La forza della Parola Antica
Il divino ch’è in
noi.
Tu sei quello che pensi. I tuoi pensieri formano la tua
personalità e nel tempo costruisci una struttura mutevole ma sempre protesa all’ascolto
e alla comprensione se il tuo intento è questo. Di contro, tutto ciò ch’è
negativo. Quindi la negazione anche fisica del “nemico” in sintonia con le
sovrastrutture che ha alimentato e fatto crescere dentro e fuori di te.
Il conflitto sembra essere appagante in una società che
cresce nel culto del “super-io”. Fare rumore. Scontrarsi. Intessere giri di
parole alternando alti e bassi pur di apparire. Trovare o inventare un nemico. Sono
atteggiamenti fuorvianti che allontanano dal divino che è in noi.
Le sensibilità non possono convivere con le violente azioni
fisiche o verbali. Le seconde risultano ancora più deleterie delle prime quando
profferite in contesti che dovrebbero rappresentare la Bellezza e le altitudini
del Pensiero.
La cultura, l’arte, quindi tutte le espressioni alte del
pensiero dovrebbero volare oltre e non lasciarsi catturare o contaminare dai
nefasti ossimori che, se pur gettati in pasto al libero dissenso con leggera
inconsapevolezza, fomentano il male.
Nel caso della recente guerriglia verbale dal sapore di
campagna pubblicitaria volta ad accalappiare le attenzioni di tutti gli amanti
del libro le contraddizioni sono lapalissiane: andare o non andare e
polemizzare contro lo “stand fascista” e il pensiero che esprime, stare lontani
come se fossero appestati o, pur mantenendo i relativi distinguo, esporre le
proprie sacrosante ragioni nella consapevolezza di esternare il “divino che c’è
in noi” e confutare puntualmente le assurdità elette a “religione politica”?
Partiamo da questo per riflettere sul rapporto tra pensiero, conflitto e
trascendenza il cui nodo centrale è cruciale e pone un quesito non di poco conto: come reagire di fronte a
idee che percepiamo come pericolose o degradanti, senza cadere nella stessa
logica di negazione e violenza criticate?
Due vie possibili si aprono all'analisi:
La prima è la fuga, per evitare, ignorare, non dare spazio alle corbellerie, ma è la scelta di
chi teme che il confronto alimenti la visibilità di ciò che considera
nocivo.
la seconda, entrare nel dialogo, confutare, smontare con
argomenti e con la forza della ragione. È la scelta di chi crede che il
silenzio equivalga a complicità e che la cultura debba sempre rispondere.
C’è il rischio del conflitto; è vero, anche perché la società
contemporanea sembra nutrirsi di contrapposizioni: il “nemico” diventa un
elemento identitario, un modo per esistere e farsi notare. Ma se la risposta è
solo polemica o rumore, si resta intrappolati nello stesso schema che si
vorrebbe superare.
Mentre, se consideriamo il “divino che è in noi” e prendiamo sul serio questa idea, allora la via più coerente non è né l’indifferenza né la violenza verbale, ma un confronto lucido, quindi: confutare con argomenti solidi, senza cadere nella retorica dell’insulto e elevare per mantenere il livello della cultura e dell’arte a livelli sostanzialmente puri, senza lasciarsi trascinare nel fango perché consapevoli che ogni parola può alimentare o disinnescare il male.
In questo senso, partecipare e “esporre le proprie
sacrosante ragioni” può essere un atto di responsabilità, purché lo si faccia
con la consapevolezza di incarnare quel divino interiore che rifiuta la
violenza e sceglie la bellezza del pensiero.
La vera domanda è: quanto siamo disposti a
rischiare di sporcarci nel confronto pur di non lasciare spazio al silenzio
colpevole?
“Un silenzio colpevole” è un’espressione che evoca
l’idea che tacere, in certi contesti, non sia neutralità ma complicità. Come tacere di fronte all’ingiustizia: il
silenzio diventa un modo per permettere al male di prosperare. Non prendere posizione: equivale a lasciare
che altri decidano per noi, rinunciando alla responsabilità. E la cultura e l’arte se smettono di parlare,
di confutare, di illuminare, tradiscono la loro stessa missione.
Il silenzio, quindi, può essere virtù quando evita il rumore
sterile, ma diventa colpevole quando sottrae voce alla verità. È il confine
sottile tra prudenza e omissione, tra rispetto e indifferenza.
In sintesi, il “divino che è in noi” non può esprimersi nel
silenzio che abdica, ma nel coraggio di dire, di confutare, di portare luce.
Non si tratta di gridare o di polemizzare, bensì di parlare con fermezza e
bellezza, affinché la parola diventi atto di responsabilità:Forza! Forza della parola antica cresciuta
consapevolmente per produrre ulteriore bellezza.
La Forza della parola antica cresciuta consapevolmente nell’intenzione di produrre ulteriore bellezza, secondo le intenzioni del teatro "grecalis" e del suo Magister il prof. Gigi La Rosa, è parte attiva per divulgare la Bellezza.
La parola antica, quindi, nutrita dalla consapevolezza, diventa
seme di nuova bellezza. E nel teatro greco — e in particolare l’esperienza del
“Grecàlis” guidata dal prof. Gigi La Rosa — intende riportare la parola alle
sue radici originarie, dove non era solo comunicazione, ma rito, canto,
vibrazione che univa comunità e divinità.
La parola, quì, si rivela forza vitale: non mero strumento, ma energia che plasma e trasforma. Diventa consapevolezza e, nell’uso cosciente, atto creativo capace di generare bellezza. Sul solco della tradizione greca, essa si fa performance dalle radici antiche: non intrattenimento, ma esperienza collettiva e spirituale, ponte tra umano e divino. Con il progetto “Grecàlis”, il magister Gigi La Rosa restituisce alla parola teatrale la sua funzione originaria, intrecciando rigore filologico e tensione poetica.
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