rinnovata nelle nostre attività quotidiane — fatti simili, presso i nostri ristretti spazi o quelli senza confini del pianeta, non si sarebbero ripetuti, aggravandosi di ferocia e di carica di morte.

La morte stessa, come afflizione e punizione, atto crudele del potente sull’indifeso, non avrebbe avuto motivo di esistere.

E invece esiste, eccome!

Allora, si facciano di questi luoghi,  dove è depositato il dolore e la morte ingiusta , gli spazi della memoria condivisa. E li si vada a vedere con mente serena ma inquieta, per la coscienza che in quel posto si fermerà in una tormentosa ansia di liberazione della società da questo male che ancora l’opprime.

Questi scopi(volontari o no, pensati o meno dagli organizzatori)sono tutti presenti nella drammatica, sì, ma non macabra esposizione, nella sala della Camera di Commercio di Catanzaro, della drammaticamete famosa Renault Quattro rossa nella quale sarebbe stato ucciso( non é ancora certo sia stato colpito lì dentro)  con trenta colpi di mitra al petto Aldo Moro, il più grande statista europeo insieme a De Gasperi, Adenauer, Schuman, del secolo scorso. Aldo Moro, il politico profondamente democratico, il filosofo della libertà, il cristiano fervente anche nella laicità del suo ministero politico, il padre di famiglia esemplare, l’uomo buono e caritatevole, la persona più innocente che ci potesse essere in quegli anni del suo grande impegno a favore della costruzione, in Italia e in Europa, della democrazia compiuta.

Anch’io sono andato a vederla, il primo giorno e all’ultima ora di esposizione del secondo, prima che venisse restituita alla Questura di Catanzaro, che dalla Polizia di Stato l’aveva ricevuta per l’occasione.

Ci sono stato, sostando molti minuti, che mi hanno consentito anche di vedere tanti uomini e donne, specialmente ragazzi, con il viso tirato e gli occhi brillanti. Nessuna parola, neppure un bisbiglio scambiato tra loro, si è levata in quella piccola sala aperta a vetri sulla piazzetta antistante.

Non dico qui del turbinio vertiginoso delle emozioni che mi hanno preso in quelle due soste, specialmente in quella finale.

Dico solo che ho tenuto le mie mani strettamente conserte sul petto, per timore che il mio cuore impetuosamente ne fuoriuscisse.

Sono, dall’età di quattordici anni e ininterrottamente fin qui — e, se il Signore vorrà, oltre questa mia età — ardentemente e fieramente democristiano.

In quel tragico 16 marzo e nel successivo 9 maggio, durante quel tormento di cinquantacinque giorni interminabili, che davvero avremmo voluto non finissero al cinquantacinquesimo, io ero poco più che ventenne, delegato provinciale del Movimento Giovanile della Democrazia Cristiana.

Facevo parte degli organi dirigenti del partito provinciale  e anche di quelli nazionali del Movimento, e, direttamente o indirettamente, partecipai al tormentoso lavoro di quei giorni. Tutti sospesi tra il desiderio (purtroppo non di tutti ) di vedere salva la vita del presidente della DC e la scelta rigorosa di non trattare in alcun modo con le Brigate Rosse, anche per restituire alla famiglia quel prigioniero.

Si confusero tante cose insieme, incredibilmente.

Il rispetto, per esempio, dei morti della scorta di cinque uomini, soppressi in quella geometrica potenza di fuoco alle nove del mattino in via Fani. Morti che, secondo taluni, non avrebbero potuto godere del privilegio di essere salvati dallo Stato, contrariamente — si disse — all’ex presidente del Consiglio, che sarebbe stato privilegiato dal suo ruolo di potere (incredibile a pensarci oggi).

Si confusero, per ignoranza o mediocre interesse, le ragioni di Stato con quelle della famiglia in pena per la sorte del loro caro, bene più prezioso.

Si confusero il bene dello Stato con quello della persona, in questo caso di un uomo debole, abbandonato da tutti e “ sottoposto a un dominio pieno e incontrollato.”

Si confusero la difesa della democrazia dalla minaccia terroristica, e la difesa della vita umana dalla stessa minaccia omicidiaria.

Si confusero il valore della libertà dell’Italia e quello della liberazione di un uomo nato e vissuto libero.

Si confusero gli interessi del Paese con quelli dei partiti, l’interesse del governo con quello del Parlamento, lo spirito di concretezza con la spiritualità insita nella vita umana e in quella particolare persona che la esprimeva anche con le numerose lettere da quel carcere.

Tutte lettere cariche di intelligenza, equilibrio e razionalità, senso politico dello Stato e della storia, sensibilità profonda verso la democrazia dell’Italia e la libertà degli italiani. Sensibilità profonda nei confronti della difesa della propria vita, quale condizione fondamentale per la valorizzazione della dignità della vita ovunque essa si manifesti.

Si confusero infine la piccola minaccia di un piccolo esercito di pazzi armati, con la forza impetuosa, anche militare, dello Stato.

Ed anche il pettegolezzo dei corridoi e delle piazze, come delle sedute spiritiche, si confuse con l’intelligence dei servizi segreti, i nostri insieme ai più forti servizi segreti del mondo, presenti in Italia.

