La scrittura è narrazione, poesia, amica paziente,
confidente.
Raramente fonte di guadagno economico ma, sempre e
indiscutibilmente, è, l’azione dello scrivere, arricchimento interiore per chi la
pratica e legge.
È analisi. Scissione e ricomponimento. Osservazione e
riconsiderazione.
Ed è con questo in testa che mi accingo a scrivere. A mano
libera, con matita o penna, computer adesso e, molti anni addietro, con una
macchina da scrivere della Olivetti che ancora custodisco gelosamente. È con la
Olivetti che scrissi i miei primi racconti, boh racconti è una parola grossa,
diciamo le prime esercitazioni di scrittura da autodidatta sorretto dalle
molteplici letture dei grandi classici e degli autori contemporanei.
Leggere mi pone in uno stato mentale aulico pronto ad
accogliere e penetrare nuovi universi. Fare parte delle entità che si sono cimentati
a creare mondi paralleli fantastici aperti, comunque, alle sensibilità altre. Che
non significa scappare dalla realtà ma plasmarne di nuove e più consone alle
persone abitanti di universi migliori.
Mi capita di trarre spunti dal “vecchio”. Penso che al tempo dell’edificazione dei
manufatti la gente fosse più positivo rispetto a oggi. L’uomo, un tempo,
appunto, diceva: questo l’hi fatto io e deve durare nel tempo, essere
indistruttibile, e rappresentarmi. Non è necessario conoscere l’ideatore o il
costruttore e quanti operai hanno prestato la loro mano d’opera. È la struttura
in sé! Che parla.
Ricordo, capitò di connettermi emotivamente con un piccolo agglomerato di
palazzotti popolari. Erano gli anni ’60.
Si saliva dal centro storico di Catanzaro: “do’ Carminu” per
l’esattezza, dal Carmine, il rione prende il nome dalla chiesa del Carmine,
appunto. Eravamo in macchina, direzione cimitero cittadino, prima o poi la
puntatina dobbiamo farla tutti, quindi meglio prima e moltissime altre ancora per scelta.
L’autista di piazza, si dimostrò essere un ottimo cicerone: “mò
passamu e villa menichini … chisti su i
barracchi, u barraccuna, mò appena fhiniscia a sagghjiuta nc'è u stadiu, u militara, ccussì si chiama pecchi i militari fhannu esercitazzioni, chiddu si canuscia subitu de' mura e da' pignara randa 'nta curva e doppu, a colombaia u cimiteri!”.
Tra il rione “barracche” e il “barraccone”, attuale via Schipani, sulla sinistra della strada, una sorta di corte lasciava scorgere delle case sui tre piani e sopra l’ingresso principale una trave univa le due colonne. “Bellamena” c’era scritto sulla trave in cemento.
Bellamena era il nome che si era dato al nascente quartiere. Zona già nota come “a ghiacciaija” per via del deposito di ghiaccio cui tutti
facevamo ricorso per le granite e i gelati d’estate.
Anche le baracche hanno un loro perché: la zona di periferia
era abitata da contadini e pastori che lì avevano costruito delle baracche per
il ricovero delle bestie, delle masserizie e anche per loro stessi.
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