domenica 26 giugno 2011

Calabria, crocevia di storie

Gente del sud.

Ricordo chiaramente la sensazione di disagio che saliva quieta mentre mi accingevo a trascorrere un periodo della mia vita in luoghi sconosciuti. Luoghi che, a detta dei media, sono tutt'ora sinonimo di ‘ndrangheta, di malaffare e violenza. Se fosse dipeso da me avrei fatto volentieri a meno, e mentre preparavo le valigie immaginavo scene di sangue, aggressioni, arroganze … ma no! Ripetevo mentalmente per farmi coraggio. Eviterò i luoghi malfamati, le periferie e le persone rozze. Mi faccio i fatti miei e dopo il lavoro, una doccia e via su qualche spiaggetta dei mari del sud!, tra lo Jonio e il Tirreno c’è solo l’imbarazzo della scelta! Sì, mi faccio i fatti miei e mi godo il sole e il mare pulito della Calabria selvaggia.
©arch.M.Iannino
veduta sullo jonio

Quant’è vero che la fantasia condiziona la realtà anche di noi calabresi cresciuti nelle città. A furia di sentire storie di cronaca nera, tutto diventa cattivo. È come un virus che penetra dentro il corpo buono e lo infetta, provocando, a volte, metastasi.
Oggi lo posso affermare con convinzione! La Calabria, non è tutto quello che si legge o si sente. La Calabria e la sua gente sono ben altro! L’ho scoperto a mie spese. Non perché abbia deliberatamente fatto delle ricerche, ma perché condizionato da un lavoro che mi ha portato a conoscere moltissimi paesini dell’interland compresi quelli che mai avrei pensato di visitare. Paesi che nell’immaginario collettivo sono covi di ‘ndranghetisti, con cantine trasformate in covi per latitanti e campagne piene d’insidie.
Ci sono anche questi!, inutile negarlo; paesi tristemente noti per faide sanguinarie tra persone dotate di un’intelligenza primitiva protese a salvaguardare i propri interessi con ogni mezzo, anche con la violenza, ma non sono per strada a dare fastidio alla gente che passa, sono attenti ai loro affari come nel resto del mondo; d’altronde, la cronaca parla di episodi efferati accaduti a Roma, Milano, New York. E che dire, allora, delle guerre economiche innescate dai poteri occulti dell’alta finanza? Di quella lobby famosa come mafia dei colletti bianchi che pur di guadagnare e fare profitti non bada a nulla? La stessa che fa transazioni d’affari con imprenditori sani e malavitosi senza battere ciglio? La seconda scelta, naturalmente, non giustifica la prima, ma è tanto per ricordare che nella società ci sono i buoni e i cattivi dappertutto!
Cosa diversa è la delinquenza comune, il bullismo, l’indifferenza, fenomeni sociali, questi, che fanno più vittime nelle grandi città piuttosto che nei paesini dove tutti si conoscono e l’ospitalità è ancora ritenuta un dovere sacro da rispettare. Ma quanti sono o saranno indotti a recarsi in quei luoghi da pressanti situazioni lavorative e quanti invece per amore di bellezza per la conoscenza? saranno le stesse che abbattono le paure perché ne va di mezzo la tranquillità economica personale e della famiglia per chi è sposato? Ecco, questo mi sono chiesto, specie dopo aver letto un articolo su Repubblica a firma di uno scrittore, noto per avere scritto un libro sulla camorra, ora sotto protezione perché ha ricevuto minacce di morte dopo averlo pubblicato e conteso dai “salotti sull’antimafia”, che titolava “Così si muore in Calabria, per la legge della terra” e intercalava, a mio avviso, quasi compiaciuto: “…ma questa non è una strage dettata semplicemente dal raptus di paesani che vivono in terre del sud dove ci sono più pistole che forchette…”.
La mia esperienza, dicevo, è diversa. Ho conosciuto i calabresi, quelli resi “brutti” da giornalisti e scrittori di cronaca dalla penna facile; sono entrato nelle loro case; non ho trovato pistole nei cassetti delle cucine ma forchette e posate. Posate per imbandire le tavole con lo scopo di accogliere degnamente gli ospiti.
Le storie che seguono, se pur romanzate prendono spunto da esperienze reali. Incontreremo i luoghi e l’animo della gente, le diverse realtà conosciute in uno spaccato molto vicino al vero, come i paesi dell’accoglienza dove gli extracomunitari si sono insediati e convivono con i calabresi tra scorci paesaggistici d’incommensurabile bellezza.
Buona lettura.



Caminia vista dall'alto
LO SBARCO

Ci vediamo al Blanca! … Ssi va bbe’ sciao… Risponde la ragazza mentre sale sul motorino e parte nella direzione opposta a quella imboccata dal ragazzo.
La stradina è stretta e le macchine parcheggiate a bordo strada in prossimità degli accessi alla spiaggia la rendono ancora più angusta. Le case baciate da sole e sferzate dalla brezza marina mostrano i segni del tempo. Un po’ malconce, sembra che debbano cadere da un momento all’altro ma sono lì, caparbiamente arroccate sul litorale jonico e dominano in tutta sicurezza il mare. Quel mare limpido che fu teatro d’innumerevoli storie, vere e fantasiose, in cui giacciono chissà quanti tesori. Ma ai ragazzi non importa nulla dei ritrovamenti archeologici, dei percorsi culturali e dei bronzi di Riace, dei Greci e delle colonie erette nella terra Brutia. La scuola è finita! Adesso, loro, sono in vacanza! Sospendono Virgilio, Omero e Seneca; Cassiodoro e Ovidio, per vivere all’insegna della spensieratezza assoluta la stagione della libertà.
Il sole picchia sulla spiaggia deserta e gli ombrelloni sonnecchiano scossi da leggeri aliti di vento. Anche l’uomo seduto sotto l’unico ombrellone aperto sonnecchia.
Il bagnino chiude le sdraio vuote e le poggia di fianco l’un l’altra, le allinea diligentemente seguendo uno schema predefinito che non si scosta minimamente dagli altri insediamenti balneari limitrofi. Se non fosse per la varietà di colore, che contraddistingue gli insediamenti sembrerebbe di essere in un unico stabilimento balneare. Sembrerebbe di essere in una di quelle spiagge affollate dell’Emilia con gente sconosciuta che si rosola al sole; corpi anonimi sdraiati l’uno accanto all’altro in un’intimità fuori del normale.
È inutile andare lontano, anche nel sud c’è gente che ama stare in mezzo alla folla anonima e c’è chi non vuole ingerenze estranee alla propria intimità, non si espone e fa di tutto per non apparire agli occhi della gente. Non si nasconde perché soffre d’agorafobia ma per paura del malocchio, anche se in molti dicono di non crederci, vedi per esempio mia cognata, lei dice le cose dopo averle fatte. Non parla mai dei suoi progetti prima di averli realizzati. Lei è fatta così! E poi, quando tutto è accaduto, con naturalezza racconta ogni minimo particolare. Che ci vuoi fare, è fatta così!, chiamala deformazione mentale, paura dell’occhio degli invidiosi o paura dei probabili ladri, a proposito: da quando le hanno svaligiato casa ripulendola di ogni ben di Dio non si fida più neanche della sua ombra: ha messo persino le persiane blindate con tanto di allarme collegato alla p o l i z i a!
Le cose sono cambiate! Non è più come quando si lasciava la chiave alla toppa.
Bèh che vuoi, nel nord magari sono più freddi, la mentalità non è come qui da noi che basta vederci due volte e dopo un attimo parliamo come se ci conoscessimo da una vita, ma stai pur certa che quanto prima anche qui sarà la stessa cosa! –dichiara solennemente la signora all’amica ma con lo sguardo sul bagnino intento a chiudere le sdraio- Pare che una società del nord abbia messo gli occhi su questo posto e poi, addio spiaggia libera! Addio libertà! Neanche questo metro quadrato di spiaggia ci lasceranno! E pensare che questo posto l’abbiamo scoperto noi. Ti ricordi i primi anni? Non c’era neanche la strada! Che pace! C’era solo la casa della marchesa e tutt’intorno macchia mediterranea! Sì è vero! L’odore di stallatico fluttuava dall’ovile alla battigia nei giorni ventilati ma non era fastidioso se paragonato all’odore della nafta! Anche la barca di Ciccio il pescatore sembrava soffrire di solitudine ah ah ah. Guarda adesso! È pieno di barche e motoscafi in mare e sulla spiaggia. Che schifo!
Ha lineamenti ben disegnati la signora petulante: naso piccolo, occhi leggermente a mandorla, capelli curati. Lei non sta mai sotto l’ombrellone, ama il sole. La sua carnagione è dorata più di quella dei polli cucinati allo spiedo! E non dà nessun segno di sofferenza o di fastidio, anzi! pur di ottenere gli effetti dorati che si prefissa, alcuni giorni, fa tutta una tirata sulla spiaggia, perché la tintarella la rende più secsi, dice lei. E per ottenerla in toto si stende sulla spiaggia a braccia e gambe aperte cosi ché il sole la baci dappertutto. Il reggiseno copre appena i capezzoli irti, anzi sembra che siano loro a puntellare la stoffa sottile memori di un antico pudore.
Il corpo, color ambra, fin dai primi momenti, vive attimi propri: con estrema delicatezza, le dita delle mani ben curate tirano giù le spalline del reggiseno, infilano tra i glutei il microscopico slip e ungono con un intruglio arancione quella parte di territorio intimo che solitamente sta coperto.
Più in là, poco discosti, due fanciulli giocano sulla battigia. Il maschietto lancia pietre nell’acqua, la ragazzina impasta della sabbia fine, l’appallottola e tenta d’infilargliela nel costume. Ridono mentre cadono in acqua. Gli schizzi infastidiscono le due bagnanti che atterrite irrigidiscono i muscoli.
Noo i capelli nooo ho fatto cinque ore di fila dal parrucchiere nooo basta! Samanthaaa! Thomas! Smettetela! basta ho detto basta!, non schizzateeee! Se v’acchiappo… Buon giorno Cavaliere! Ragazzi!, smettetela che bagnate il Cavaliere…
Ma il Cavaliere, per tutta risposta, alza la mano come per dire “non fa niente, lasciali stare” e prosegue.
È taciturno oggi il Cavaliere! Solitamente scambia convenevoli, racconta qualche aneddoto; ma oggi no! Cammina lentamente sulla battigia con la testa bassa. Osserva i suoi piedi comparire e scomparire nei giochi d’acqua e sabbia che si formano ad ogni suo passo. L’impronta dura un attimo. L’abbraccio molle dell’acqua avvolge i piedi, cancella i segni lasciati dall’uomo che contrariamente al solito non invita nessuno a tenergli compagnia.

È consuetudine, per la gente del posto, vederlo sorridere mentre decanta le virtù terapeutiche del corpo a contatto con l’acqua e la sabbia e i giovamenti che trae dal massaggio naturale della risacca. Spesso i conoscenti si accodano, lo accompagnano, non tanto perché convinti dal giovamento terapeutico quanto per sentirlo parlare. Sì la sua oratoria è veramente piacevole, e quando inizia a parlare è un fiume in piena e quanti gli fanno compagnia percorrono chilometri, arrivano al Sottovento e a volte persino a Soverato, senza avvertire la benché minima fatica. D'altronde il cavaliere ha sempre qualcosa di nuovo da raccontare e quando ne ha voglia è uno stimolo per la mente, altro che le carezze flosce dell’acqua che inumidiscono il costume.
tra Montauro e Montepaone (CZ)
Nell’ascoltarlo pensi che se foste su una barca, con l’acqua che sbatte sulla carena e il blu tra cielo e mare, vinceresti l’insonnia che ti perseguita. Potresti raggiungere lo stato di quiete sublime che precede l’ipnosi e andare alla deriva tra le braccia di Morfeo.
Potrebbe fare senz’altro il terapeuta. Ipnotizzare le persone e aiutarli a prevaricare gli spazi temporali. Isolarli dal resto del mondo e accompagnarli nella fase prenatale in modo da comprendere la psiche e sollevarla dalle turbe. … che strano fenomeno la regressione. Però, lo stato di trance, avviene anche tra gli analfabeti in condizioni inspiegabili dal punto di vista scientifico, specie se è seguito da visioni mistiche.
E fu parlando di fenomeni esoterici che un giorno il cavaliere parlò della Mistica di Paravati Natuzza Evolo.
Conoscete Natuzza Evolo? –sbottò di colpo un giorno- Quella è una santa donna! La tipica madre di famiglia calabrese! Ha un passato drammatico fatto di fame e miseria. Pensate che fin da bambinetta, (che avrà potuto avere un sei sette anni!) è dovuta andare a fare la cameriera per sfamare i suoi fratelli perché la madre stava passando un brutto momento. Per lei non fu un episodio infamante, anzi trovò in quella famiglia un rifugio e del pane sicuro. Una salvezza, insomma.
Vedete, noi ci faremmo un casino di scrupoli, ci vergogneremmo a parlare di situazioni personali scabrose specie oggi che viviamo di apparenze, di bei vestiti e di dottorati regalati a piene mani. Ormai dove vai vai, in qualsiasi ufficio i titoli abbondano, senti dottore dottoressa e magari non sanno mettere due parole una dietro l’altra, ma questo sarebbe il minimo, almeno ‘sta gente sapesse svolgere il mandato se assunti nella funzione pubblica e risolvere i problemi di quanti si rivolgono a loro. Ma lasciamo stare và. … che stavamo dicendo? Ah già, Natuzza! È sempre stata una persona umile, nonostante i doni ultraterreni. Lei fin da piccolina vedeva gli angeli e giocava con un bimbetto di nome Gesù, ma questo lo capì più tardi, quando glielo disse Lui. Pare che Gesù le facesse compagnia per risollevarla dagli affanni quotidiani che non mancavano mai. E prima di essere collocata come cameriera nella casa di una famiglia benestante del suo paese, la piccola Natuzza, essendo rimasta sola ad accudire ai fratellini, per mettere dentro lo stomaco qualcosa di commestibile si metteva davanti al negozio del pane e aspettava in silenzio che il fornaio le passasse qualche pagnotta. Lei faceva finta di mangiarla e invece la sminuzzava e se la metteva in tasca per portarla ai fratellini più piccoli. Quante ne ha passate quella povera figlia! Pensate che fu persino internata nel manicomio perché vedeva le anime dei morti, parlava con Gesù e pure la Madonna!
Come facesse è un mistero. Neanche io ci credevo fino a quando non ho toccato con mano le sue doti! Sì, noi li riteniamo doti. Invece lei no! Sempre timida e altruista, non ha mai chiesto né accettato alcunché.
Io sono una piccola testimonianza rispetto a quanti hanno scritto e studiato da vicino il fenomeno Natuzza. Figuratevi, un’analfabeta che non sa leggere e scrivere, non sa fare i conti e neppure parlare l’italiano che all’occorrenza parla e si fa capire in tutte le lingue del mondo. Da dove arriva questo sapere, chi gli dà la conoscenza?
Sila: santa messa con Natuzza
La prima volta che sono andato da lei, spinto da problemi strettamente personali che non sto qui a dirvi, le feci delle domande a bruciapelo e lei con dolcezza mi disse: "figghiarè u futuru è ‘nte mani di Dio, io non sacciu nenta! Na preghiera pozzu dira ma u futuru è n’te mani e Gesù. Prega prega ca a Iddhu nenta è impossibila!”. “figliolo, io non so niente! posso solo pregare. Il futuro è nelle mani di Dio. Prega perché a Lui niente è impossibile!”. Così rispose alle mie tensioni del momento.
Che Santa Donna! Lei era Marta e Maria insieme perché nonostante fosse continuamente disturbata da una caterva di gente afflitta da drammi familiari dall’alba fino a sera tardi, alla famiglia non è mai mancato il suo ruolo attivo di mamma: i figli trovavano il cibo sulla tavola quando uscivano da scuola e, il marito, la camicia stirata quando gli serviva. Davvero una mamma vecchio stampo altroché! Come la maggior parte delle mamme calabresi che offrono le pene e le fatiche al Signore e gioiscono davanti al sorriso dei figli. Noi possiamo avere 50, 60 anni ma per loro siamo sempre i loro piccoli figlioli.

