Pellizza da Volpedo, "Quarto Stato" |
Giuseppe Pellizza, figlio di
agricoltori. Nato a Volpedo, piccolo centro della campagna
alessandrina, dopo la scuola tecnica, che gli offrì i primi rudimenti
del disegno e gli fece capire qual era la sua vera passione,
attraverso l'intervento di alcuni conoscenti riuscì a frequentare le
lezioni di Francesco Hayez, all'epoca docente dell'accademia di belle
arti di Brera.
Terminati gli studi accademici si
trasferisce a Roma, che abbandona subito per spostarsi a Firenze. Qui
incontra Fattori. La voglia di apprendere i segreti della pittura
lo porta a spostarsi in varie accademie, arriva persino a Parigi
nell'occasione dell'esposizione universale del 1889.
Le grandi città non lo entusiasmano;
Giuseppe Pellizza decide di ritornare al suo paese d'origine. Nel
1892 sposa una contadina del luogo e nello stesso anno inizia a
firmare i lavori come “Pellizza da Volpedo”
L’opera più conosciuta è “Quarto Stato”, opera che inizia a delinearsi nella mente
dell'artista sempre nel 1892 quando realizza "Ambasciatori della fame".
Un dipinto che fotografa e denuncia le condizioni miserevoli in cui
versano i lavoratori di fine Ottocento nelle campagne delle
periferie alessandrine.
Il tema caro a Giuseppe Pellizza piano
piano prende corpo, si struttura e l'artista decide di affrontare su una tela
più grande quello che diverrà l'icona per antonomasia del sogno socialista: una protesta silenziosa dei lavoratori e dei braccianti
agricoli contro i latifondisti e nobili di fine 800. Una marcia imponente, terribile, che abbia un impatto
visivo emotivamente forte con il pubblico. E prendendo spunto dai
lavori precedenti, (fiumana, il cammino dei lavoratori), nasce il
“quarto stato”.
Uomini del popolo, contadini e
artigiani occupano lo spazio, simile a una muraglia umana, con a capo
una popolana rubiconda (Teresa, la moglie dell'artista) col bambino
in braccio ma non messa lì in veste di rivoluzionaria ma nell'atto
di chi vuole chiarire o chiedere qualcosa. La donna si rivolge
all'uomo barbuto col cappello e la giacca gettata sulle spalle,
l'unico che pur essendo uno di loro veste un indumento inusuale per
le classi “inferiori” il gilet (è l'artista stesso). Il gesto
eloquente del braccio sinistro sembra sottolineare un'esclamazione di
speranza. E lui, fiero, conduce in pieno giorno (dalle ombre gettate
a terra e dalla luce che illumina gli attori principali ma anche
dalle mani degli uomini in corteo posti sopra gli occhi, tutte queste
sfumature indicano in maniera inequivocabile che il sole brilla alto
sopra le loro teste: è mezzogiorno) i lavoratori verso la luce dei
saperi emancipativi.
Le tre figure centrali potrebbero
rappresentare le anime del socialismo, il diritto alla vita, alla
dignità di un lavoro umile ma necessario, ma potrebbero anche
rappresentare le età della vita.
Il movimento pittorico si fa suono.
Rumore di passi e vocii indistinti. È un sussurro di speranza!
Ancora non ci sono megafoni o latte
sfondate dai bastoni degli operai dell'Alcoa o dell'Italsider/ilva.
Deve ancora venire il tempo dei cassintegrati e degli esodati; dei
lavoratori interinali; dei ragazzi a partita iva o a progetto.
Cittadini sfruttati e ributtati nel medio evo dei diritti civili.
Purtroppo, il pittore, poco riconosciuto in vita, morì nel 1907 suicida e l'opera fu venduta nel 1920, con una sottoscrizione pubblica dalla città di Milano per 50.000 lire.
In seguito divenne icona e logo del partito socialista e dei sindacati fino all'avvento del fascismo.
Si deve aspettare il 1954 per rivedere il quadro esposto al pubblico e ritornare ad essere il simbolo politico della rinascita dopo la tragedia del fascismo e della guerra.
Il Quarto Stato non è solo pathos, tensione emotiva, maestria pittorica o la testimonianza di una figurazione accademica ormai in disuso. L’opera è qualcosa di più. È storia. Passione, civiltà! Che non può essere ridotta a mera icona di un movimento nato nel terzo millennio.