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domenica 18 aprile 2021

Da un appunto trovato x caso😎

Tra non molto torneremo al mare. Apprezzeremo il sole sulla pelle, l'aria salmastra che s'infrange sugli scogli o mossa dall'elica di un motoscafo oppure solcata da una barca a remi. Ce ne sono ancora di barche che vanno a braccia?

No, perché pare sia diventato uno status generale quello di dimenticare le buone e salutari abitudini. Dimenticare ogni cosa, bella o brutta. E con esse l'autostima. Mi riferisco a quelle attitudini che abbiamo tutti, basta saperle recuperare e coccolare, farle irrobustire con la pratica assidua e applicarle nei piccoli e grandi problemi quotidiani.

E pare che il periodo che stiamo vivendo, invece, ci abbia ingabbiati in una sorta di isola personale in cui abbiamo eretto alti muri fortificati al cui interno raccogliamo il nostro personale tesoretto delle comodità: terminali che in gergo corrente si chiamano devices, televisori smart, pc, telefonini!




E questa volta non è come quando eravamo bambini che giocavamo e sognavamo di essere sulle torri di un maniero mentre fuori imperversava la poliomielite. E neppure di parlare coi nostri affetti lontani, amici e familiari, amati, amanti, insomma di potere continuare a intessere relazioni a distanza parlando e inviando messaggi quasi telepaticamente seppure immobilizzati in un letto di ospedale.


Quelli che hanno la stessa mia età o giù di lì sanno di cosa parlo.

Parlo di quei giochi che ci costruivamo da noi con l'aiuto di qualche persona più grandicella, un fratello, amico o genitore.

Della spada fatta con due legni incrociati alla trottola improvvisata con una pigna; monopattino e carretto rigorosamente auto costruiti e con qualche pezzo mancante e introvabile auto prodotto.

All'epoca in cui mi riporta la memoria non avevamo le possibilità fiorite nel tempo e neppure lo spreco indotto dal consumismo.

C'erano negozi forniti solo del necessario e quelli di giocattoli quasi inesistenti con poche marche di detersivi e saponi, prodotti di bellezza risicati sugli scaffali.

E il telefono così come lo conosciamo oggi forse era anche difficile d'immaginare! Era impensabile poter trasmettere pensieri e parole a distanza telepaticamente. Come avremmo voluto che ci fosse una magia che ci tenesse in contatto con le persone care lontane

Eppure tutto ciò è diventata la nostra contemporanea realtà. Buona o cattiva, dipende da come la si vive.

Per moltissimi le comodità che ci siamo date è una realtà che fa adagiare sul letto dell'ozio e per alcuni, pochi in verità, è un aiuto, una possibilità. Un po' come lo è stato il telecomando che a furia di stare seduti comodamente in poltrona senza neppure alzarci per cambiare i due canali che avevamo a disposizione in quello che fu il teatro in casa ci siamo impoltroniti e ingrassati. E fatto aumentare i valori cattivi nel nostro organismo.

E poi ci chiediamo come mai sono comparse le malattie del benessere anche nelle fasce d'età infantili.

Non è una questione estetica ma salutistica quella che dobbiamo far dipendere dalle buone pratiche comportamentali giornaliere per stare meglio e mantenerci in discreta salute. E allenare la mente alla creatività è un'esigenza fondamentale.

Usare opportunamente le nuove tecnologie in casa sarebbe l'ideale!



giovedì 31 ottobre 2013

come eravamo: I Braccianti in Calabria, di Ledda e Veltri

Dicembre 1983; da appena un mese è uscito il libro di Quirino Ledda e Filippo Veltri:
©aore12blog

I braccianti in Calabria” è la testimonianza storica difficilmente fruibile sui media massificati ma circoscritti dagli interessi del capitalismo, dei latifondisti e dalle forze politiche avverse che, in quegli anni, detenevano il potere politico.

La raccolta, con prefazione del prof. Saverio Di Bella, copre uno spazio temporale che va dal 1970 al 1980 raccontati attraverso 140 scatti degli autori, immagini in bianco e nero di vita quotidiana e di lotta per i diritti sociali.

Quirino, all'epoca, ricopriva l'incarico di consigliere regionale del PCI in Calabria, con alle spalle un passato di segretario della federbraccianti cgil calabrese.

Filippo Veltri era un giovane giornalista, redattore dell'Unità. Ha scritto anche per il Giornale di Calabria e il quindicinale “questa Calabria”.

Entrambi appassionati di fotografia regalano scatti pieni di pathos di un mondo ormai, per i più, morto. Consigliatissimo, comunque, alle nuove generazioni ed a quanti hanno resettato la memoria e rimosso sofferenze e sogni dei calabresi contaminati da sano sciovinismo e un pizzico di enfatica demagogica certezza ugualitaria.

lunedì 9 maggio 2011

catanzaro, centro e periferia della memoria

aore12

©m.i.