©mario iannino
bozzetto: Natuzza e i giovani
L’essere mamma è un atto d’eroismo! è l’azione costante perpetrata con naturalezza laddove c’è amore vero; lo si capisce dalle azioni semplici, da una carezza, un sorriso, dalle attenzioni prestate alla famiglia, in un acquisto gradito ai ragazzi anche se ciò significa rinviarne un altro, giacché la mamma non ritiene un sacrificio la privazione personale o la fatica, ma un piacere, se mirate alla serenità della casa. Semmai s’addolora quando è costretta a dire no, quando non sa cos’altro escogitare per far quadrare i conti, nonostante riduca le spese, specie nella stretta economica attuale in cui ci troviamo. Non so se per voi è stata la stessa cosa, ma quando ero ragazzo questa era la vita che si conduceva nella quasi totalità delle famiglie. Oggi, pare che la recessione ci abbia ricondotto indietro nel tempo, a quando le donne sapevano fare quella sana economia domestica che le nonne apprendevano a scuola, sapevano cucinare anche gli avanzi e li trasformavano in leccornie. Un tempo non si poteva buttare niente! anche oggi si dovrebbe riciclare il massimo delle risorse e invece vediamo i cumuli della spazzatura crescere lungo le strade. A dire il vero chi viene da paesi depressi e sottosviluppati rimane sbalordito davanti alla montagna di materassi, elettrodomestici, porte, mobili e suppellettili, buttati al macero in tutta tranquillità. Va beh che adesso neanche i calzolai esistono più come categoria artigianale. La gente preferisce comprare a poco le scarpe e buttarle quando si rovinano. Non so se questo è un bene. So di certo che preferivo la cultura contadina. Quando le cose avevano un’anima e tutto aveva un senso. Gli scarponi col carrarmato e le punte con la mezzaluna d’acciaio per farli durare di più.
Le famiglie cresciute e educate nella cultura contadina, di quella cultura che tesaurizzava le nenie esoteriche raccontate davanti al focolare, che diventava patrimonio familiare e che le donne calabresi hanno saputo tramandare di generazione in generazione. Nenie che sussurrano ai pargoli al calar della notte per farli dormire. Quella cultura fatta anche di superstizioni, di ritualità, di gesti scaramantici che inducono le donne a raccogliere i panni dei neonati prima del calar del sole e se lasciate stese con le tenebre di tenerli sotto l’ascella prima di vestire i piccoli per scacciare eventuali spiriti malefici che si sono adagiati sopra. O apparecchiare la tavola anche per il caro defunto e bere del vino “in suffragio della sua anima benedetta”.
Ancora adesso, ma solo ai funerali, capita di assistere alla lista cantata dei pregi che il defunto dimostrò di possedere in vita. È quasi un tantra, un lamento funebre sciorinato dalle comari per alleviare il dolore dei vivi e ben disporre la dipartita del caro estinto.
Quale l’origine dei riti, la radice culturale della gente di Calabria se non la contaminazione millenaria dei popoli che hanno calpestato il suolo e contagiato con le differenti culture il popolo bretto?
D’altronde è risaputo!, il Mediterraneo è un crocevia di culture e la Calabria è porta di mare, la terra che accoglie e assomma in sé esperienze e tratti somatici differenti: arabi, spagnoli, ottomani, francesi, arbresch, greci; popoli venuti per saccheggiare, scambiare merci, colonizzare o sfuggire a tristi destini, comunque gente che ha arricchito e si è arricchita dello spirito calabrese. Forse è proprio questo miscuglio di razze che rende unici i calabresi, anche se nell’immaginario collettivo, specie nelle esternazioni arcaiche di certi rituali, quello che eccita l’attenzione e catalizza i mass media sta sotto la voce “ndrangheta”. E non c’è bisogno di fare chissà quale ricerca storica e perdere gli occhi sui libri per capire che questa è una verità incontrovertibile! Basta recarsi al santuario di Polsi in certi periodi dell’anno e osservare attentamente la flora e la fauna; analizzare i rituali religiosi. Ma questa è tutta un’altra storia! Un costume che risale al feudalesimo, a quando i poveri si trasformavano in briganti per campare e sopravvivere alla angherie dei nobili e ricchi latifondisti. Ma ora non voglio parlare di affiliazioni, preferisco raccontarvi di eventi sani anche se contaminati da una certa cultura popolare deformante incline a genuflettersi davanti ai potenti del luogo, siano essi sindaci, caporali o capibastone. Perché in sintesi questo significa la sosta delle processioni o la gestione del santo in alcuni paesi. Ma facciamo finta di niente, volgiamo l’attenzione verso rituali sani nei quali la pietà popolare è sentita anche se spettacolarizzata come nella processione della “Naca” del Venerdì Santo a Catanzaro o i più spettacolari vattienti di Nocera Terinese che, per mostrare la devozione al Cristo, durante la processione della Madonna Addolorata si battono il corpo con il cardo, un pezzo di sughero con tredici chiodi o pezzi di vetro, e per mantenere vive le ferite le cospargono di vino e col sangue che fuoriesce segnano le case degli amici che, a loro volta, escono a disinfettare e lenire le ferite offrendo del vino. Ferite superficiali, che per mantenerle vive lavano continuamente con del vino, quindi. In altri paesi i ragazzi inscenano processioni e bussano alle case per ricevere qualche crespella. E nella settimana santa, l’unico suono consentito è quello delle claque, uno strumento semplice, fatto di legno, molto rudimentale, costruito dai ragazzi stessi. Semplice ma rumoroso quando è agitato, perché i batacchi laterali, arrestano la corsa sulle pareti della tavola sulla quale sono fissati con delle cerniere. In buona sostanza, immaginate due finestre che sbattono l’una addosso all’altra con violenza.
Questo e altro ancora raccontò un giorno il cavaliere quando comparve con il bastone della pioggia. Lo agitava come fanno gli sciamani della terra d’Africa quando officiano il rito propiziatorio della pioggia.
La saggezza pragmatica accumulata nel tempo, a contatto con la natura, non censura ma asseconda le normali propensioni umane laddove vi è rispetto delle sue leggi. Le sagge civiltà arcaiche hanno appreso che la terra, da vera madre, le sostiene, le nutre, le fa crescere e le accompagna verso nuove mete fino a quando che l’uomo rispetta il ciclo vitale della natura. I popoli saggi non costruiscono centrali termonucleari e neanche idriche o eoliche perché non hanno bisogno dell’energia artificiale. Vivono di giorno, cacciano, pescano, si arrampicano sugli alberi per raccogliere i frutti. Non raccolgono il superfluo ma quel tanto che basta per sfamarsi, il resto è per gli altri che hanno fame o per il giorno dopo. E noi? Noi siamo insicuri e avidi. Ingordi! Il nostro modello di vita attuale ci spinge ad accumulare ricchezze energie cibo!; perché? Viviamo forse meglio rispetto ai primate? No! Ve lo dico io! No non viviamo per niente meglio di loro! Ma che fine ha fatto la saggezza tanto decantata dai filosofi, l’istruzione che ci costruiamo a scuola e nella società, senza parlare della rivoluzione industriale e tecnologica!, a che servono gli ausili tecnici se poi diventiamo schiavi e non padroni?
Ecco, questi sono alcuni concetti che il cavaliere ama ripetere. Le ripete ogni qual volta gliene capita l’occasione. Le scandisce convintamente perché cari al suo status mentale. Non ama la civiltà, il rumore del traffico, la televisione sempre accesa, il pettegolezzo e le donne siliconate. Per non parlare dei furbi. Lui, la filosofia di vita se l’è formata in Africa, dove tutto è natura.
Sì, lui è stato in Africa. Ma qui? Noi siamo qui! In Italia, Europa! Con sistemi di vita totalmente differenti, dove non si riesce a stare senza computer, elettricità, medicinali e vaccini. Beh, non tutto è merda, dai. A qualcosa e servita la civiltà. È vero. –risponde calmo il cavaliere- la civiltà è tale fintantoché non va contro le leggi della natura e non usa violenza all'uomo. Lo so. Ora tu mi dirai che anche nelle società tribali avvenivano le lotte e c’era anche qualche atto di cannibalismo, ma appunto, parliamo dell’origine del mondo, in una realtà governata dagli stimoli primordiali, nella quale, il territorio era sinonimo di sopravvivenza, cibo, cacciagione, diritto alla vita per la tribù. Insomma, era lo spirito di sopravvivenza a condizionare le azioni dei primitivi. Ma sia ben chiaro: ben venga l’evoluzione tecnologica e civile semprechè rispetta le leggi naturali universali.

Il bambino dagli occhi di cielo

L’odore acre dei carri impregnati del sudore di uomini e animali è una sensazione ricorrente. Gli ritorna alla mente spesso, specie quando vede alcune scene in tv; ma ora, quell'odore acre e pungente gli penetra davvero nelle narici. Non sta sognando a occhi aperti. Punta come un segugio e segue le particelle che gli arrivano alle narici.

Oltre la piccola duna, alla foce del Beltrame, pochi stracci abbandonati testimoniano un imminente furtivo passaggio di profughi. Tra le povere cose disseminate sulla spiaggia, un pezzo di legno, grossolanamente sbozzato, attira l’attenzione del cavaliere. Lo raccatta. Lo rigira tra le mani, valuta la consistenza del pezzo sbozzato: è un bel lavoro! -Mormora tra sé mentre continua ad osservarlo attentamente- Le linee degli occhi e della faccia sono incavate, il naso e le grosse labbra sbalzano di poco. Lo scudo a forma d’uovo istoriato protegge il corpo…
È concentrato a valutare la bellezza della scultura arcaica il cavaliere. Gli piace immaginare l’uomo che l’ha intaccata con l’ascia e il coltello in piena libertà, non condizionato dalle proporzioni auree o dal canone di Policleto. In questo preciso momento l’intarsio lo isola dai problemi e dal resto del paesaggio, lo riporta indietro nel tempo.
Gli alti tigli sfiorati dal vento agitano lievemente i rami; le foglie vibrano; i tronchi flessibili ma fermi sembrano cullare pensieri antichi nell'azzurro del cielo e accolgono creature libere, chiassose nello spettacolare teatro naturale. Ad un certo punto, qualcosa stona nella nota corale degli uccelli, delle cicale e dei grilli. Il brusio stesso è infastidito da un miagolio sommesso. L’uomo tende l’orecchio. Presta attenzione alla frequenza dissonante e si accorge che non segue il ritmo naturale del coro: è un linguaggio a sé, estraneo e lontanissimo dalle spensierate melodie agresti. Fa qualche passo. Si avvicina alla fonte e, scansato un cespuglio di macchia mediterranea, distingue un fagottino di stracci bagnati che sussulta affianco al corpo inanimato di un adulto.
Il cucciolo d’uomo piange! Accasciato, il piccolo, stringe la testa dell’anziano naufrago. Gli accarezza il volto mentre ricompone i capelli stopposi. Non può fare altro! È impotente davanti allo scempio dei corpi esanimi tra le misere cose che possedevano e che a fatica si erano portati dietro, nella nuova terra.
Il bambino avverte la presenza estranea e d’istinto cerca di nascondersi dietro il corpo inanimato; lentamente rivolge lo sguardo verso il cavaliere che attonito, osserva i rivoli di lacrime che solcano le gote paffute. Ha occhi celesti; riccioli neri e pelle d’alabastro il piccolo naufrago.
Il cavaliere rimane immobile per qualche istante. Superato l’attimo, urla invocazioni d’aiuto. Le grida sono recepite nell'immediatezza dai bagnanti che accorrono.
In pochi attimi diventano spettatori attoniti di quel che resta di un esodo della speranza.
Povero piccolo chissà chi sono i genitori tra questi. Vieni vieni …andiamo… no no portate un po’ d’acqua… chiamate l’ambulanza… il 113.
Nel parapiglia generale, il bambino passa di braccio in braccio. Le signore lo coccolano. Lui si dimena. È terrorizzato! Non vuole abbandonare la sua gente lì su una terra sconosciuta. E poi, anche gli odori della gente che lo accarezza sono differenti.
La figlia di un venditore ambulante, uno dei tanti che percorrono le spiagge per guadagnare qualche centesimo, anche lei con la cassettina di ninnoli, dice qualcosa e sorride al piccolo naufrago. Il bimbo si calma. La signora, sollevata, allenta la presa, lo lascia con la bimba e va a curiosare altrove.
Gli ululati delle sirene diventano sempre più distinte. Adesso il suono è pungente. E, come d’incanto, da una nuvola di polvere, appare la macchina del pronto intervento.
Gli uomini della polizia si danno subito da fare: allontanano i curiosi e transennano con del nastro bianco e rosso la zona.
Il cavaliere è il primo ad essere sentito dalle forze dell’ordine. Arriva anche l’ambulanza. I sanitari costatano amaramente che non c’è più nulla da fare per la maggior parte dei naufraghi e lo trasmettono alla sala operativa. No no aspettate, interviene una ragazza, c’è un bambino… Dov’è il bambino? Il bambino dagli occhi celesti color cielo con quei riccioli neri, la pelle d’alabastro… dov’è?


