Il bisogno di un nemico e la paura dell’apertura

 Quando la fede diventa arma di conflitto.

Leader improvvisati e comunità chiuse trasformano la spiritualità in battaglia, mentre l’inclusione diventa minaccia.

C’è un filo sottile che lega i raduni religiosi di provincia alle grandi piazze politiche: il bisogno di un capo, di una voce che indichi un nemico e trasformi la confusione in battaglia. Non importa se si tratti di un parroco scomunicato o di un leader improvvisato: ciò che conta è la promessa di un’identità forte, di un “noi” contrapposto a un “loro”.


La Chiesa cattolica, con i suoi errori storici e le sue aperture recenti, diventa terreno fertile per questo conflitto. Ogni gesto di inclusione – verso altre religioni, verso le persone LGBTQ+, verso chi vive ai margini – viene letto da alcuni come tradimento. È più facile arroccarsi dietro un dogma rigido che affrontare la complessità del mondo. Così, l’apertura diventa minaccia, e la chiusura si veste da purezza.

Scismi e populismi: un intreccio antico e moderno.

La storia ci offre esempi eloquenti di come lo scisma religioso si sia intrecciato con spinte populiste:

  • La Riforma protestante (XVI secolo): non fu solo un atto teologico, ma anche politico. Lutero trovò sostegno tra principi tedeschi che volevano emanciparsi dal potere di Roma, trasformando la fede in bandiera di autonomia e ribellione.
  • Il giansenismo in Francia (XVII-XVIII secolo): un movimento religioso rigorista che si oppose alla Chiesa ufficiale e si saldò con correnti politiche anti-assolutiste, alimentando tensioni sociali e culturali.
  • I movimenti scismatici contemporanei: gruppi che rifiutano l’autorità di Papa Francesco, accusandolo di tradire la “vera fede”, si intrecciano con retoriche populiste che denunciano élite corrotte e invocano un ritorno alla “purezza originaria”.

 Il parallelo con i populismi odierni:

La stessa dinamica si ripete oggi fuori dall’ambito religioso:

  • In Europa, leader populisti hanno parlato di “difendere la civiltà cristiana” contro l’immigrazione, trasformando la religione in un argomento politico identitario.
  • In America Latina, figure carismatiche hanno usato un linguaggio quasi messianico, presentandosi come “salvatori del popolo” contro élite corrotte, con toni che ricordano predicatori religiosi.
  • Negli Stati Uniti, slogan come “Make America Great Again” hanno assunto una valenza quasi liturgica, con raduni che ricordano cerimonie religiose, dove il leader diventa profeta e la folla comunità di fedeli.

In tutti questi casi, la retorica populista si appropria di simboli religiosi: il linguaggio della “crociata”, la promessa di una “redenzione collettiva”, la contrapposizione tra “puri” e “corrotti”. È lo stesso meccanismo che anima i movimenti scismatici religiosi: dare un senso di missione, trasformare la paura in battaglia, offrire un nemico da combattere.

questa è la logica del conflitto.

Dietro questa dinamica c’è un meccanismo umano universale: la paura dell’incertezza. 

Accogliere il diverso significa mettere in discussione se stessi, e non tutti hanno la forza di farlo. Allora si cerca un leader che trasformi la paura in rabbia, che indichi un “anticristo” o un “nemico della fede”, e che dia alla comunità la sensazione di combattere una crociata giusta.

Il rischio è evidente: la fede si piega alla logica del conflitto, la spiritualità diventa ideologia, e la religione – che dovrebbe aprire – si chiude. In questo gioco, i più fragili finiscono per essere manipolati, convinti che la verità sia solo quella che divide.

La vera sfida, oggi, non è difendere un dogma, ma imparare a convivere con la pluralità. Non è facile, perché richiede coraggio e umiltà. Ma senza apertura, la fede si trasforma in setta, e la comunità in esercito.

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