C'è qualcosa di familiare in questo volto. Non so; la linea degli occhi, il naso, la bocca... se non fosse per le sopracciglia, a mio avviso, un po' troppo curate da farlo sembrare quasi una femmina per l’attenzione che ha usato per disegnarsele, potrei dire di vedere mio fratello con qualche decennio in meno.
Che potrà avere 'sto ragazzo; 20, 23 anni non di più.

La funicolare arriva da Catanzaro Sala a Piazza Roma in un batter d'occhio.
Giusto il tempo di costatare la sorprendente somiglianza dello sconosciuto che mi sta davanti con mio fratello.
È un attimo! D’altronde non siamo mica a Milano o Roma dove le metro pullulano di gente di razze diverse. Qui la funicolare, o meglio “a tranbìa” come la chiamiamo noi locali, è un giocattolino in confronto a una metro che si rispetti.
Un tempo “a tranbìa” collegava Catanzaro sala con il rione Ponte grande, periferia opposta, talmente lontana da sembrare un altro mondo specie nell’immaginario infantile, usava una tecnica di trazione semplice ma geniale: i vagoni che salivano erano tirati da un vagone cisterna pieno d’acqua mediante una serie di pulegge che avvolgevano e srotolavano il cavo di trazione, cosicché mentre la cisterna piena d’acqua scendeva a valle, dove si svuotava per risalire leggera, i passeggeri lentamente arrivavano a Piazza Roma e da lì, con tecniche di trazione elettriche, e prima ancora coi cavalli, proseguivano lungo il Corso Mazzini, piazza Matteotti, via Milano, fino ad arrivare nelle campagne della scuola agraria, oggi parco delle biodiversità, e infine a ponte grande. Ora, detto così e paragonandolo ai mezzi moderni sembra niente ma allora, negli anni ’50, era un viaggio degno di nota, non solo per il tempo che s’impiegava ma anche perché chi lo affrontava andava a villeggiare tra i castagni di S. Elia, nella presila catanzarese o, viceversa, per lavorare in città.

Oggi la “tranbìa” è usata da quanti vogliono salire in centro e non avere problemi col parcheggio della macchina; e visto che ce n’è uno ai piedi della stazione di Sala compreso nel prezzo del biglietto, quale migliore occasione specie per chi deve sbrigare una commissione, fare quattro passi o spese nei negozi del centro storico?

Anch’io sono sulle lastre di pietra grigia di piazza Roma incorniciate ai lati da cunette alla francese punteggiate con pietruzze bianche e grigie di varie tonalità. Le pietruzze non sono allineate e livellate col cemento, sono cementate ma irte e formano una sorta di graticola impraticabile dai pedoni. Le pietruzze, una miriade di soldatini sull’attenti, sono il risultato goliardico di un creativo ritornato bambino. Un bambino intento a giocare sulla spiaggia di Catanzaro Lido che per ingannare il tempo sul bagnasciuga allinea il suo esercito di pietre nella sabbia e s’inventa comandante di un grande, magnifico esercito alla conquista delle immensità marine. Me ne accorgo a mie spese dacché le sento penetrare nei piedi.
È da tanto che manco da Catanzaro e nel frattempo molte cose sono cambiate. Alcune sono cambiate in bene altre lasciano spazio alla critica e altre ancora la fomentano.
La funicolare è una di quelle cose buone. Peccato che copre pochissimi chilometri e le periferie sono ancora lontane dal centro storico nonostante le pompose M che nelle città solitamente indicano le stazioni della metropolitana. Qui le M indicano le fermate della vecchia ferrovia calabro-lucana: un residuato storico che cammina su rotaie a scartamento ridotto e che se adeguata alle nuove esigenze potrebbe davvero diventare una vasta rete metropolitana di superficie.

Ma non sono tornato per fare il suggeritore! Lasciamo questo compito agli amministratori e agli urbanisti, perché se ne hanno voglia senz’altro sapranno fare progetti di gran lunga migliori dei miei. Ecco, ad esempio, una cosa che farei volentieri a meno e non vorrei vedere: i dissuasori! Purtroppo, data la diseducazione civica di molti automobilisti che invadono le aree riservate ai pedoni, ai disabili e alle carrozzelle dei bimbi, ci vogliono, devono esserci per forza fino a quando non ci sarà una coscienza civica più emancipata!
L'atteggiamento strafottente dei pirati della strada è simile all'anarchia dei galoppini politici che invadono gli spazi elettorali altrui e insozzano le strade con volantini e santini che lasciano dappertutto, sui tergicristalli delle macchine, nelle buche delle lettere. Sono dei facinorosi prevaricatori che non gliene frega un cazzo degli altri, anche se a parole dicono il contrario. Sì, decisamente ci vorrebbe una rieducazione. Una sorta di lavaggio cerebrale catartico, che riporti i neuroni allo stato embrionale così da poterli curare con idee e propositi consoni. Insomma, si dovrebbe ripartire da zero.