Spiaggia di Caminia, ore 18,30
La ragazza col motorino, quella dell’inizio, ricordate? è puntuale: parcheggia e s’incammina verso la piazzetta.
Al bar del Blanca, seduti sotto un gazebo, alcuni ragazzi cazzeggiano. Il mega schermo trasmette musica life.
Ei ragà come ve bbutta oggi stò a pezzi non ho chiuso okki mi madre che rompe che devo dormì de giorno a solita piattola che ppalle ‘ste mamme. Baci baci smack smack… lo avete saputo che hanno riaperto il Tempio di Atlantide? Nooo daveru Allora tutti a lu Tempiu stanotta…
Però, quanto so’ affettuosi ‘sti ragazzi èh? –commenta un’anziana signora che osserva la scena dal suo terrazzino, a pochi metri dal mare- e poi dicono che non hanno valori che i ragazzi hanno perso ogni voglia di vivere e pensano solo a divertirsi nelle discoteche. Guarda con quanto affetto si salutano, si abbracciano con trasporto… Nonna nun stà a dì fregniaccee tu manco li conosci…-la zittisce un ragazzetto tatuato e col piercing al naso. Un piercing grosso quanto un dito. Un piercing d’avorio che, senz’ombra di dubbio, avrebbe fatto schiattare d’invidia i guerrieri d’Africa tanto cari al cavaliere.-
Sul mega schermo del Blanca un’edizione straordinaria del telegiornale interrompe la consueta programmazione e lo speaker annuncia con tono greve: notizie allarmanti dal Giappone. Un violento tsunami ha investito le coste del sud con onde alte dieci metri… dappertutto è emergenza: barche, automobili, camion, aerei spazzati dalla forza del mare che ha invaso e sommerso la terra ferma…Dramma nucleare a Fukushima. Ciò che non è stato devastato dal maremoto e dal terremoto è stato contaminato dai quattro reattori delle centrali nucleari … In Italia, protestano davanti a Monte Citorio i parenti dei morti nella missione di pace … …secondo un recente studio i tumori sono sopraggiunti a seguito dei vaccini inoculati ai militari e non per l’uso dei proiettili all’uranio impoverito o l’uso di utensili contaminati …
Le immagini a corredo dei pezzi giornalistici sono più eloquenti delle parole del bravo cronista: calcinacci, ammassi di mattoni, ferri contorti, mobili maciullati in bilico sui solai dimezzati e, tra le macerie, ragazzi con i vestiti sporchi e stracciati intenti a raccattare qualcosa, per loro, utile.
Ragazzi d’ogni età, se ancora si possono definire ragazzi questi fanciulli sporchi di guerra e sopraffazioni, costretti a guadagnarsi la vita nei luoghi di morte. L’adolescenza l’hanno saltata; scavano tra le macerie in cerca di cibo e non esitano ad arraffare generi di qualsiasi tipo barattabile con un pezzo di pane.
La macchina da presa circoscrive l’inquadratura; zumma su un esserino piccolo, scalzo, che saltella tra le macerie: si ferma e scava. L’operatore indugia con la telecamera su di lui: fa un primo piano. L’esserino, si volta, si passa il dorso della mano sugli occhi e spalanca due spicchi di cielo color celeste; sorride all’operatore mentre continua a scavare in cerca di qualcosa.
Baastaaaa!!! Basta con queste stronzate vogliamo musicaaa cambiate canale buuuuu –urlano i ragazzi-
Inizia ad imbrunire ed il cielo si carica di nuvole. Qualche goccia cade violenta sul coro di voci. – niente paura ragà è il solito acquazzone estivo mò passa.
Gli ultimi bagnanti raccattano gli asciugamani e corrono verso la tettoia del lido. La pioggia cade violenta. Qualcuno corre a rifugiarsi in macchina. Dalla spiaggia si levano nuvole di caldo; l’odore del bagnato si confonde con l’odore di salsedine.
Povera gente! Pensa se piove anche da loro: danni su danni. Il tempo a volte è inclemente. Quando la butta non risparmia nessuno; se c’è un riparo a disposizione ti copri altrimenti…
D'altronde, non è la natura a provocare le guerre, al massimo ti provoca un terremoto, ma anche le scosse sismiche si possono prevenire: basta un po’ di buon senso e onestà nel programmare e costruire gli insediamenti urbani… guarda in Giappone, loro sono abituati e ci convivono bene. Costruiscono grattacieli antisismici che resistono a terremoti che se avvenissero da noi raserebbero tutto al suolo.
Ricordo il terremoto di Reggio Calabria del 1908, più che un ricordo vero e proprio è un sogno. –dice un signore avanti negli anni- mio padre me ne parlava spesso. Reggio e Messina sono zone a rischio e lì devono stare molto attenti! Mio padre era un giovanotto a quei tempi e aiutò i suoi paesani, qualcuno lo ospitò anche. Quello che lo angustiava, e me lo ripeteva spesso, era di non essere riuscito a salvare un ragazzino piccolo. Mio padre sentì una vocina leggera leggera provenire da sotto un cumulo di macerie; si diedero da fare in molti ma quando finalmente lo videro era maciullato!, solo la faccia aveva intatta, neanche un graffio: gli occhi aperti, sereni, di un colore celeste brillante con dei riccioli neri che gli incorniciavano un viso bianco e roseo, sembrava di porcellana tanto era bello… comunque erano altri tempi e non c’erano le tecniche antisismiche che ci sono adesso. Sìsì vabò guagliò a finimu ccu sta lagna? Ja jamuninda ca fhiniu e chjiovira jà…
Il cielo è cupo. Le nuvole hanno rovesciato il fardello d’acqua ma ancora stanno lì, stazionano sulle colline del golfo di Squillace. Ai ragazzi poco importa!, hanno deciso di trascorrere la notte al people; la discoteca è a pochi minuti da Caminia; 10 km, direzione Catanzaro; oppure al cafè sul lungomare di Soverato.

Non piove più da qualche ora: le famiglie sono rientrate nelle rispettive case e i ragazzi continuano a valutare come e dove trascorrere la notte. Organizzano le macchine, l’ora e il luogo dell’incontro.
Mezzanotte: ci sono tutti tranne Sabry. Jenny le manda un sms. Passano i minuti. Sabry arriva in ritardo e con l’aria incazzata sbotta: ‘Si cazzi e vecchji dovrebbero ‘ncomare per legge alle 9, massimo alle 10 tiè specie quando rompono i coglioni!, e ncomincianu perché non stai a casa dove vai con chi sei? uffa che rottura. Stasera ho dovuto lottare con mio padre ma alla fine l’ho vinta io. Glielo detto: tu così fai? Vabbò và jiaminunda via!, si và? tutti in macchina viaaa…
Il falò illumina la spiaggia. Le pigne raccolte nella pineta tra la strada e la spiaggia scoppiettano. Frizzanti palline di fuoco brillano per pochi attimi, danzano nel buio e poi si spengono nella sabbia cadendo.
Cori stonati imbrogliano le parole delle canzoni.
Risate, miste ad acuti, urla in falsetto, coprono le corde della chitarra. non sono lì per fare della buona musica. Si sono radunati per divertirsi, stare insieme e magari chissà scoprono i sapori dei primi baci. Qualcuno fuma. Aspira e passa la sigaretta. L'odore dolciastro si spande nell'aria. C’è chi tossisce, qualcun altro ride. Alcuni si rincorrono, mentre le coppie storiche si scambiano baci appassionati nonostante gli amici esternano ilarità giocosa e chiassosi fischi d'incitazione quasi fossero al guinnes dei primati. Dai con la lingua, siii fagli vedere chi sei non farlo respirare ammazzalo d’amore dai…
La luna piena si riflette nelle acque calme dello jonio. La sua luce pallida rischiara qualcosa. Lentamente la macchia si fa più nitida: sembra una barca! No è un gommone grande. No è una zattera, sì una zattera alla deriva. Ma c'è qualcuno là sopra. Guardate si buttano in acqua. Improvviso, un faro illumina la zona. Nessuno può sfuggire. I mezzi della capitaneria di porto controllano i clandestini. Uomini e donne, bambini e qualche anziano sono issati a bordo delle motovedette mentre un elicottero perlustra dall'alto. I naufraghi sono spossati. Ringraziano e chiedono aiuto in un italiano stentato. Il capitano chiede notizie. Nessuno capisce o sa dare risposte. Non si conoscono gli scafisti; forse sono nascosti tra i naufraghi oppure sono scappati dopo averli trainati fin sotto la costa. La solita storia!
Sguardi terrorizzati lanciano grida d’aiuto; si rivolgono speranzosi ai salvatori che li hanno issati su un battello sicuro e per questo confidano nella solidarietà umana. Altrimenti che li avrebbero salvati a fare? Nei luoghi d’origine li lasciano morire se non ci sono le condizioni materiali per poterli mantenere in vita.
Le madri stringono i bambini al petto li avvolgono in una coperta che funge da scialle. Uno scialle grande che in alcuni paesi dell’entroterra come Palermiti ancora oggi copre la testa e il corpo delle poche vecchiette ancorate alla tradizione: “u vancala”! Non posseggono altro; queste le cose di proprietà dopo essere scampati alla mortale traversata: la vita e i vestiti che hanno addosso. Indumenti pratici che non seguono assurde mode ma che sono pensati per sopperire davvero alle esigenze di chi li usa. Gli uomini sono dall'altra parte, con gli anziani e osservano. Osservano guardinghi ma fiduciosi.
Il capitano ha l'ordine di non farli sbarcare per il momento. Ma loro, i migranti, non lo sanno. Credono e sperano che si stia organizzando qualcosa per ricoverarli e nel frattempo qualcuno stringe tra le mani il Tasbeeh, il rosario musulmano dai grossi grani; ci giocherella per scaricare la tensione e ripete incessantemente il nome di Dio per dimenticare tutto ciò che non è Dio. Tutti i migranti sperano di essere accolti e non respinti, perché dai racconti degli avi hanno appreso il sentimento di sacralità che questo popolo nutre nei confronti degli ospiti. Per questo stanno zitti, sanno di essere approdati su una terra accogliente e posto fine alle sofferenze.
Passano le ore. Le fiamme del falò sono basse. I ragazzi guardano in direzione dei naufraghi. Curiosi, aspettano di vederli da vicino per poterli aiutarli a scendere e accompagnarli vicino al fuoco. Nell’attesa qualcuno della comitiva organizza l'accoglienza; esorta gli amici a bussare alle porte e farsi dare beni di prima necessità: acqua, pane, biscotti, latte, qualche coperta o asciugamano. I ragazzi si sono dati da fare e sono riusciti a raccogliere un bel po' di roba.
L'aurora li trova tutti lì, naufraghi e soccorritori. Fermi nello stesso punto. I ragazzi sulla spiaggia attizzano il falò: il freddo della notte si è fatto sentire; sono stanchi ma non vanno a casa. Parlano, si scambiano opinioni:
Chissà poverini quanto avranno sofferto... ma quale sofferto!, quelli vengono qua a rompere le palle a noi, mio padre dice che da quando ci sono loro non funziona più nulla: il commercio non tira perché loro offrono roba che fa cagare a pochi centesimi e la gente pur di risparmiare se la compra; li trovi dappertutto nei cantieri edili, nei campi a raccogliere pomodori... Sì è vero!, ma sai quanto sono pagati? Lavorano 10, 12 ore per neanche venti euro al giorno! Sono impiegati nei lavori più umili e faticosi. I nostri imprenditori li trattano come trattavano noi Italiani all'estero. Ho sentito storie di emigranti che hanno sofferto ogni tipo di vessazioni in Svizzera, Germania, America, Argentina e persino in Brasile. Il dopoguerra è stato un periodo triste per i nostri padri, come lo è oggi per questi poveri cristi che non hanno di che sfamarsi. Ma vuoi mettere la libertà che c’è da noi? Lo sai cosa ha detto uno di questi ragazzi tunisini che sono sbarcato l’altro giorno? Eh? Lo vuoi sapere? Ha sostenuto che qui in Italia può parlare coi giornalisti ma se avesse fatto la stessa cosa al suo paese sarebbe stato preso da casa dalle guardie e chissà che fine gli avrebbero fatto fare! Quello che per noi è scontato per loro non lo è affatto!
Il sole inizia a scaldare l'aria. Qualcuno della comitiva desiste:
Sciiao ragà vado a casa che sennò chi li sente i miei fatemi sapere, ci sentiamo... ssì vabbè sciaoo.

