L’università non è un’eco‑camera: il dissenso è la sua forza

 La protesta studentesca come termometro democratico.

Quando il potere etichetta invece di ascoltare, tradisce la funzione più alta dell’istruzione: formare cittadini capaci di pensare, non sudditi pronti ad obbedire.

Partiamo dalla riflessione scaturita dalla notizia rimbalzata sui mezzi di comunicazione di massa:

“non si era mai visto un ministro e per giunta con un ministero all'istruzione della Repubblica disprezzare gli universitari contestatari definendoli "comunisti". considerazioni a parte del ruolo alto del ministro, la storia ci insegna che "essere comunisti" significhi interessarsi alla collettività abbattendo i muri delle caste e donando possibilità a chiunque lo meriti e lo voglia.”

Quando un ministro dell’Istruzione usa etichette ideologiche per delegittimare studenti che protestano, il problema non è solo politico: è simbolico. Il ruolo istituzionale richiede un linguaggio che non riduca il dissenso a un insulto. Questo vale per qualunque governo, qualunque ministro, qualunque epoca. Le università sono spazi dove il conflitto di idee è fisiologico, persino necessario.

Ill termine “comunista” nella storia italiana e internazionale ha avuto significati molto diversi, spesso opposti. È stato usato come identità politica, come insulto, come bandiera morale, come spauracchio. Dipende dal contesto, dal periodo storico, da chi lo pronuncia e con quale intenzione.

l’idea di comunismo come attenzione alla collettività, riduzione delle disuguaglianze, abbattimento delle caste, ampliamento delle opportunità. 

Questa visione ha radici profonde nei movimenti operai, nelle lotte per l’istruzione pubblica, nelle battaglie per i diritti sociali.

È interessante notare come, nel dibattito pubblico, parole che nascono per descrivere ideali sociali vengano spesso trasformate in etichette per screditare l’interlocutore. È un meccanismo retorico antico: si sposta la discussione dal merito delle proteste all’identità di chi protesta.

La questione più ampia, però, è un’altra: 

quando chi detiene un ruolo istituzionale risponde al dissenso con categorie ideologiche, rischia di impoverire il confronto democratico. Le università, per loro natura, sono luoghi dove si critica, si discute, si contesta. Farlo non è un difetto: è parte della loro funzione.

Il tema merita di essere esplorato con calma, perché tocca il cuore stesso dell’idea di università.

L’università è anche luogo naturale del dissenso: Le università non sono nate per produrre consenso, ma per produrre pensiero.  Il dissenso non è un incidente di percorso: è un ingrediente strutturale.  Perché dove si studia, si critica.  Dove si critica, si mettono in discussione poteri, strutture, idee dominanti.  Dove si mettono in discussione le cose, inevitabilmente nasce conflitto. 

Le istituzioni mature non temono il dissenso universitario: lo considerano un segnale di vitalità democratica. E  La protesta studentesca è sinonimo di motore storico.

La storia è piena di momenti in cui gli studenti hanno anticipato cambiamenti che la società non era ancora pronta a vedere. 

Alcuni esempi emblematici: 

- i movimenti studenteschi degli anni ’60 che hanno aperto la strada a riforme culturali e civili; 

- le proteste contro le discriminazioni razziali nelle università americane; 

- le mobilitazioni per il diritto allo studio e contro le disuguaglianze economiche; 

- le contestazioni più recenti su clima, diritti, finanziamenti alla ricerca.  Insomma gli studenti, per definizione, vivono in un tempo di formazione, apertura, sperimentazione. È normale che siano più sensibili alle ingiustizie e più pronti a immaginare alternative.

La Libertà, quindi, come confronto, non come monologo. E la libertà accademica non è solo “poter dire ciò che si vuole”.  È soprattutto poter discutere ciò che si pensa, sapendo che dall’altra parte c’è qualcuno disposto ad ascoltare e rispondere.

La libertà universitaria è fatta di:  pluralità di idee;  possibilità di criticare anche chi ha più potere; spazi di dialogo non filtrati da propaganda;  responsabilità reciproca nel mantenere il confronto civile. 

Ma quando un’autorità risponde al dissenso con etichette, delegittimazioni o semplificazioni ideologiche, non sta solo mancando di rispetto agli studenti: sta impoverendo il ruolo dell’università come laboratorio democratico.

Il punto centrale  in una società che non accetta il dissenso nelle università è una società che ha paura del proprio futuro e non lo valorizza, e che, invece, vorrebbe indebolire e abbattere gli anticorpi culturali, privarli delle energie critiche che la rendono più forte.

 Quando il potere etichetta invece di ascoltare, tradisce la funzione più alta dell’istruzione: formare cittadini capaci di pensare, non sudditi pronti ad obbedire.

In ogni stagione politica, l’università torna a essere un luogo di tensione, critica, fermento. È fisiologico. È persino auspicabile. Le aule dove si studia e si discute non sono progettate per produrre consenso, ma per generare pensiero. E il pensiero, quando è vivo, non può che essere anche conflittuale.

Per questo sorprende — e preoccupa — quando chi ricopre un ruolo istituzionale risponde al dissenso studentesco con etichette ideologiche, come se bastasse un aggettivo per liquidare la complessità di una protesta. È un gesto che impoverisce il dibattito pubblico e tradisce la missione stessa dell’istruzione: insegnare a confrontarsi, non a schierarsi per appartenenza.

La storia ci ricorda che le mobilitazioni studentesche hanno spesso anticipato trasformazioni profonde. Dalla democratizzazione degli atenei alle battaglie per i diritti civili, fino alle più recenti proteste sul clima e sulle disuguaglianze, gli studenti hanno rappresentato una coscienza critica che la politica, talvolta, preferirebbe ignorare.

Eppure, proprio quel dissenso è un patrimonio democratico. Non è un fastidio da contenere, ma un segnale da ascoltare. Dove gli studenti tacciono, la società si spegne. Dove discutono, contestano, propongono, la democrazia respira.

 

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Abbiamo aperto questo blog nell’aprile del 2009 con il desiderio di creare una piazza virtuale: uno spazio libero, apolitico, ma profondamente attento ai fermenti sociali, alla cultura, agli artisti e ai cittadini qualunque che vivono la Calabria. Tracciamo itinerari per riscoprire luoghi conosciuti, forse dimenticati. Lo facciamo senza cattiveria, ma con determinazione. E a volte con un pizzico di indignazione, quando ci troviamo di fronte a fenomeni deleteri montati con cinismo da chi insozza la società con le proprie azioni. Chi siamo nella vita reale non conta. È irrilevante. Ciò che conta è la passione, l’amore, la sincerità con cui dedichiamo il nostro tempo a parlare ai cuori di chi passa da questo spazio virtuale. Non cerchiamo visibilità, ma connessione. Non inseguiamo titoli, ma emozioni condivise. Come quel piccolo battello di carta con una piuma per vela, poggiato su una tastiera: fragile, ma deciso. Simbolo di un viaggio fatto di parole, idee e bellezza. Questo blog è nato per associare le positività esistenti in Calabria al resto del mondo, analizzarne pacatamente le criticità, e contribuire a sfatare quel luogo comune che lega la nostra terra alla ‘ndrangheta e al malaffare. Ci auguriamo che questo spazio diventi un appuntamento fisso, atteso. Come il caffè del mattino, come il tramonto che consola. Benvenuti e buon vento a quanti navigano ogni singola goccia di bellezza che alimenta serenamente l’oceano della vita. Qui si costruiscono ponti d’amore.

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