Io stesso, acceso militante del mio partito, rimasi confuso in questa “confusione”.

E quasi passivamente accettai, pur soffrendo interiormente nel dubbio più atroce, le scelte compiute allora dallo Stato, pur temendo — e ancor più immaginando — che da quelle scelte l’uomo politico, anche da me amato e seguito, non sarebbe tornato vivo. E per quasi cinquant’anni mi sono chiesto se quella non fosse stata davvero una scelta sbagliata.

Sotto tutti i profili: politico, morale, umano.

Me lo sono domandato, e mi sono sempre fermato al punto di domanda, per paura.

Ma quei dubbi si sono dissolti in un istante, davanti a quella Renault rossa che avevo visto solo in fotografia.

Mi è tornata alla mente l’immagine più dolorosa: il corpo di Moro rannicchiato nel bagagliaio aperto.

Quel bagagliaio, rimasto aperto durante l’esposizione, mi ha costretto a guardare dentro, a misurare con gli occhi lo spazio angusto, disumano: un metro e mezzo di larghezza, mezzo metro di profondità.

E lì dentro, quell’uomo alto, dignitoso, che aveva creduto nella vita e nella libertà.

E mi sono chiesto: vi è entrato vivo?

Gli avevano promesso la libertà?

Era sereno perché credeva di salvarsi, o perché si era affidato al suo Dio?

Ha avuto paura come un bambino, o ha affrontato la fine come un credente consapevole?

In quei minuti non ho pensato al politico, né alla democrazia, né alla DC, né alle conseguenze della sua morte.

Ho pensato solo all’uomo.

All’uomo solo, al suo dolore, alla sua speranza.

Alla sua famiglia.

A Noretta, la moglie, destinataria di una delle più belle lettere d’amore mai scritte.

E lì ho trovato la risposta che per anni avevo nascosto:

no, non era giusto.

Non è mai giusto che un uomo sia sacrificato a una ragione di Stato.

È crudele, ingiusto, disumano.

E ci rende tutti, in qualche misura, colpevoli.

Quella Renault esposta non è un luogo macabro, ma un luogo di verità.

L’ipocrisia sociale preferisce negare, dimenticare, coprire — ma la memoria del dolore è l’unica difesa della civiltà.

Oggi l’ipocrisia vale più della vita, ma la memoria vale più della storia.

Scrisse Moro sessant’anni fa una frase che conosciamo tutti:“Questo Paese non si salverà se non nascerà un nuovo senso del dovere.”Io aggiungo, con rispetto e dolore: “ L’Italia non si salverà, l’Europa non nascerà, se continueremo a cancellare la memoria del dolore che non può essere cancellato dal cuore e dalla carne di chi l’ha vissuto.” Si faccia dunque un Museo del Terrorismo rosso e nero, nel quale, attraverso i reperti e i documenti degli atti terroristici consumati contro la democrazia e la vita umana, tutti possano ritrovare la memoria di quelle tragedie, il pericolo sventato, e la lotta di chi seppe resistere e vincere. Sarà un luogo per i giovani di oggi e di domani, per capire davvero che cosa siano la libertà e la democrazia, da cosa vadano difese e come vadano rinnovate. In quel museo, al centro, sia posta — bellamente e dolorosamente — la Renault Quattro rossa, primo giaciglio di riposo di quell’uomo bellissimo. Che ancora ci parla. E che, da maestro, ancora insegna.

                                 Franco Cimino

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Abbiamo aperto questo blog nell’aprile del 2009 con il desiderio di creare una piazza virtuale: uno spazio libero, apolitico, ma profondamente attento ai fermenti sociali, alla cultura, agli artisti e ai cittadini qualunque che vivono la Calabria. Tracciamo itinerari per riscoprire luoghi conosciuti, forse dimenticati. Lo facciamo senza cattiveria, ma con determinazione. E a volte con un pizzico di indignazione, quando ci troviamo di fronte a fenomeni deleteri montati con cinismo da chi insozza la società con le proprie azioni. Chi siamo nella vita reale non conta. È irrilevante. Ciò che conta è la passione, l’amore, la sincerità con cui dedichiamo il nostro tempo a parlare ai cuori di chi passa da questo spazio virtuale. Non cerchiamo visibilità, ma connessione. Non inseguiamo titoli, ma emozioni condivise. Come quel piccolo battello di carta con una piuma per vela, poggiato su una tastiera: fragile, ma deciso. Simbolo di un viaggio fatto di parole, idee e bellezza. Questo blog è nato per associare le positività esistenti in Calabria al resto del mondo, analizzarne pacatamente le criticità, e contribuire a sfatare quel luogo comune che lega la nostra terra alla ‘ndrangheta e al malaffare. Ci auguriamo che questo spazio diventi un appuntamento fisso, atteso. Come il caffè del mattino, come il tramonto che consola. Benvenuti e buon vento a quanti navigano ogni singola goccia di bellezza che alimenta serenamente l’oceano della vita. Qui si costruiscono ponti d’amore.

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