Attorno alle 9 il litorale antistante la spiaggia si anima. Le famiglie scendono a mare come sempre ma davanti ad uno scenario simile, con forze dell’ordine e ambulanze pronte per eventuali emergenze, prima ancora che le forze dell’ordine intimano l’alt, si fermano e rimangono a guardare l’inconsueto spettacolo.
Finalmente il battello si muove ma non per sbarcare i clandestini. Il comandante ha ricevuto un ordine preciso: deve accompagnare i clandestini nel centro di accoglienza di S. Anna, nei pressi di Crotone. La notizia si sparge a macchia d'olio. I profughi confabulano. Il più anziano chiede chiarimenti. Qualche giovane si butta in mare; molti lo seguono. L'acqua ribolle sotto gli occhi attoniti delle donne e dei bambini rimasti sul battello.
Il comandate parla al megafono: tranquilli! State tranquilli! Vi accompagniamo in un centro di prima accoglienza. Non sarete rimandati indietro. State tranquilli. Salite sulle scialuppe! A nulla valgono le sue parole. I migranti sanno bene quale sarebbe il loro destino nel caso di un rimpatrio forzato. Là, da loro, il regime non è così dolce come qualcuno vorrebbe far credere. Carcere duro e morte, questo è il loro destino e di questo sono coscienti. Allora? perché morire da sconfitti? Tanto vale reagire. Sferrare l’estremo abbraccio alla libertà e sperare che non sia l’ultimo.
I più forti riescono ad arrivare a terra; e lì, in braccio alle forze dell'ordine che, dopo avere prestato le prime cure, consegnano un numero ad ogni migrante prima di farli salire sui pullman diretti a Crotone.
È mezzogiorno; nel centro d'accoglienza la mensa è allestita.
I nuovi arrivati fraternizzano con gli ospiti che li avevano preceduti. Finalmente mangiano qualcosa di decente dopo interminabili giorni di digiuni.
Un bimbo dagli occhi celesti e dai riccioli neri tende la scodella per un po' di riso; sembra solo perché non ha madre né padre vicino a sé. È giunto lì, non si sa come e con chi; nessuno l'aveva notato durante la traversata. Il piccolo uomo si siede con gli altri ospiti del centro. Nessuno parla ma si osservano. Portano il cibo alla bocca e masticano lentamente. Chissà cosa pensano. Probabilmente, noi occidentali, nelle loro condizioni, penseremmo di essere estremamente sfortunati; il nostro egocentrismo ci porterebbe a rendere unico il nostro stato come se l'altro, il compagno di viaggio, non vivesse le stesse sofferenze. Vedremmo ostilità inesistenti ovunque e saremmo lì lì per scattare al primo segnale d'insofferenza.
Già, l'insofferenza! Quanto fastidio comporta l'attesa dal medico; l'appello di un esame; il mancato riconoscimento di un diritto elementare a noi, mentre loro, i migranti, stando alle notizie divulgate da loro stessi pare abbiano iniziato il viaggio da circa 8 mesi. Prima nel deserto, poi di nascosto, protetti dalla notte, di città in città fino ad arrivare su una anonima spiaggia del Mediterraneo da dove si scorgeva la Sicilia e parte della Calabria quando c’era bel tempo. Sembrava un miraggio! –racconta un immigrato- ma alla vista della libertà la fatica accumulata fin lì svaniva. E poi, l’imbarco sulla carretta del mare; la traversata senza acqua né servizi igienici.
Mediamente, ad ognuno, il viaggio della speranza è costato 8000 euro. Ottomila euro per viaggiare peggio delle bestie e arrivare in una società altamente evoluta che con moltissime probabilità darà loro pochissime chance.
La democrazia è sulla Carta!, come il diritto alla vita e la tutela delle minoranze etniche; l'ospitalità e la fratellanza. Non si sa quando è iniziato l’errore italiano. Sta di fatto che i principi di solidarietà sono stati soppiantati dall’egocentrismo esacerbato dai media e siccome la televisione italiana la vedono anche in Africa e nei paesi sottosviluppati dell’est, questi pensano all’Italia come a un luogo paradisiaco dove tutti i ragazzi vanno a divertirsi su auto nuove fiammanti e ben vestiti; sempre allegri e spensierati anche se non lavorano mai negli spot pubblicitari e nei reality show. D’altronde se anche i gatti e i cani sono trattati come principini dai padroni premurosi che scelgono il meglio per i loro tesorucci perché per loro, i migranti, che vivono realtà disperate non ci può essere uno spicchio di sole?
Quante storie dietro ognuno di loro; dentro quelle teste dignitose. E quante persone care hanno fissato quegli occhi! Figure che li accompagnano in silenzio. Scolpite nella memoria di ognuno.
Ma torniamo alla nostra comitiva. Giusto in tempo per sentire la nuova suoneria che fa tanto ridere i ragazzi:
Ehi! Ehi! Rispondi c'è un messaggino! Mi chiaaamo viirgoola sono un gattino...
c vdm stsera stss ora stss posto tvttb manù.
Vabbè và a stasera. Sciaoo. Dice Silvia dopo avere letto il messaggino.
Ragà era Manu dice che ci becchiamo stasera al solito posto. Ma voi avete dormito?, io neanche un'ora! Avevo d'avanti quella zattera a pelo d'acqua piena di gente… E smettila cu sta lagna! Finiscila và... 'sta storia mi deprime. E comunque non ci voglio pensare! Pensiamo che è estate! Punto! Pensiamo a divertirci cazzo!, che per la rottura di coglioni abbiamo tempo. Già bastano i miei vecchi a frantumarmeli con le solite menate.... Allora le facciamo 'ste squadre? Dai facciamo la conta: Barby Fede Riki Peppe.... da questa parte con me. E chi perde paga il gelato! No chi perde procura l'erba. Ma và và quala erva!, mi vinna Massimu Ranieri cu l'erva da casa mia, vida duva ai e jira và. Ricogghiati!
La sabbia fine è rastrellata ed il campo di pallavolo delimitato da nastri colorati.
Le squadre si schierano. Corpi più o meno atletici si esibiscono sotto gli occhi distratti dei gabbiani. Le ragazze sfoggiano grazia e allegria e un po’ se la tirano mentre i maschietti vogliono fare vedere il lato passionale della mascolinità con un gioco maschio. I ragazzi sono irruenti. Si tuffano e mangiano sabbia pur di fare punti. Le ragazze limitano i virtuosismi anche perché sotto il sole e sulla sabbia molle non è che si possa fare chissà cosa oltre alle alzate o a qualche sporadica schiacciata. E poi, non sono mica dei veri atleti allenati alla disciplina della palla a volo. Figuriamoci che anche a scuola, nell’ora di educazione fisica, nessuno mai ha impartito lezioni o strategie di gioco. Quello che fanno lo fanno per emulazione, perché hanno osservato i professionisti in azione sui campi dei palazzotti sportivi o perché il compagno appassionato di sport ha suggerito come ricevere o ribattere la palla.
Ma questo per loro non è un problema! Non devono fare nessun campionato e non si devono qualificare per nessuna coppa. Vogliono semplicemente divertirsi e ad ogni punto guadagnato lo sfottò monta goliardico su chi ha subito la penalità.
Ti mbunni ah?! Mancu u vidisti. E comu fai mo vidi nu fulmina e chissi… Ma và và mi è andato il sole negli occhi se nò vedevi…
Il sole picchia. La sabbia si attacca ai corpi sudati. I ragazzi si fermano. Scambiano occhiate d'intesa. Acchiappano un compagno, lo immobilizzano lo infarinano ben bene nella sabbia e via verso il mare: splasc!, tutti in acqua! E in un batter d’occhio l'acqua ribolle attorno agli scalmanati. Lottano; si fanno calate; si rincorrono schizzano e non se ne fregano dei bagnanti stesi sulla battigia che vorrebbero stare tranquilli a prendere il sole.
Basta! Ragazzi smettetela! Intima il bagnino. Disturbate i bagnanti.
Tregua! Basta ragàà vediamo chi arriva prima al motoscafo pronti?
Torna la quiete.
I bimbi fanno castelli di sabbia. La loro pelle è color oro. Un bimbo, accovacciato, riempie con la palettina il secchiello. Aggiunge dell'acqua con l'innaffiatoio; passa il dorso della manina sulla fronte; scosta i capelli e apre due spicchi di cielo su una donna bellissima: mammina è buona adesso la formina? La donna socchiude il libro, tiene il segno col dito e: sì tesoro, credo che dovrebbe andare bene. Vuoi il succo di frutta? No mammina voglio un gelato! Ok, pulisciti le manine che andiamo al bar.
È una bella giornata sulla riviera catanzarese. Il sole è confortevolmente caldo, non scotta. L'acqua del mare è alla giusta temperatura e nel cielo neanche una nuvola. Disteso, sulla sedia sdraio con lo schienale rialzato, un signore osserva la distesa fluida che ha davanti: la calma piatta del mare concilia la riflessione; anzi, acquieta i pensieri, li narcotizza nei riverberi cangianti di una tavolozza ineguagliabile. Una tavolozza che mai nessun pittore seppe comporre con naturale bellezza: l'azzurro cristallino del fondale attrae, afferra per mano e porta la mente a mescolarsi nell'infinito; a raccogliere sogni; interagire; cullare, vezzeggiare e incoraggiare tutta quella miriade di sogni rimasta a metà. Sogni mai nati per pigrizia o perché osteggiati. Sogni infranti; spiaccicati, annichiliti da realtà mistificatrici e mercivendole.
Vogliono bearsi, godere appieno dei sogni che hanno trovato spazi e luoghi per crescere. Sogni che hanno formato uomini e cose.

Il pedalò scivola verso la scogliera di Copanello. A bordo quattro ragazzi, due maschi e due femmine; i maschi pedalano e, alle loro spalle, le compagne battono il tempo. Tamburellano con le mani sui sedili mentre scandiscono secchi uno!, due! Uno! Due!
La spiaggetta di Caminia, tra Pietragrande e Copanello, è accessibile solo via mare; in quel tratto la costa è a strapiombo. Solo pochi fortunati proprietari, che hanno costruito in tempi remoti, possono accedere alla spiaggia via terra; ma anche per loro l’accesso al mare è difficoltoso nonostante abbiano costruito tra gli scogli ripide scalinate che il mare ha mangiucchiato.
I ragazzi spiaggiano il pedalò nella piccola ansa e una volta al riparo da occhi indiscreti compongono le coppie.
Sbocciano i primi timidi inebrianti approcci amorosi dei giovanissimi liceali: lei, timida lascia ciondolare le braccia lungo il corpo esile; lui impacciato, le prende la mano per abbandonarla subito dopo.
Boccioli appena schiusi, le labbra sfiorate da leggeri aliti alla scoperta di territori ignoti. Le giovani membra, scosse da fremiti nuovi, vibrano.
La ragazza si scosta dal contatto giunto ad uno stadio estremo. Scappa via. Singhiozzi, misti a brividi inconsueti, pervadono la sua pelle al primo appuntamento. Lui tenta di fermarla…
Sulla sabbia calda gli asciugamani stesi mantengono il calco informe dei corpi dell'altra coppia. Una coppia storica: stanno insieme dall'elementari. Osservano gli amici e sorridono alle loro timide incomprensioni.
Saltellando sui gradini sconnessi, un bimbetto riccioluto, si avvicina. Sorride e tende la manina. Tieni dalle questa! E porge una rosa al ragazzo. L'imbarazzo è annullato! occhioni sinceri spalancati sul mondo, anticamera di una nuova era, trasmettono amore e annullano le distanze.
Ma le distanze non sono mai del tutto colmate. In amore come in altre questioni che vedono coinvolte più persone le incomprensioni sono sempre dietro l’angolo.
Quante volte abbiamo aspettato e sperato che sia l’altro a chiarire o prendere l’iniziativa. Quante volte ci siamo trovati nella condizione ambigua di supporre, intuire i sentimenti altrui e non abbiamo avuto il coraggio di osare. Cosa ci ha inibito? Chi ha fermato la nostra lingua se non la paura di fare figuracce? Eppure sarebbe così semplice esternare quanto di bello scoppia dentro di noi, ma quella vocina interiore alimentata dai condizionamenti imposti dall’educazione conflittuale ci fa vedere il peccato anche dove non c’è motivo di vederlo. “Scusa, hai fame? Mangia no! È il fisico che te lo richiede! Non c’è niente di male nell’assecondare la natura.” Disarmante! È una motivazione semplice ma disarmante quella di Jennifer, una ragazza congolese arrivata in Calabria per studiare scienze infermieristiche.
Per alcuni le sovrastrutture mentali che ci siamo costruite noi nel corso dei secoli sono incomprensibili, però, a ben guardare nelle culture altrui davanti a certi riti come l’infibulazione rimaniamo esterrefatti. Il maschilismo tribale per mantenere la proprietà sulla donna le estirpa il clitoride e le sigilla le grandi labbra in maniera barbara mediante raschiamento, lasciando un piccolo orifizio non appena la bimba raggiunge la pubertà. Sarà il marito-padrone a deflorarla negandole il piacere del contatto coniugale.
Da noi la forma di dipendenza imposta all’universo femminile è più subdola, la società maschilista, falsamente democratica, lascia intendere una certa apertura mentale nei confronti della donna; e anche se ha teoricamente la possibilità di accedere in tutti i campi istituzionali, dalla politica alla cultura al mondo del lavoro, di fatto è vista come uno splendido animale. Un animale esteticamente perfettibile. Per alcuni la perfezione consiste in una bella testa e per altri in un bel corpo. La bella testa terrorizza gli uomini e le donne, il bel corpo no! Anzi, sempre con maggiore frequenza molte donne ricorrono alla chirurgia plastica per diventare più desiderabili e concupire l’uomo che ragiona col pisello. La storia dei costumi locali è piena di episodi boccacceschi, in Italia come nel resto del mondo e in ogni punto cardinale terrestre gli avvenimenti sono vissuti e considerati secondo l’apertura mentale costruita dalla cultura autoctona.

In Calabria, ma penso anche in altre regioni d’Italia, fino a qualche decennio addietro alla donna si chiedeva l’illibatezza, l’onestà intellettuale nel rapporto con l’uomo, la famiglia e la società. Ecco perché la ragazza della spiaggetta di Caminia si è scostata dal contatto giunto a uno stadio estremo. In lei vivono ancora i rigurgiti di un’educazione che tiene alti i valori dell’amore. È un bene?
Non so se sia un bene ma secondo il cavaliere potrebbe essere un valore aggiunto, in un momento storico come quello che stiamo vivendo. Lo ha affermato più volte nei suoi gratuiti interventi sotto gli ombrelloni degli amici.
E sì; sulla spiaggia si pazzeggia ma si dicono pure cose molto serie. Si tengono i conti ad amici e nemici, si parla male persino dei propri familiari quando intervengono contro i nostri interessi. Sì la società attuale ci ha diseducato parecchio e noi non abbiamo opposto nessuna resistenza. Ma la natura è più forte, resiste agli ultimi assalti dell’uomo;
non vieta e non si oppone agli sfregi che riceve, lascia fare, salvo riprendersi il maltolto a tempo debito, com’è successo lungo i litorali delle coste calabresi martoriati dall’abusivismo edilizio; lungo i corsi dei torrenti, delle fiumare e sui fianchi argillosi delle colline non bonificate.
Si è perso -sentenzia il cavaliere- il sacro timore della natura, il rispetto che l’uomo aveva un tempo nei confronti della madre terra non c’è più.

