“Musica è bellezza. È strumento di pace. La musica può aiutare la convivenza dei popoli”.
Francesco si presenta con queste essenziali parole a Sanremo. E canta. Tono basso in voce flebile. Ma è voce di tenore. O del classico urlatore. E canta dal suo immenso repertorio, la sua canzone preferita. Il conduttore, cui Lui si rivolge con tenerezza paterna, lo annuncia felice come il più grande ospite di tutto il Festival e di tutti i Festival. Della cittadina ligure. E di tutto il mondo.
Ma Francesco non è ospite a garanzia dello spettacolo. È il
più acceso concorrente.
Si è presentato per vincere la competizione più importante.
Non la gara canora più prestigiosa. Ma quella con i potenti della terra. I
“malsignori” delle guerre. Il palcoscenico più grande di quello record di
Sanremo è lungo e largo quanto le terre di Ucraina, Siria, Gaza, Libano,
Cisgiordania, Yemen, le altre dimenticate e quelle non viste. E le terre più
estese, che iniziano dall’Africa e non si interrompono mai. Le terre della fame
e della sete. Di grano, per il pane, e per la terra che si fruttifica. Di acqua
da bere, anche ai campi assiderati e asciutti.
In questo teatro dell’umanità perduta, della vita violata,
dell’intelligenza cancellata, dei sentimenti negati, Francesco è sceso per
competere, gareggiare, lottare, combattere a mani nude contro gli ammazzatori
della vita, ovunque essa si manifesti. Nelle persone, come in ogni soffio di
Natura.
Francesco canta, loro sparano.
Lui insiste, anche se stanco e malato, loro sperano che cada
per sfinimento e dolore. E per la solitudine, la più grave malattia. Loro sono
duri, non mollano. Specialmente, dopo l’avvento di questa nuova America,
ritornata quella del generale Custer. E delle giacche blu e cannoni e fucili
sugli indiani per rubar loro le praterie e cacciarli dalle terre dei padri.
Si arrenderà, prima o poi. Sperano. L’età e la malattia, lo
sconfiggeranno, si dicono tra loro. Ma
Francesco non s’arrende. Ha una missione da compiere, per ordine del Suo Dio,
al quale avrà certamente chiesto la forza di non cedere. E quella di
combattere.
Mi sembra di sentirlo parlargli quando si ritira nella sua
intima preghiera. Gli dice:” Mio Dio e Padre, misericordioso e buono, non
gliela darai vinta tu? E non mi farai sconfiggere da questi miseri potenti che
non vogliono liberarsi della stretta del diavolo?”
Il Papa ieri non
voleva smettere di cantare, davanti a quei lunghi fogli di spartito. E ha
continuato sull’altro titolo, “ la guerra e i bambini”.
Ieri sera Francesco ha detto più che altre volte. Più forte
che altre volte. Non ha parlato delle uccisioni dei bambini solo a causa della
guerra. Usa tutta la poetica del suo cuore ispirato, e dice che la guerra non
fa cantare i bambini. Non dice non li fa giocare. Con tenerezza e commozione,
afferma che la guerra non li fa cantare. E ha ragione. Non fa sentire nell’aria
alcuna nota e alcuna voce di canto, aggiungiamolo pure.
Suonano le mitraglie e i cannoni. DiciamoIo. I rumori dei
bombardamenti e quello degli abbattimenti di case e scuole, e il rumore sordo
che fanno i corpi quando morti a terra cadono, sono l’unica orchestra che suona
nei territori aggrediti. Insanguinati a fiume. Le grida delle madri e il pianto
disperato di vecchi e piccini, sono le canzoni che i bambini ascoltano a tutte
le ore. Tutti i giorni.
Francesco, con quell’affanno che si fa sempre più pesante,
quasi fumo acre che dall’aria bruciata delle esplosioni entra nei polmoni e li
soffoca, commuove, sorprende. E alla fine saluta.
Il Festival può iniziare con le cantanti, l’israeliana Noa e
la palestinese Mira Awad, che riscaldano le vene con “Imagine” di John Lennon,
l’intramontabile inno laico della Pace. E, poi, la gara canora, con le canzoni
d’amore per lui e lei che si lasciano, si tradiscono si perdonano, si sono
trovati e ritrovati, dell’amore sofferto e di quello trionfante. Le canzoni del
piangi tu che piango anch’io. Del non mi lasciare mai che ne morirei. Del non
posso vivere senza di te. Dell’antico “se mi lasci non vale”. O del riderà ché
se non la farai più ridere “ tornerò e la riprenderò”.
In questo Festival propriamente festivaliero, dove il rock e
tutte le sue crude moderne derivazioni, e quella cosa strana che chiamano
rapper, sono completamente spariti. Anche sotto gli abiti dell’eleganza
classica, che hanno sostituito quelli a rete da cui si vede la più antipatica
nudità, mentre i capelli ben tagliati e pettinati hanno preso il posto di
quell’ammasso montagnoso sulla testa colorata di vernice a spray per i muri.
In questo Festival festivaliero si parla e si canta di
quest’amore alla Prevert o alla Endrigo. Ovvero, alla poetica “ de noiartri”.
Poi, all’una e trenta tutti a nanna. Ché lontano dai nostri cieli sparano
ancora. Sui bambini, che cadono a terra mentre cantano con il pianto del
dolore.
Franco Cimino
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