mercoledì 23 marzo 2011

dalla candela all'atomo, 50 anni di storia



Negli anni '50 in Calabria e nel resto d'Italia la maggior parte delle persone non aveva le scarpe, camminava scalza e aveva le toppe ai vestiti.
Nelle famiglie, i vestiti passavano dai genitori ai figli e dai grandi ai piccoli. Non si buttava niente e le donne erano educate ad una sana e responsabile economia domestica. Rattoppavano i vestiti fino a quando il tessuto teneva; rigiravano giacche e cappotti e quando i pantaloni lunghi erano collassati in prossimità delle scarpe si trasformavano in pantaloncini corti per l'estate.
Le poche persone che avevano le scarpe erano ritenute benestanti, “ricche”.
La povertà era misurata dai calli ai piedi e alle mani; dalle toppe sui vestiti; dalla gracilità. Ma, nonostante ciò, il sorriso sulla faccia dei bambini era una caratteristica usuale. Bastava poco per rendere felice un bambino: due legnetti in croce e iniziavano interminabili battaglie con la spada; una verga verde, flessibile, con una cordicella tesa alle due estremità la trasformava in arco; questi i giochi dei bambini degli anni '50 e '60 che si svolgevano per strada o nelle campagne.

Non c'era l'emergenza spazzatura. Non esistevano le buste di plastica; il polistirolo e gli imballi che oggi assediano le strade. E non cerano neanche i cassonetti! Non servivano!

La spesa si faceva al dettaglio in spacci che vendevano baccalà, sarde sotto sale, corde, stringhe, lucido per scarpe, fermagli per capelli, stivali e scarpe; anche la pasta si vendeva sfusa e avvolta in un foglio di carta ruvida, ma c'era chi preferiva portarsi dietro un canovaccio per avvolgere i maccheroni, anche se la maggior parte delle donne la pasta se la faceva in casa. Solitamente il sabato era destinato alle provviste per il pranzo della domenica. La donna di casa, sul tardi impastava la farina e la lasciava lievitare qualche ora nella madia coperta con tessuti di lana e alle prime luci dell'alba, quando il forno era ben caldo, tirava le braci ai lati e infilava le pagnotte. Non c'erano molte panetterie o forni nei paesi e neanche macellerie. Si macellava in occasione delle festività importati qualche agnello o capra e il maiale per le provviste familiari. Uccidere una mucca era impensabile fino a quando questa non si azzoppava o diventava vecchia. Al mucca forniva il latte e tirava il carro. In quegli anni ognuno si sapeva gestire la quotidianità.

Oggi non siamo più abituati e neanche abbiamo i mezzi, o forse non vogliamo riscoprire il profumo del pane appena cotto che pervade la casa; preferiamo andare dal panettiere e se questo chiude cadiamo nel panico. Ma non c'erano neanche tantissime macchine e nelle campagne il mezzo di locomozione era il somaro e non il fuoristrada, il suv che invade i marciapiedi e inquina.
Il somaro era il compagno di lavoro che s'inerpicava su per viottoli stretti e trasportava l'inverosimile anche da solo, una volta imparata la strada.

Negli anni '50 nelle case non c'era l'elettricità. Quindi, non c'era il frigorifero; la lavatrice, la lavastoviglie, il forno elettrico, la televisione e neanche i lampadari. In compenso c'erano molti sogni nell'aria. Uno di questi sogni contemplava la tecnica al servizio dell'uomo e la prima lampadina elettrica che spodestò quella a gas o a petrolio, ne accese altri di sogni, come le falene che ballavano attorno al bulbo e che nelle notti fredde riscaldava.

I sogni sono finiti all'alba, nell'era dell'energia atomica; con la bomba su Hiroshima; i disastri nucleari delle centrali di Chernobyl e di Fukushima, che l'uomo ha voluto impiantare per sopperire al consumo energetico spropositato che gli necessita per mantenere il modello di vita che si è costruito pur sapendo i danni irrevocabili che provoca l'atomo trattato fuori da certi parametri e le contaminazioni ambientali delle scorie prodotte dalle centrali nucleari in assenza di una tecnologia evoluta.
Allora?, tornare all'età della pietra? Certamente no! Basterebbe essere un po' oculati.
©riproduzione vietata

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