Nel frattempo i ragazzi, di ritorno col pedalò, dopo averlo riparato sotto la palafitta del lido, si aggirano per gli ombrelloni cercando qualche notizia sul destino dei migranti.
Nessuno sa quale sia stato il loro destino. Non si hanno notizie neanche del bimbo dagli occhi di cielo, anche se qualcuno sostiene di averlo visto.
Più in là, dei writer’s su invito della pro loco stanno cercando di cucire i giorni nel grande affresco della vita insieme ad altri bambini di tutte le razze e età, e in mezzo a loro sembra di scorgere il bambino dagli occhi di cielo; ma non vi è nessuna certezza che sia lui. Qualcuno dice di averlo visto entrare nella casa di Alì. Una casa con la porta sempre aperta per i diseredati, accogliente con chiunque abbia fardelli da depositare, lasciare in conto, per ripartire leggeri verso nuove mete, corroborati dall’amore fraterno di chi ha saputo accogliere.
Alì è un calabrese dalla carnagione scura, eccessivamente mediterranea e in estate, quando il sole indora il suo volto, chi non lo conosce lo scambia per marocchino. Per questo, fin da piccolo, i suoi amici gli hanno affibbiato il nomignolo di Alì.
Alì è pescatore, agricoltore, pastore. Alì è tutto quello che la natura gli permette di essere nei vari momenti dell’anno. Ha un cuore grande Alì! E da buon calabrese si misura e adatta al territorio. Rude e tenace simile ai maestosi fichi d’india con la scorza grossa e piena di spine e dal frutto sorprendentemente energetico oltre che saporito, Alì è a disposizione.
L’accoglienza è uno dei punti d’onore dei calabresi.
Badolato, Riace, Caulonia, la Calabria tutta è luogo adottivo per quanti arrivano dalle terre lontane del nord e del sud del mondo con l’intenzione di porre rimedio alle ansie imposte dalla fame oppure per sfuggire ai soprusi quotidiani che le persone sono costrette a vivere nei luoghi d’origine.

“È molto bello quello che stai facendo. Ma io sono venuto qui per te. Adesso, se sei una persona seria, devi venire tu a Riace, al mio paese”. Queste parole, dette al regista Wenders sulla spiaggia di Scilla dal ragazzo afgano impegnato nel film, “il volo” hanno toccato la coscienza del regista e l’hanno indotto a cambiare la sceneggiatura, a trasformare una fiction di pochissimi minuti, 4 iniziali, in testimonianza artistica, destinata a levare il marchio di clandestinità e conferire ai migranti una cittadinanza attiva.
Non è retorica e neanche uno spot di propaganda. È la testimonianza concreta di un atto solidale cresciuto nella terra calabra. È l’esternazione concreta di un atto d’amore per i deboli.
Sì!, tra chi respinge in mare zattere cariche di bambini, donne, anziani e uomini disperati alla ricerca di un po’ di normalità, preferisco decisamente le braccia aperte di chi accoglie, memore dell’ambage dei nostri padri costretti a lasciare le famiglie per cercare fortuna e accettare lavori umili pur di mandare pochi spiccioli a casa.
Quanti calabresi sono stati costretti ad emigrare, quanti di loro hanno dormito in baracche, quanti, prima di sbarcare e invadere strade sconosciute si sono dovuti mortificare sotto le docce disinfestanti. Volendo trovare una motivazione logica alla nostra propensione, possiamo rifarci alla storia e ricordare il dramma della migrazione o forse postulare la parte romantica del nostro dna e dire che siamo propensi all’accoglienza perché fondamentalmente buoni d’animo. Sì. Indubbiamente è così.
Chi ama veramente la vita non getta in pasto ai pesci le persone disperate, costrette dal bisogno a peregrinare, e, se respinte nei luoghi d’origine, a morte certa.
In un simile variegato potpourri frammisto di creme dopo sole, olii e protezioni fantasiose fatte in casa come il miscuglio usato dalla nostra amica, ricordate?, la signora petulante dalla tintarella quasi totale, quella che per abbronzarsi bene s’infila il costume tra i glutei?, e le parole buttate al vento come fossero coriandoli, passa il tempo tra i bagnanti sulla spiaggia.
Intanto i writer’s continuano a creare atmosfere cromatiche sul lungomare di Montauro. A dirigerli è un uomo magro dai capelli bianchi lunghi, legati con un elastico. Il suo fare mi riporta indietro nel tempo, agli inizi del nuovo millennio, ma andiamo per gradi.

UN NUOVO AMICO

La vecchia fisarmonica ha una voce flebile; il suono che esce dal mantice è quasi un lamento impercettibile. Mi accorgo della presenza dell’uomo dalla sua ombra che mi cade addosso. Alzo lo sguardo: sarà alto un metro e sessanta; cicatrice sulla guancia destra e capelli crespi ossigenati. “Dare tu kualcosa pe manciare crazie”.
Ripete con voce roca. A dire il vero sono pochi i finestrini che si abbassano e le mani che sbucano con qualche moneta per la ragazza che agita stancamente il cestino della questua che segue l’uomo con la cicatrice.
Alla mia destra, il conducente della piccola cilindrata freme; scarica la sua vitalità sui comandi della macchina personalizzata all’inverosimile. È strabiliante vedere fin dove può arrivare l’ego di un ragazzo che vuole farsi notare a tutti i costi. E dire: ecco, questo sono io!
L’egocentrismo giovanile personalizza gli oggetti; li modifica secondo un’intima percezione estetica, che d’acchito può sembrare dissacrante, priva di leggi. Ma, non lo è!, se si considera la giovane esperienza che, in quanto tale, legittima una filosofia di vita uniformante; che li rende tutti uguali; somiglianti all’idolo del momento e al suo sentire, che li correda di simboli e feticci; insomma sono l’appendice naturale di una personalità plurale.
Nel caso in questione, vale a dire del mio improvvido compagno di strada, il suo carattere si manifesta attraverso i colpi che dà all’acceleratore che pare vogliano coprire il volume dello stereo, senza parlare della grinta o dei tatuaggi e dei capelli sparati. Meglio ignorarlo! Perciò dirigo l’attenzione verso il semaforo. Oltre la luce rossa, dall’altra parte della strada, la piazzola del bus è invasa da calchi di gesso dozzinali e piante sempreverdi a dieci euro. Il mercante di statue parla col venditore di piante. Sgasate rabbiose sollecitano il capofila a prepararsi, essere pronto a scattare ancor prima che scatti il verde. Le moto impennano. Scatta il verde. Ingrano la prima. Il serpentone d’acciaio, del quale mio malgrado faccio parte, fa pochi, pochissimi metri, giusto il tempo d’oltrepassare l’incrocio e scrasch s’arresta.
La signora che precede, dopo il primo attimo di smarrimento, reagisce con forza. Estrae il telefonino e spegne il motore, determinata a non spostarsi fino all’arrivo della forza dell’ordine. I clacson impazziscono. Le macchine contromano impediscono ogni tentativo di manovra. Non rimane che aspettare! L’ingorgo aumenta. Qualcuno scende dalla macchina e s’avvicina al luogo dell’incidente. Dal nulla, si materializza un nugolo di ragazzini minuti. Il più piccolo arriva appena al finestrino; si alza sulle punte e bussa al vetro. Fa tenerezza. Nonostante ciò, non abbasso il vetro. Lo osservo mentre disegna cerchi concentrici sul finestrino: le sue unghie contornate da un velluto nero scivolano sulla superficie. Mi sorride! Si gratta i capelli arruffati; strofina la manica sfilacciata sulla bocca e passa oltre. Lo seguo con gli occhi sgattaiolare tra le macchine. Di tanto in tanto si gira, guarda indietro. Attraversa, e ripete le stesse movenze sull’altra corsia. Ormai il traffico è intasato. Il piccolino, si affianca ad un ragazzo più grande; gli sta dietro, chiede qualcosa, poi si discosta da lui e riprende a grattare con la manina sui vetri delle macchine. Il venditore di statue indica un percorso alternativo agli automobilisti che riescono a districarsi dall’ingorgo.
Alcuni automobilisti seguono le indicazioni ricevute dal venditore, imboccano una stradina laterale non asfaltata e dopo pochi minuti ricompaiono qualche metro oltre l’incidente. Seguo il loro esempio. La macchina saltella; le ruote sprofondano nelle buche salgono sulle pietre torcono i bracci; ed io, sballottato da una parte all’altra, faccio fatica a tenere lo sterzo. Qua e là, quasi buttate a caso, lungo il precorso accidentato sorgono delle costruzioni in lamiera e mattoni. Un ruscello putrido attraversa le baracche popolate da marmocchi; qualche cane, un paio di capre e due asini. La stradina finisce davanti l’ultima casupola poggiata al muro di pietre ingabbiate nella rete metallica. Faccio retromarcia; posiziono la macchina, ingrano la prima e mi blocco: un enorme cane rabbioso, sbucato da chissà dove, ostruisce il passaggio. Lui, la bestia, abbassa il muso, digrigna i denti e mi punta. Do gas lentamente; cerco di aggirarlo. Svolto dietro la baracca. Giro l’angolo: cinque viuzze tutte uguali si aprono a ventaglio. Ne prendo una a caso, confidando nella buona stella. Lo scenario non cambia: rottami disseminati dappertutto, carcasse di macchine, lavatrici, ferrivecchi, baracche e la belva che digrigna i denti sempre davanti a me. Le donne sull’uscio mi scrutano diffidenti. Un uomo fa cenno di fermarmi. Freno; abbasso il vetro e: “Cerchi qualcuno?” “No, credevo di sbucare dopo l’incidente che c’è sulla strada ma mi sono perso!”
Il villaggio si anima. Una marea di marmocchi accerchia la macchina. Una donna fa segno che c’è una gomma a terra. Cerco il cane: non lo vedo. Scendo. I bambini m’indicano la ruota. Impreco. Mi guardo attorno diffidente. Apro il cofano. L’uomo m’interroga nuovamente, ma questa volta in dialetto: A sai cangiara? –e senza aspettare risposta, con voce perentoria intima al ragazzo affianco alla macchina: Totò provvìda! Prontamente, Totò, esegue gli ordini. Il cane abbaia; i bambini lo trattengono. L’uomo lo zittisce-.
Il muraglione in cemento grigio a ridosso delle baracche è ricoperto di graffiti e tag.
La faccia oscura del sociale graffia le anonime superfici con parole colme di sonorità cromatica. Anche la baracca dell’uomo è colma di ritmi forgiati dalla tensione creativa di quella corrente artistica definita hip hop; intrecci colorati, messaggi grafici coprono totalmente le pareti. I pezzi, sembrano voler recuperare le relazioni sociali degradate degli spazi urbanizzati rozzamente; ingentilirli con l’estetica provocatoria delle parole urlate, col gesto veloce dell’alfabeto mobile legato all’anarchia creativa dell’anima proprio laddove si sviluppano strategie d’integrazione sociale ma anche di resistenza e disfunzioni culturali. Belli, vero? È la nostra risposta alla dissoluzione dell’individuo, alla lotta per la sopravvivenza, all’integrazione vera e non recitata solo in certe occasioni. –Mi dice l’uomo, leggendomi, probabilmente, lo stupore in volto.- non oso rispondere!
La tag corre sinuosa dal muro alla baracca; le evoluzioni cromatiche sono un chiaro riconoscimento di rispetto e ammirazione di quanti hanno partecipato alla realizzazione del pezzo dedicato ad “Aquila della notte”. La “A”, incisa per tutta l’ampiezza della porta e oltre rivisita i connotati originari di quella che è il simbolo della privacy per antonomasia. È altro! Qualcosa d’indefinito perché in continua trasformazione, piegata dai virtuosismi grafici avvolgenti, dinamici, la porta perde i connotati originali e diventa opera a sé stante; l’uomo la spinge fino ad aprire un varco e m’invita ad entrare. L’atmosfera rarefatta dalla mancanza di un’adeguata illuminazione e dall’odore acre della vernice, genera un déjà vu. Dalla penombra sbuca un esserino minuto: capelli corti e neri; maglione abbondante e jeans enormi col cavallo all’altezza delle ginocchia. Tasche capienti e qualche macchia di colore sparsa qua e là sugl’indumenti.
Lamiere e cartoni graffiati di colore arredano lo spazio interno. Il fermento creativo è vivo, palpabile, forte; t’investe in pieno e ti avvolge in un abbraccio focoso, inebriante. L’esserino ci guarda appena, la nostra presenza non lo distrae dal suo fare e continua a giostrare attorno ad un cartellone pubblicitario divelto dal maltempo.

Non c’è cosa più bella che elaborare un pezzo in tutta tranquillità, anche se, l’atmosfera della notte è tutta un’altra cosa. La scarica d’adrenalina ti spinge a lavorare di getto, non hai tempo per studiare il bozzetto. Sei lì, davanti alla superficie. Tu e lei avvolti dalla notte. È una sfida che esige rispetto. Rispetto per la superficie e per i graffi che ti hanno preceduto. Devi dirigere l’aggressività e trasformarla velocemente nel getto di colore con precisione, senza sgocciolature, in un messaggio immediato che dia una risposta autentica, in contrapposizione alla cultura del divismo imposta dal sistema.
- L’uomo, parla estasiato mentre versa qualcosa in una sorta di bicchiere -. Tieni…Alla salute!
Afferro con qualche perplessità, data la scarsa igiene, il capriccio di latta riciclato ma adibito a bicchiere con maestria e senso estetico estremi, e bevo. Nel portarlo alla bocca, noto che le pareti sono quasi inconsistenti, s’affossano alla minima pressione delle dita, mentre il bordo, rigirato più volte, dà la giusta consistenza al manufatto. Mentre bevo penso di sognare. Di essere caduto come Alice nel pozzo magico e che da un momento all’altro dovrei vedere passare il coniglio, visto che sono già davanti al cappellaio matto. Questo penso nell’atmosfera rarefatta, quasi magica, della capanna tutta colorata.

