Il grembiulino delle elementari.
Giovedì 20 marzo 2025, ore 3’30. Primo caffè ristretto dopo qualche ora di dormiveglia. Dormo poco! Senza nessuna motivazione. Dormo poco e va bene così. Ho più tempo per meditare. Ripensare alla mia vita passata e all’attuale. A quando scrivevo con la penna e la matita e alla mia prima macchina da scrivere.
Il passato non è, per me, fonte di nostalgia o rifugio. Non lo rievoco melanconicamente. È un esercizio mnemonico utile.
Riandare indietro nel
tempo aiuta a vivere meglio le contraddizioni, e affrontare il presente, pacatamente, forte degli errori commessi.
Quindi,
Scosto senza fatica il velo sottile del tempo odoroso e lievemente coperto di polvere. Porto indietro le lancette. La clessidra è capovolta ancora e ancora. Rewind, direbbe Vasco. Riavvolgo il nastro e ...
Le porte temporali si aprono. Vedo. Osservo. Analizzo. Ripercorro
i luoghi dell’infanzia. Superato il portale faccio visita alle persone care, ai familiari e alle altre
che ho incontrato lungo il cammino. Dialogo con loro. Chiedo scusa per le
manchevoli attenzioni che avrei dovuto prestare in alcuni frangenti e che non
ho prestato per superficialità. Una superficialità incolpevole a causa della
giovanissima età e la relativa mancanza d’esperienza. Mi giustifico, anche se
nell’intimo avverto una nota di disappunto.
Non ho avuto una vita facile. Come tutti, d’altronde.
La mia generazione è la più problematica. È quella tra due e
anche tre rivoluzioni epocali, per non dire quattro e anche di più.
Figli. Genitori. Amici dei figli. Protettivi. Eccessivamente protettivi!
Siamo, i nati negli anni cinquanta, i figli dei tempi
semibui. Quelli che hanno visto le rivoluzioni ma non le guerre sanguinose dei
padri. Quelle le abbiamo ascoltate e lette ma non vissute. Uscivamo dalle
fatiche prettamente connesse al lavoro fisico e ai sacrifici che i nostri
genitori furono costretti a sopportare dai tempi tristi imposti dalla
cosiddetta storia: domini dei latifondisti, ricchezze risicate e pochissimi
cervelli illuminati e illuminanti.
Gli anni sessanta furono i più promettenti. La rivoluzione
industriale, la ricostruzione, la scuola, il diritto allo studio, le rivendicazioni
salariali e sociali promettevano futuri luminosi. L’interruttore sociale che
prometteva di illuminare il futuro radioso non era stato installato nelle
periferie ma solo nelle grandi città. Torino. Milano. Brescia. Roma. E all’estero.
Americhe. Germania. Svizzera. Belgio a anche Francia. Gli accordi tra gli Stati
promuovevano l’interscambio tra mano d’opera e ricchezze locali.
Anche la mia famiglia si trasferì. Non andammo lontano. Solo
qualche decina di chilometri in virtù dei terreni che avevano dato ristoro e
conforto negli anni turbolenti della guerra che ancora s’intravedeva negli
occhi degli anziani.
I miei avevano trovato un rifugio modesto attraverso dei
conoscenti. Il freddo umido del vecchio fabbricato affacciava in una piazzetta,
piccola a forma di conca: “a Vaddhottha, o, Vallotta”, affianco alla chiesa del
Carmine in Catanzaro. Attaccata alla chiesa c’era l’istituto Rossi che ospitava
ragazzi orfani e anche le classi elementari della scuola primaria. Lì feci la quarta e quinta elementare. A parte lo
squallore della casa, fredda e disadorna, ricordo ben poco. Forse l’ho rimosso
volutamente per via del trauma causato dal distacco da un piccolo ma amato e
conosciuto mondo. Anche se sarebbe più corretto parlare di scompiglio
adolescenziale causato dall’adattamento alle nuove regole. Io che di regole ne
ho avute poche ed alcune le eludevo convintamente. Come, indossare il
grembiule per la scuola! Per esempio. E gli orari imposti per l’apprendimento.
E, stamane, appena alzato, nel girovagare per casa, spulciando tra gli album fotografici, una, anzi, la foto, la prima, fatta a scuola, mi ricorda vividamente quell’istante. Era una mattina di primavera, e
nascosi il grembiule. Andai a scuola senza, sotto una
pioggia d’improperi che mia madre lanciava dal balcone. Sì, perché nonostante l’età,
appena sei anni compiuti, all’epoca si era autonomi e s’andava da soli, tra l’altro,
la scuola era situata vicino casa e poi in paese ci si conosceva tutti e tutti
badavano ai piccoletti.
A scuola. C’era un certo movimento. Tutti fuori nel
cortile dell’edificio in costruzione. Il bidello insieme al fotografo
posizionarono un banco là dove la luce risultava ottimale. E noi bambini, disordinatamente,
attorno. Il maestro, un tipo burbero, ordinò il silenzio e l’ordine.
E tu che fai senza grembiule! Dov’è il grembiule? Vai a
metterti il grembiule che oggi dobbiamo fare le fotografie! Hai capito che
aspetti?
Non ce l’ho. Mi si è strappato e mia madre lo deve cucire. Risposi.
Aspetta qua. Tu, tu hai la stessa corporatura, appena fai la
fotografia gli presti il grembiule. E domani guai a te se vieni senza! Concluse
minaccioso.
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