lunedì 19 maggio 2025

Italiani di terza generazione

 

DALL’ITALIA A NEW YORK.

Tantissimi, tra amici e parenti, hanno lasciato l’Italia negli anni dell’industrializzazione. L’esodo, avvenuto tra gli anni ‘50 e ’60 si è protratto anche dopo, ma la maggior parte della gente si è spostata a ridosso di quella che è stata definita l’era industriale. In quegli anni ovunque arrivava l’eco del benessere e la voglia di cambiare vita contagiava chiunque. Specialmente nelle classi meno abbienti si coltivò la determinazione di cambiare vita e poter possedere un vestito senza toppe da indossare alla domenica e durante gli eventi belli in famiglia e nel paese. Contadini, braccianti e artigiani che vivevano alla giornata, non avendo altro da perdere e semmai qualcosa da guadagnare, decisero di intraprendere il viaggio della speranza. Chiesero aiuto e sostegno ai parenti e ai paesani che li avevano preceduti facendosi chiamare. Sì, funzionava così. Per potere avere il visto d’accesso all'estero si dovevano avere delle credenziali e la chiamata di un familiare o un conoscente che garantisse la bontà del lavoratore era un buon viatico per il lasciapassare.


Funzionava così: partiva per primo il capofamiglia, trovava un lavoro e dopo qualche tempo faceva richiesta al municipio di residenza per ottenere i lasciapassare della famiglia o dei conoscenti.

All’epoca si viaggiava per terra e per mare. 

La traversata dalla Calabria in America era perigliosa specialmente per i contadini che non avevano mai visto il mare prima dall’ora. L'imbarco era vissuto con una certa dose emotiva dagli emigranti che s'avventuravano alla conquista dell'ignoto. C’erano, però, anche degli accordi internazionali tra i governi europei, e per stimolare l'esodo di manodopera bracciantile, molto richiesta nei Paesi in cui gli autoctoni disdegnavano determinati lavori per cui  offrivano in cambio carbone, ortaggi e granaglie.

La meta più ambita per molti italiani fu l’America, e l’infatuazione per la nazione più potente e ricca del mondo la subirono anche i calabresi, vuoi perché gli americani ci hanno liberato dal nazifascismo e anche perché lì c’era, più che altrove, la possibilità di rendere concreto il sogno. 

Trovare il riscatto. Emanciparsi dalla povertà e dalla fatica infinita che consumava anzitempo i corpi era diventata un'esigenza improcrastinabile!

Gli emigranti partivano leggeri. Non avevano molte cose da portarsi dietro; a malapena qualche indumento sgualcito e consunto, un vecchio cappello e gli scarponi consumati dal fango della campagna. E le donne, quelle che possedevano un telaio e sapevano tessere la lana e i canaponi, serrarono le porte di casa con dentro il telaio in legno ricoperto di polvere e ragnatele speranzose di inserirsi nelle fabbriche tessili americane di New York.

L’America fu davvero la terra della realizzazione dei sogni per molti migranti che, affrancatisi dalla povertà congenita made in Italy, inviarono enormi pacchi ai parenti rimasti al paese. L'imballaggio consisteva in un enorme cubo di tela grezza e dentro c’era di tutto: vestiti, capi intimi, roba impensabile per la modestia vissuta e imposta dalla povertà dei tempi, persino giocattoli, una palla di cuoio da rugby e delle immense maglie con scritte americane che nessuno sapeva decifrare. Questo è per sommi capi il passato.

Oggi, gli italiani, di terza e quarta generazione, residenti in America sono cittadini naturalizzati americani cha hanno mantenuto i contatti con il vecchio mondo dei nonni e dei bisnonni ma che parlano americano com’è ovvio che sia! E l’italiano? No. Quello è difficile da apprendere secondo le regole metriche e grammaticali scolastiche. La comunicazione è, per gli italoamericani una sorta di minestrone contenente espressioni dialettali, un accenno d'italiano e tanto americano difficile da tradurre per chi non conosce l'una o l'altra lingua.

E' una sorta di esperanto minimal; balbuziente e rabberciato, discretamente utile per comprendersi e poter mantenere intatti i ponti tra i due mondi. Insomma, gli italoamericani parlano una sorta di italiano fortemente contaminato dal dialetto d’origine. E' un linguaggio italo-paesano che comunque riesce a trasmettere e comunicare. Si fa comprendere anche da chi non si è spostato dalla Calabria e accoglie in visita i parenti alla scoperta delle radici d’origine. Figli e nipoti dei primi italiani trapiantati sul suolo americano di ritorno momentaneo in Italia.

Il lessico arcaico è un cimelio rarissimo, desueto anche per noi. Persino nell'entroterra è difficile sentire certi vocaboli. La comunicazione verbale è stata contaminata dalle espressioni ricercate apprese a scuola e anche dai mezzi di comunicazione di massa. Raro, quindi ascoltare e comprendere correttamente il significato e le sfumature care ai nonni. Le nuove generazioni cresciute e scolarizzate parlano un italiano al passo coi tempi! 

Solo gli anziani stanziali, che non si sono mai mossi dal paese, appunto, continuano a portare avanti la tradizione orale della lingua dei padri. 

La comunicazione arcaica è immediata e calda. Emotivamente focosa, può sembrare blasfema agli orecchi non avvezzi giacché, il linguaggio, composto da espressioni eccessivamente colorate, a volte è crudo, privo di orpelli. Capita spesso, a tal proposito, intercalare con epiteti alcuni stati d'animo. Per esempio: 

quando dei consanguinei vogliono esprimere affetto e empatia la parolina forbita ci sta a pennello! Volentieri, le frasi contengono espressioni rafforzate con epiteti affettuosi che, se decontestualizzate, sembrerebbero davvero messaggi offensivi e  volgari, insomma un turpiloquio da circoscrivere nelle peggiori bettole. Ma non è così! E più si vuole fare intendere all’interlocutore il proprio pathos e maggiormente il colloquio si riempie di trivialità.

Non è sinonimo di degrado, quindi e neppure di trivialità, la parolaccia inserita con enfasi nella comunicazione primaria definita volgare ma ruspante  esternazione d'affetto.

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