La base larga, ossigena il liquore mentre il collo stretto trattiene il profumo ed esalta le qualità organolettiche… –Spiega il mio ospite, indicandomi il suo bicchiere di nuovo colmo- …mmh… È un nettare, vero? ‘Na purvhara! Questa volta mi è venuto meglio…veramente ottimo…questo retrogusto fruttato.
-Conferma tra un sorso e l’altro- Vedi, -riprende con aria assorta- noi viviamo un assurdo controsenso: se facciamo i pezzi nei luoghi consacrati dal sistema, questi, sono accettati e immessi nei canali del mondo dell’arte se invece ci beccano a proporre il nostro dissenso su muri o cartelloni pubblicitari, che solo per essere stati eretti diventano un oltraggio estetico nonché morale, allora, siamo dei vandali, siamo degli imbrattatori e dei fuorilegge. E loro?, che inquinano lo scenario urbano con la pubblicità? Loro che nei periodi elettorali incollano facce di cazzo dappertutto che cosa sono? Loro che piantano in maniera criminale queste gigantesche finestre pubblicitarie in pieno centro storico, ai margini di un incrocio pericoloso; ma siccome fruttano soldini non danno fastidio a nessuno neanche quando causano incidenti gravi. In questo caso non inquinano il paesaggio: lo distruggono!, insieme alla percezione estetica del passante…di questo passo l’eutanasia mentale della collettività è scontata! Noi vogliamo evitare che ciò accada; vogliamo evitare la piattezza mentale, noi siamo i paladini della creatività costretti a cercare rifugio nelle foreste delle periferie, noi siamo i novelli martiri perseguitati dall’ingiustizia che occupa gli spazi giurisdizionali. Il nostro fare creativo diventa per loro sporcizia, utopia, fantasia inutile. Ma noi siamo i giardinieri della notte, votati a rimodellare le brutture della giungla urbana nel bosco sacro delle responsabilità estetiche.

Mi fa paura il suo sproloquio, suppongo che sia un pazzo, un esaltato, ma mi contengo, non lascio trasparire i miei pensieri anche se devo fare uno sforzo immane per non scappare.
Poi, alza la testa, tende l’indice in alto e, invitandomi a guardare nella stessa direzione, incalza: vorrei avere lunghe braccia per coprire di colore l’arco del Morandi; graffiare ali d’aria ai suoi piedi e lenire il grigiore del cemento col mio spray… Una notte lo farò! Sì lo farò! Lo voglio illuminare d’amore con colori più belli dell’arcobaleno. I fari, a confronto, impallidiranno; ho già il bozzetto qua, in testa!, ma, non posso confidare in un’impalcatura, devo trovare un metodo per volare da una parte all’altra… Sarà il pezzo della mia vita…” “Aquila oggi parli troppo!” “Hai ragione, è vero! … Lei è Marte, Marte99.” “Ciao!” “Ciao” “Il suo primo pezzo importante lo ha firmato nel 99, in Francia, a Parigi, sulle palizzate del Beaubourg…”
Capelli corvini; occhi neri e carnagione scura. Mento leggermente volitivo. Collo corto ma snello. Fisico asciutto; altezza un metro e cinquanta circa. L’esserino che si cela sotto lo pseudonimo di Marte 99, cambia beccuccio alla bomboletta spray, l’impugna decisa; preme col pollice e il getto rosso corre a coprire campiture larghe e sinuose. Si arresta un attimo, cambia colore, afferra un’altra bomboletta poi un’altra ancora e prosegue. Sembra in delirio, il resto non esiste. Isolata dal resto del mondo, in questo preciso momento c’è solo lei e la superficie da trattare. Avanza, cambia direzione in un susseguirsi di linee nette. Il sibilo s’affievolisce. Un grumo ottura il beccuccio. Marte agita la bomboletta. La biglia d’acciaio percuote le pareti di latta. Il rollio cessa; la biglia tace. Marte capovolge la bomboletta. Preme. Niente! Cambia nuovamente il beccuccio e spruzza ma…esce solo aria. La butta con stizza in un angolo; strofina le mani sulla salopette ed esce. Allarga le braccia, respira profondamente, ruota i pugni nell’aria e s’incammina su un tracciato che punta dritto alla base del ponte.
Le estremità del gigante in cemento armato sono piantate saldamente nei fianchi dei monti: sembra davvero un arcobaleno smunto, imponente ma smunto, ancorato e tenuto fermo sulla terra dai cubi delle basi e dalla volontà degli uomini; mentre la sua ombra, eterea e volubile, si allunga sui pendii fino a sfiorare le baracche sottostanti, sorte chissà quando lungo gli argini della Fiumarella. Qualcuna di quelle baracche forse risale agli anni della costruzione del viadotto sulla fiumarella, progettato dall’ingegnere Riccardo Morandi, inaugurato nel 1962 a soli quattro anni dall’inizio dei lavori. Dal 1958 in poi, quindi, per tutti è il ponte Morandi e nel 2001 diventa “monumento” alla memoria di un illustre personaggio catanzarese, il notaio e senatore Fausto Bisantis.

Non piove da diversi mesi e il carattere torrentizio della Fiumarella è palese. L’esiguo rivolo d’acqua che scorre timidamente forma una pozza alimentata per lo più dagli scarichi domestici, l’acqua è insufficiente per irrigare il campo ma il ragazzo apre ugualmente la chiusa. L’acqua, segue il percorso obbligato dei canali d’irrigazione tracciati dal contadino e colma i cretti dei solchi fino ad arrivare ai piedi dei pochi ortaggi.
Aquila della notte annusa l’aria; osserva attentamente il cielo, da nord a sud: Tra poco avremo la pioggia, finalmente! Sarà poca, ma basterà alla natura. Lentamente, il sole s’adombra. Nuvole grigie coprono la vallata e le prime gocce cadono larghe sui tetti in lamiera delle casupole. I bambini continuano a giocare anche quando l’acquazzone sferza la terra e rimbalza sulle lamiere dei tetti. Il più giocoso dei marmocchi simula di essere la doccia; altri, saltellano nelle pozzanghere. Il cane si scrolla il pelo. Marte, incurante, prosegue verso la base del ponte. Non fa freddo e anche se siamo al dodici d’ottobre l’aria è tipicamente estiva: acquazzone violento e improvviso, vestiti incollati sulla pelle bagnata; mocassini tutt’uno coi piedi bagnati fradici e tanta euforia nella comunità di Marginalia. Dall’altra parte della strada, oltre la baraccopoli, la gente rimane assiepata sotto i portici dei grandi magazzini, aspettando che spiova. Il traffico adesso scorre.

Ecco, il cielo si sta aprendo; tra poco smetterà di piovere. Però, è meglio se ti cambi. Vieni ti do roba asciutta; non sei abituato ai disagi della strada, rischi un’infreddatura. Mi dice Aquila mentre mi porta di peso con sé.
Anch’io, prima, un’esistenza fa, stavo nella bambagia. Avevo perso la voglia di vivere; ogni cosa era scontata: ufficio, casa, chiesa; spesa al sabato per vent’anni, poi, la crisi portò le aziende a segare i rami secchi, proprio così, ci definirono rami secchi; improduttivi, resi obsoleti dalla tecnologia. Cosicché, mi trovai dall’oggi al domani, a cinquant’anni, in mezzo alla strada, senza arte né parte. Realizzai immediatamente l’inconsistenza che corre tra i proclami intellettuali e la cruda realtà. Gli amici sfuggivano. Con garbo ma sfuggivano e quando non potevano farne a meno atteggiavano le labbra ad una smorfia di sorriso e si stringevano nelle spalle…:Hai provato dal commendatore, lui è un uomo potente!, oppure vai dall’onorevole tal dei tali. Cosi dicevano ipocritamente e io, un giorno, Costretto dalle circostanze ci andai, ma ognuno aveva un problema. E intanto i debiti aumentavano: bollette, spesa a credito, libri, vestiti da pagare; fin quando, un giorno, al rientro trovai un biglietto con poche righe all’ingresso di casa: scusami, non ce la faccio a stare in queste condizioni. Non è questa la vita che sognavo. Addio.
Girovagai per casa col biglietto tra le mani illudendomi che fosse uno scherzo, aspettai fino a sera. Lì, ogni cosa mi parlava di lei. Sfogliai vecchi album; rivisitai mentalmente gli attimi spensierati, le seghe a scuola nei giorni tiepidi di marzo, le scampagnate con gli amici. Andai in chiesa, e mentre andavo ripetevo: nel bene e nel male nella buona e nella cattiva sorte. Lacrime di delusione e rabbia scendevano silenziose ad impastare d’acredine le parole appena bisbigliate. Avvertivo appieno l’impotenza dei derelitti, l’inconsistenza degli uomini emarginati dalla società perché senza lavoro. Eppure, fino a poco tempo prima ero un membro della comunità stimato e rispettato. …Come tutto è relativo!
Salii in macchina ma non andai molto lontano. La macchina mi lasciò alla sommità di viale De Filippis. Non tolsi neanche le chiavi quando scesi. Le lasciai attaccate e m’incamminai senza meta; d’altronde che traguardo potevo prefissarmi? Giunto nel mezzo del viadotto Morandi, guardai l’orizzonte; seguii la linea e poi guardai giù a valle, fino al mare, seguendo il solco della fiumarella. Accattivante, il vento, mi scompigliava i capelli; scuoteva le fronde degli alberi sottostanti e, nell’azzurro del cielo, un deltaplano volava alto. Anche un falchetto sfruttava le correnti sul letto del torrente… Sfilai le mani dalle tasche e le infilai nella feritoia della rete di protezione. Aprii il pugno. Le chiavi di casa volarono giù; seguii il luccichio fin quasi dentro le fronde della vegetazione poi, non li vidi più. Rimasi lì non so per quanto tempo ad osservare i misteri della vita e della morte, nello spicchio di cielo sul mar jonio, poi, attraversai il ponte; imboccai la bretella per via Carlo V e girovagai nelle vie del centro fin quando sentii male ai piedi e allo stomaco. Spesi gli ultimi spiccioli per uno sfilatino nella trattoria dei camionisti in piazza mercato e mi trovai a caricare pacchi per un trasloco diretto in Francia. Fu così che decisi di farmi trasportare dal vento e campare alla giornata. In breve, mi unii ai clochard; da loro imparai i segreti della strada ed una notte, sul lungosenna, vidi qualcosa d’inconsueto: un’ombra furtiva si aggirava lungo gli argini della Senna mentre gli emarginati sonnecchiavano riparati dai cartoni questo tizio gesticolava. Era un graffitaro alle prime armi e la tag appena tracciata sgocciolò mortificando l’enfasi creativa del principiante che, intimorito dall’arrivo dei graffitari della zona, scappò lasciando cadere la bomboletta. Allora non sapevo che non sono ammesse intrusioni sulle superfici importanti, lo capii in seguito e capii pure la paura del ragazzo incappucciato che se la diede a gambe all’arrivo della banda che coprì abilmente le sbavature e firmò il pezzo. Capì che nessuno, specie un Toy, può invadere il territorio rivale; solo i pezzi migliori vengono rispettati e quando si raggiunge la completa padronanza esecutiva iniziano le sfide ad alti livelli. Mi piacque la loro filosofia di vita. Non ci sono capi ma Maestri e la maestria deriva dal lavoro fatto sui muri della strada. Ma, torniamo a quella notte:
Raccattai la bomboletta e, incuriosito provai a decorare un grosso masso. Avevo poco a disposizione: la bomboletta, dei tizzoni spenti, pietre e terra. Malgrado la scarsità di mezzi feci una cosetta apprezzabile che, nei giorni seguenti, attirò l’attenzione dei graff. Mi piacque; e, i commenti di quei ragazzi, fecero riaffiorare in me l’autostima. Iniziai, così, a sviluppare progetti visivi per affermare l’esistenza di realtà diverse da quelle stereotipate dai media. Nessuno sospettava di me ed io lasciai montare una storia metropolitana alquanto romantica. Data l’irruenza espressiva, i writer’s credevano che l’autore fosse un giovane pacifista che gridava il suo dissenso visualizzando con veemenza i sogni della giovinezza sui muri parigini. Le bande non proteggevano più gelosamente i rispettivi territori dai graffi estranei ma creavano spazi con dediche per il giovane anarchico. Anche le istituzioni, chiaramente con scopi differenti, si dedicarono al fenomeno: le gallerie volevano l’esclusiva; i sociologi, approfondire gli studi e le forze dell’ordine arginare l’ondata cromatica metropolitana. Iniziò la caccia a “ l’Aigle de la nuit”. Io, non avevo mai firmato i pezzi, ma loro, specie i media, dovevano trovare un appellativo e lo trassero dal “graffio dell’aquila” che feci in omaggio alla mia città in un momento di nostalgia.
Avrei potuto cavalcare l’onda, sfruttare il momento propizio, ma non mi andava di ritornare tra le fila istituzionalizzate dal potere economico; il mio posto era ai margini per mantenere fede ai principi dei giustizieri della notte, dare voce ai vessati e far sgorgare l’allegria dalle brutture urbane rivestendo di colore le colate di cemento. E poi perché mercificare un prodotto che viveva della sua libertà?
Purtroppo, come in tutti i buoni propositi, avevo fatto male i conti:
L’avidità della società mercantile riuscì ad appropriarsi di alcuni pezzi e immetterli sul mercato. Anche il “graffio dell’aquila” aveva spiccato il volo. Ero furibondo! A far precipitare gli eventi contribuì la notizia dell’imminente mostra dei graffiti di Aquila della notte in una nota galleria. E non era finita lì. La foto del fantomatico autore capeggiava dalle testate dei giornali francesi.
A quel punto, dovevo ponderare accuratamente il da farsi: qualsiasi reazione poteva ritorcersi contro di me e la poetica del movimento. Stavo rimuginando una serie di congetture quando mi si affianca un ragazzetto piccolo e minuto, infagottato nella salopette di jeans di non so quante misure più grandi e mi dice risentito:
Quest’usurpazione è una beffa bella e buona! Perché permetti che ti manchino di rispetto? Lo so ch’è tutta una farsa e che sei tu Aquila della notte! Ti ho seguito sai. Non puoi negarlo. Lascia stare l’anonimato e sputtanali tutti questi bastardi!
Non sapevo cosa rispondergli. Mi aveva sorpreso la sua gracchiante insolenza. Oltretutto, c’era qualcosa che non mi convinceva. Non trovavo coerente le movenze aggraziate, il timbro della voce, l’abbigliamento e la sfrontatezza delle parole.
Allora, gliela fai pagare a quei bastardi mercenari? Se vuoi ti do una mano! Guarda ti ho portato delle bombolette…
Ma, ma queste sono le stesse… Allora sei tu che mi lasci le bombolette ma perché per quale motivo?
Tu sei bravo ed io voglio apprendere da te. Me ne sono accorta quella notte che la banda ha cancellato le mie scolature.
“Accorta?” ma sei una ragazza che fai in giro di notte? I tuoi non stanno in pensiero? I miei? E chi li vede, quelli pensano solo a fare soldi! Per loro sono trasparente. L’importante è non creargli casini. Non fargli perdere la faccia con i loro conoscenti per il resto, posso fare quello che voglio. Ma non sono loro il problema, torniamo a noi. Gliela facciamo pagare? Gl’imbrattiamo l’entrata della galleria con la merda…No!, facciamo una cosa più civile, li combatteremo con le loro stesse armi. Posso contattare un’emittente privata…
La pioggia è ancora nell’aria. Non ho minimamente coscienza dell’ora. Ascolto il racconto. Lui, parla lentamente con lo sguardo fisso in un punto. Sopra di noi, maestoso, l’arco del viadotto Morandi/Bisantis accorcia le distanze, ed in basso, tra le sponde della Fiumarella, la vecchia sede stradale d’accesso alla città segue la morfologia del terreno tra salite e discese, tornanti e brevi rettilinei. In fondo, oltre il pontino che unisce le sponde del torrente, si vede la radura spoglia del “bersaglio” usato dai militari per le esercitazioni di tiro e dai ragazzi per le sfide di pallone.
Bene! Ecco, tieni. Porta questo graffio e fallo inquadrare bene dalle telecamere. Di loro ch’è il graffio della vera Aquila!, di anche che non è nella sua mentalità commerciare l’arte della strada. Il messaggio è indirizzato a tutti; e ha motivo d’esistere fin tanto che copre lo spazio pubblico scelto dall’autore, altrimenti diventa semplice decorazione che rasenta l’assurdo estetico al pari dei totem pubblicitari eretti dal sistema mercantile. Ribadisci con forza che solo il legame col territorio conferisce vita e carattere al graffito. Le circostanze in cui nasce e la valenza propositiva sono in relazione strettissima con l’ambiente metropolitano. E, concludi con fermezza: che la smettessero con questa pagliacciata! Ah, un’ultima cosa, non ti fare riprendere dalle telecamere. Non cadere nei loro tranelli.

Com’è buffa la vita! Qualche ora fa, ero alle prese col traffico. Attento e concentrato sul da farsi; ripassavo mentalmente gli impegni della giornata. Fremevo per arrivare in centro ed ora sono qui ad ascoltare le parole di questo vecchio. I bambini giocano, scrivono i loro nomi sui muri grigi delle baracche. Un personaggio singolare è alle prese con una strana struttura in ferro e assembla di tutto, persino un cesso rotto. Intorno a lui spuntano strani oggetti. Esseri surreali sembrano usciti dalla mente annebbiata dei mentecatti e popolano i quaranta metri quadrati del suo raggio d’azione. Marte sta tornando dal suo giro; ha in mano un cespo di lattuga. Aquila continua a raccontarmi della sua vita ed io sto a sentirlo in religioso silenzio. Mi piace ascoltarlo.
Ma mi sbagliai.
 La strategia adottata sortì l’effetto contrario. Il mercante, prese la palla al balzo e montò un evento mediatico incalzante sui palinsesti. Sai quale fu il risultato? Vendette tutto la sera stessa della vernice.
Ero furibondo ma non potevo fare altro. Non avevo voce. Ero un fantasma; perché per la società che dipende dai mass media se non appari non esisti, sei inconsistente. Quindi non ero nelle condizioni di var valere i miei diritti né tanto meno il mio pensiero. Potevo solo logorarmi il fegato, rassegnarmi e soccombere sotto l’insolenza del più forte. D’altronde, non sarebbe stata la prima né l’ultima ingiustizia dei potenti sui deboli, così intascai l’ennesima esperienza negativa degli anni di vagabondaggio e capii che l’impotenza dei deboli non riscatta mai i giusti! E mentre mi piangevo addosso, lei, Marte, energica come non mai, mi sostenne, anzi, mi diede uno scossone. Fu così, che partimmo al contrattacco col linguaggio a noi familiare: il graffito! Graffiammo persino le strade con lo spray. Tanto cos’altro potevamo perdere? I nostri pezzi urlarono la rabbia dell’ingiustizia sociale. Uniti, i writer’s, gridammo a tutta Parigi della truffa fin quando non si sentì più parlare del mercante e del suo degno compare…
Aquila, te l’ho già detto, oggi parli troppo! – lo rimprovera bonariamente Marte mentre ci passa d’avanti con aria tranquilla e si appresta a sciacquare l’insalata sotto il getto d’acqua della fontana comune, che, scrolla ed entra in casa.
Aquila fa una pausa; passa le mani sul volto, solleva lo sguardo al cielo e mettendomi una mano sulla spalla mi dice: Vuoi mangiare con noi? Lo so che per te è inusuale pranzare alle 11; magari a quest’ora sei abituato a prendere l’aperitivo; ma sai noi assecondiamo l’orologio biologico in tutto e per tutto. E senza aspettare che io rispondessi, prende uno scampolo di cotone dozzinale, comprato alle bancarelle del mercato rionale e copre il tavolato a ridosso della finestra.
Il bottiglione impagliato è mezzo colmo di vino e sulla cucina economica alimentata con legna l’acqua in ebollizione trasborda dalla ciotola in terracotta. La ragazza mescola la pasta; ne aggancia un filo con il cucchiaio di legno. L’assaggia. Butta un pizzico di sale. Rimescola e sgocciola gli spaghetti. Unisce un miscuglio di pomodori freschi, olive, cipolline e basilico e riempie i piatti. Aquila, mi porge un peperoncino piccante; versa del vino nei bicchieri e esclama mentre addenta di crudo un corniolo piccantissimo: contiene vitamina c e fa bene al cuore il peperoncino, mangialo! Lo assecondo. Avvolgo la pasta attorno alla forchetta e mastico di gusto: la lingua ed il palato s’infiammano. I “cornioli” sono micidiali. Cerco di spegnere il fuoco col vino. La pasta diventa immangiabile. L’eccessivo bruciore del piccante mi provoca una serie interminabile di singhiozzi. Marte ride.
 Gli angoli degli occhi si contornano di piccole rughe. Cerca di trattenere il sorriso con la mano e, ora, in piena libertà, la sua dizione tradisce origini francesi. Pvrendi, mangia un pezzo di fovmaggio che ti passa! Mi dice. Metto da parte il peperoncino; avvolgo la pasta attorno alla forchetta e mastico insieme al boccone di formaggio. Le lacrime continuano a scendere. Anche il naso mi gocciola. Marte mi guarda e ride in crescendo. Tra le lacrime noto i segni del tempo sul suo viso: non è poi così piccola come sembra! Avrà senz’altro i suoi 35/40 anni! Non è bella. Ha comunque un viso dolce e denota sensibilità d’animo. Sai, anche a me fece quest’effetto la pvima volta che assaggiai il pepevoncino qui in Calabvia. Da noi, in Frvancia, è difficile tvovarne di così piccanti. Fovse dipende dal tevreno. Vuoi un po’ d’insalata? O pvrefevisci dell’altvro fovrmaggio? Sai, all’inizio ti avevo scambiato per uno sbivrvo. Di tanto in tanto vengono a favrci visita. Alcuni sono educati e rispettosi, altvri…rien. Marte fa una pausa. Riprende padronanza. Si alza. Strofina le mani ai jeans. Estrae un astuccio dalle tasche capienti; lo apre. Stende una manciata di tabacco sulla cartavelina, aggiunge una caramella grigiastra. L’avvolge; la sigilla passandola sulla punta della lingua e l’accende. Aspira due, tre volte; la passa ad Aquila della notte e si accovaccia su una vecchia poltrona. Aquila, aspira; trattiene il fumo e la passa a me. L’odore intenso pizzica la gola. Tossisco. La do a Marte. La nuvola s’addensa sopra di noi ad ogni giro e il fumo ristagna nella baracca nonostante porta e finestra siano aperte: contrariamente al solito, il vento non soffia su Catanzaro. Marte e Aquila si scambiano parole in francese. Faccio fondo alle mie scarse conoscenze scolastiche ma, riesco a decifrare ben poco del loro dialogo. Il fumo rende più allegri. …Libertè! Ègalitè! Fraternitè! libertè ègalitè fraternitè... Nous allons Dai canta!…

È sera. Un’intera giornata è volata via in una situazione, per me impensabile, a contatto con una realtà sconosciuta e per certi versi assurda. Il cielo sembra più alto da quaggiù. I lampioni illuminano la trasversale del viadotto sulla Fiumarella ed ai piedi, fasci di luce evidenziano l’arcata snella del Morandi.
Ecco, basterebbero dei filtri cromatici per creare l’illusione ottica giusta. Sarebbe entusiasmante osservare tutte le notti un arcobaleno di luce che s’adagia dolcemente sui fianchi dei colli catanzaresi. Ma credo rimarrà un sogno anche per un’aquila come me…

PERIFERIE

Lavori di riqualificazione urbana, c’è scritto sul cartello piantato all’ingresso del cantiere.
L’intricato intreccio di rovi avviluppa il cartello ormai arrugginito e, in fondo, tra le canne, lo scheletro in cemento armato della struttura comincia a sfaldarsi. I ferri nudi sono ricoperti da uno strato di ruggine. La recinzione ancora resiste, mentre le quattro assi, che incorniciano la rete del cancello d’ingresso penzolano nei vuoti sballottati dal vento. Cumuli di rifiuti, disseminati qua e là, soffocano gli sterpi.

“Lavori di riqualificazione urbana” C’è scritto sul cartello piantato dall’impresa.
Fino a qualche anno fa il prato recintato era un campo di calcio usato abbondantemente dai ragazzi del quartiere; poi, l’amministrazione programmò la costruzione di un complesso sportivo più dignitoso, con strutture d’avanguardia: piscina coperta, campi da tennis, pallavolo sauna. Ma, probabilmente la periferia non interessa, non è appetibile commercialmente, meglio destinare i fondi nei quartieri redditizi, avrà pensato qualcuno; lasciando, così l’ennesimo scheletro di un’opera pubblica incompiuta a tener compagnia all’edilizia economica popolare degli anni ottanta nel quartiere Corvo di Catanzaro.

Nell’angusto balconcino del sesto piano di un palazzo popolare, occupato per lo più dalla padella parabolica, la signora s’abbassa, afferra qualcosa, si alza, flette il busto a destra, poi si appoggia al parapetto, tira a sé la corda e stende i panni. Altro che palestra! Se la signora è costretta a stendere i panni così, altro che stretching. Gli edifici, uno fotocopia dell’altro, rispecchiano teorie e modelli di vita dozzinali. A nulla sono valsi i tentativi d’abbellimento operati dai condomini. Le intemperie hanno sfaldato il colore e l’intonaco dei contenitori d’anime in cemento armato. Il ferro arrugginito riaffiora a vanificare ogni sorta di mascheramento della geometria asciutta di un’edilizia economica e popolare esteticamente triste.
Tra gli ulivi resiste qualche vecchio casolare campagnolo.
Le strade sono deserte. L’eco dei miei passi si diffonde nell’aria. Solo il canto dei passeri mi tiene compagnia. Un randagio zoppica davanti a me con la coda tra le gambe; il gatto dormicchia ai bordi del marciapiede. Strade larghe e vuote su cui si proiettano le ombre statiche dei palazzoni.
Hai presente quei paesaggi sottovetro? La pace stagnante è interrotta dalla volontà di chiunque agiti la bolla di vetro. La violenza con cui è sbattuta rimette in circolo le falde di neve finta. E, i tetti del paesaggio irreale s’imbiancano.
Ecco, l’acquazzone arriva allo stesso modo! Lava l’aria e quanto incontra con inusitata violenza. Cinque minuti sono bastati per trasformare le strade in fiumare. Il cane randagio ha trovato rifugio sotto il portico della chiesa ed il gatto si raggomitola sulla ruota di una macchina.
Il grigio del cielo si apre. Raggi di sole fendono le nuvole. Il vento pulisce porzioni di cielo e spinge il maltempo da nord a sud scoprendo i monti della Sila alla vista. I tetti della città brillano sotto i riverberi del sole; anche le nuvole sono sbiancate. Ora il cielo è terso. L’arcobaleno sovrasta i colli catanzaresi e per un attimo, in controluce, il grigio traslucido del viadotto sulla Fiumarella è assorbito da li colori dell’iride: ecco avverato il sogno di Aquila della notte! –esclamo-
Che strano! Ci affanniamo a progettare, sognare, anteporre ideologie, creare presupposti e poi, in un attimo, la natura ci stupisce con trasformazioni repentine, vigorose e accattivanti. Effetti fantastici nella loro cangiante e rinnovata bellezza.
 
Aquila, artista di strada.
Il gatto salta giù dalla ruota: uno due tre balzi e scompare nel cassonetto dell’immondizia. L’uomo ci gira attorno; valuta gli oggetti accatastati e si sofferma su alcuni pezzi d’arredamento: è la base di un tavolo da pranzo che carica sul motocarro; considerando lo spessore, il piano sembra massiccio e deve essere abbastanza pesante a giudicare dalle smorfie che fa l’uomo. Ma, è Aquila: ehi Aquila! Oh ciao; qual buon vento! Capiti proprio a proposito, dai prendi di là, mi ci voleva una mano…
Sai ti ho pensato un attimo fa quando ho visto l’arcobaleno…Ho pensato al tuo progetto…
Ah già, il progetto…ma ora è passato, sai! Mi sono scocciato! Se dovessi andare dietro a loro e rispondere sempre coi graffi, dovrei approntare un capannone di spray per annullare tutti gli obbrobri partoriti dalle menti bacate, almeno questo è funzionale come ponte e poi è bello! Ho deciso di lasciarlo così. Dai, sali, se no ti bagni. Oggi va così. Avremo sole e pioggia fin quando il vento non avrà spazzato via completamente le nuvole.
Grosse gocce di pioggia si abbattono nuovamente e rimbalzano sulla lamiera del fatiscente treruote. Seguo l’invito. Mi siedo sul sedile ridotto a brandelli. A dire il vero, non c’è niente di integro: il manubrio è riciclato e il vetro del contachilometri manca. L’odore di miscela ammorba l’abitacolo. Aquila s’aggiusta; strappa ripetutamente la leva laterale della messa in moto. Afferra con entrambe le mani la manopola delle marce e ingrana la prima. Sobbalzando, partiamo. La lancetta del contachilometri ha impennate instabili.
Il motofurgone plana nelle pozzanghere melmose. S’inabissa fino all’asse; riemerge, le ruote fanno qualche giro a mezz’aria, la fanghiglia si scrolla, sbatte sui parafanghi e ricade sul terreno. Aquila fa fatica a tenere dritto il manubrio. Si sposta ai margini della strada; rallenta. Affianca il mezzo alla baracca. Uno, due salti ed è dentro. Lo seguo!
L’interno ha un non so che di nuovo. Sembra più arioso… Già! Mancano i cartelloni accatastati. Al loro posto c’è un enorme pannello graffiato di bianco. Al centro, in un vortice cromatico, un grosso chiodo fissa una striscia di carta. Il numero 50.000 rimbomba sulla superficie. Mi avvicino; l’osservo bene: è un assegno un assegno valido! Cinquantamilaeuro! Aquila impugna la pennellessa, l’immerge in un bidone grigio e la passa sopra la gigantografia. Interviene con lo spray. Pochi tocchi e la finzione visiva ottenuta è pregevole, altro che iperrealismo è più vera dell’originale: la gigantesca striscia bancaria copre il paesaggio urbano fotografato che s’intravede tra uno squarcio e l’altro creato apposta da Aquila. vi adagia sopra un lenzuolo da cinquantamilaeuro che cala sopra le case e gli uomini, ne asseconda i volumi, li avvolge in un morbido abbraccio. Aquila evidenzia, pur cancellando in parte la cifra. Firma il gigantesco assegno appena ultimato e butta i pennelli in un secchio, poi gira il pannello ancora fresco di pittura con la faccia al muro; strofina le mani ai pantaloni e prende dalla credenza un pane di grano rotondo, uno di quei pani difficile da trovare nelle panetterie, un pane ben cotto con la crosta rosata; afferra anche una mezza forma di pecorino e li affetta su di un piano improvvisato coperto appena da un tovagliolo e mi indica una sedia. L’avvicino e mi accorgo che è leggera nonostante sia fatta completamente con materiale riciclato. È costruita con maestria e gusto, i ferri non somigliano per niente alle bacchette nervate in uso nell’edilizia. La struttura agile ed elegante è un degno prodotto di design industriale; ma, qui nella baracca, sembra fuori luogo. Estranea al resto che Aquila ha raccattato in giro per le strade vicino ai cassonetti dei rifiuti ma ancora buoni da usare, la sedia sembra davvero fuori posto, quasi una nota stonata, un vestito d’atelier messo a competere sulla bancarella degli stracci. In ogni modo, la sedia è comoda!

Mi ‘ncriscivi ma sentu sempa i stessi discursi. Marta mi fhicia a testa tanta e puru nomma a sentu parrara a lassavi ma fha chiddu chi volia, si l’ho lasciata fare e ha portato un mercante qui a vedere i lavori e questo è il risultato: 50.000 euro! Ci pensi cinquantamilaeuro…chi mi ndajiu e fhara?… che me ne debbo fare?

Permesso? –qualcuno bussa alla porta che, già di suo non chiude- Ciao Renato, come sei cambiato! perché non ti radi la barba e ti metti qualcosa di decente? non è da te stare così …eppure un tempo eri così accorto!
Renato? Si chiama Renato? Finalmente inizio ad avere qualche notizia più intima. Ma questa chi è? Mi chiedo mentre assisto sorpreso all’inaspettata sceneggiata che già s’intravede nell’espressione del viso di Aquila “Renato”.

Chi ti ha chiamato? Che sei venuta a fare ah, già i soldi! Ora sono ricco! Ma vedi… mi dispiace deluderti, io non ho un centesimo, non ci tengo ai soldi. Non ci tengo affatto! Se ti sei rifatta viva dopo tutti questi anni con la speranza di spillarmi soldi, beh… hai fatto la strada per niente perché niente avevo e niente ho. Né più né meno di come quando mi hai lasciato. affrittu era e affrittu sugnu pe’ ttia! vavattinda và. Tornatene dov’eri e lasciami in pace! Via! Esci immediatamente! Non farti più vedere! Vai viaa!

A stento, Aquila, mantiene il controllo. Il mento gli trema. Non pensavo che potesse incazzarsi così. Deve imporsi un enorme sforzo di volontà per mantenere la voce ferma mentre intima alla donna di andarsene.
Lei tenta una reazione prima di varcare la soglia. Balbetta qualcosa ma non si capisce granché; è bloccata sul gradino della porta. Sembra pietrificata. Sapete, come quando da bambini si giocava alle belle statuine e si doveva rimanere fermi quando si pronunciava una certa parola? ecco, lei era così! la mano destra poggiata alla parete, la gamba semialzata e la testa girata all’indietro mentre il resto del corpo era proteso in avanti. Aquila l’afferra da un braccio e la spinge perentoriamente. Poi si accascia sulla sedia e ansima di collera.
Eppure, l’ho amata tanto… -dice con un fil di voce mentre la porta si riapre- Aquila ha uno scatto. Sta per alzarsi incazzato più che mai.
-l’ammazza! penso tra me; e mi appresto a trattenerlo-
Ah! Proprio tu!, arrivi a proposito! Hai visto? Ecco le conseguenze. Sei contenta adesso? L’odore dei soldi ha risvegliato i cadaveri del passato. Era questo che cercavamo? Hai visto quali sono le conseguenze della notorietà? Sciacalli! Sono attratti solo dal benessere economico. Alcune persone sono peggio degli animali. Opportunisti! Opportunisti che venderebbero pure il culo pur di stare bene loro. Gente di merda che non ha un briciolo di dignità. Zoccola… mi ha rovinato l’esistenza e proprio quando pensavo di avere superato lo scoglio eccola che si ripresenta. E già, avrà sentito in giro che mò valgo qualcosa, che i miei lavori valgono qualcosa e si rifà viva.

Scusami, non era certo questa la mia intenzione. Io, volevo solo divulgare e fare conoscere agli altri la tua filosofia di vita, la tua arte…ma, in effetti, hai ragione tu, alla gente non gliene frega nulla dell’analisi evolutiva. Pensa solo ed esclusivamente ai soldi, al benessere. Sono stata una sciocca! Scusami. – si scusa Marte mentre gli passa una mano tra i capelli-
Ma come hai potuto pensare il contrario? Se il nostro modello di vita è in netto contrasto con il loro? I nostri graffi sono la risposta alla cupidigia dei poteri economici eretti sulle meschinità umane! Marte, come hai potuto pensare che un’esposizione di graffi potesse influire a modificare il malcostume alimentato dal becero linguaggio dei mezzi di comunicazione di massa? Hai dimenticato l’esperienza francese? Pare proprio di sì! Comunque basta! Non voglio più parlare di questa vicenda. Per me si chiude in questo momento ogni forma di dialogo con il mondo dei morti viventi. Quando avrò qualcosa da dire lo graffierò sui muri della giungla pietrificata dal potere dei soldi. Ma che fai ancora con quei fagotti in mano? Poggiali da qualche parte e vieni a mangiare qualcosa! Su, stai tranquilla, non ti dannare l’animo, tu non hai colpa. La colpa è di quelli che continuano a credere che conta solo la presenza fisica, la facciata esteriore e si mettono maschere di circostanza per assecondare opportunità economiche personali ma che della cultura non sanno che farsene se non frutta niente. La ricchezza economica per certi individui è più importante dei sentimenti ispirati dall’essenza divina che governa il mondo. Ti spieghi come mai il bambino ama i propri simili a prescindere dall’esteriorità formale? Nero o bianco è la stessa cosa. Lui, non giudica la manifattura del vestito e non fa differenza tra grasso e magro; l’aspetto esteriore, la bellezza fisica è una finzione coercitiva delle menti contaminate dai cosiddetti saperi. Mentre il bambino, fin quando non sarà smaliziato dagli stessi onanismi mentali, suggeriti, appunto, dalla stoltezza delle grandi teste di cazzo, si lascia guidare dalla spontaneità. Per lui semplicità e affetto sono fattori predominanti a prescindere da chi o cosa attrarrà la sua attenzione.
Insomma, voglio farti capire che è la bontà ad attrarre i buoni di cuore, gli eterni bambini perché la bellezza esteriore quella dettata da canoni effimeri appassiona solo gli stolti. I cazzuni dicimu ccà a Catanzaru. Ed io voglio godere del mio stato mentale attuale, voglio continuare a essere un bambino per certi aspetti! e non dannarmi a rincorrere il potere temporale ma gioire delle piccole cose che il buon Dio mi manda!
–conclude segnandosi-

Marte è visibilmente prostrata dagli eventi. Il rimorso per quanto è accaduto le chiude lo stomaco. Scarica la tensione su un cartone pressato. Preferisce scarabocchiare qualcosa piuttosto che mangiare. Accavalla le gambe snelle, vi poggia sopra il cartone e continua a tracciare dei ghirigori nervosi con un carboncino. A nulla vale l’invito di Aquila della notte affinché mangi qualche boccone. Lei, continua nella sua attività. Poi osserva il lavoro attentamente, valuta spazio e forma e apporta qualche modifica. Dopodiché adagia il cartone a terra e fa gocciolare sopra rigagnoli di colore. Ad un certo punto interviene direttamente con le mani e invade la superficie con i piedi. La gonna le dà impaccio, alcuni lembi strofinano laddove non dovrebbero ma lei decisa l’arrotola sulla cintola incurante del colore che le cade sulle gambe nude. La sua è una performance, una danza propiziatoria, gira su se stessa e imprime il linguaggio del corpo nella totale libertà. Dissacra. Prega. Dialoga con l’Eterno. La gonna si srotola, cade fino a toccarle le caviglie, s’attorciglia, si dispiega, lievita. Cade. I piedi mescolano i colori fino a sporcarli e dalle contaminazioni dei gialli, rosso, blu, nascono verdi marroni grigi… Esausta, abbandona lo spazio cromatico. Si allontana lasciando che orme leggere tingano le tavole del pavimento.
Per Aquila è tutto normale e riprende ad alta voce il filo dei ricordi:
“È finito il tempo dei giochi -mi disse mio padre mentre raccattava i giocattoli sparsi nella stanza- ora sei un ometto! Questi li regaliamo ai bambini poveri perché tu devi iniziare a confrontarti con la vita, con i grandi. È giunto il momento dello studio! ora, se vuoi avere un futuro devi studiare. Devi essere una persona colta altrimenti non avrai amici e neanche un lavoro”. Avevo appena sei anni e mi sembrava una punizione ‘sta questione dello studio, e poi mi dispiaceva disfarmi dei giocattoli ma mio padre mi trattava da uomo ed io non potevo deluderlo! con estrema tristezza raccogliemmo i giocattoli, sperando in cuor mio che me li lasciasse tenere a portata di mano nonostante i nuovi impegni; magari in cantina; ma lui non dava segnali di ripensamenti. Mi feci coraggio e gli chiesi di poter tenere un pinocchietto di legno che lui stesso mi portò da uno dei suoi tanti viaggi. Mi guardò benevolo ed acconsentì sorridendo. “Bene! Lo metteremo sulla scrivania, così ti ricorderai delle sue vicissitudini e di quanto dovette lottare per diventare un bambino vero; sappi che la sua storia può essere la storia di chiunque, ognuno, può rispecchiarsi nelle sue tribolazioni: è la metafora della vita e condensa in chiave fiabesca gli ostacoli da superare”. Lì per lì non feci caso alle sue parole, ero troppo dispiaciuto e dentro di me rimbombava una domanda: perché non li posso tenere? Posso studiare e giocare! Perché non si può compiere un lavoro, se pur impegnativo, con la stessa passione del gioco? Che male c’è a divertirsi lavorando? Invece no!, dappertutto vedi facce severe dietro occhiali cravatte doppiopetto, che con fare dottrinale lasciano intendere di avere fatto sacrifici immani per essere quello che sono diventati, e per che cosa poi? per darsi un tono? È tutto fumo! Non ti fidare mai delle persone troppo serie! Mi diceva sempre mio padre. In effetti, lui non aveva questa maschera formale; era un tipo speciale, sempre allegro, disponibile. Allora perché mi privava dei giochi?
Bèh, l’ho capito in seguito, quando insieme all’età variavano le attrazioni, gli svaghi e i concetti di buono e cattivo mi sono stati più chiari quando ho cozzato contro la cattiveria dei gelosi; i colpi di coda e l’ignavia degli stolti che ostacolavano il percorso dei rivali con atti meschini. Ma nonostante i “patuti” come vedi, c’è sempre da imparare, l’esperienza non è mai troppa, si ricade magari per eccesso di bontà, per fiducia mal riposta. In ogni modo, l’importante è capire quando mettere un punto fermo e voltare pagina, vero Marte? Dai adesso basta smettila d’angosciarti; lo so che non era tua intenzione riaprire vecchie ferite…

“Renato!” Per la prima volta sento pronunciare il tuo nome di battesimo. Non ti si addice! E poi, pronunciato da quella donna dalla postura esagerata, avvinghiata da abiti stretti; le sue labbra atteggiate a cuoricino: “Renato” diventa un rimprovero. Quasi uno schiaffo per aver ottenuto il successo senza di lei. Non ricorda di averti abbandonato. Ma, cosa importa il passato, ora è diverso: sei ricco! Secondo lei con una bella rasata e degli abiti nuovi puoi ritornare allo stato appariscente del primitivo Renato…
Ma non dire fesserie! Non dico fesserie!, lei è venuta qui col preciso intento di riappropriarsi di te!, della tua persona. Hai visto com’era agghindata? Com’era provocante?
Litigano. Litigano come ragazzini innamorati. Eppure la loro differenza d’età non lascia intendere tresche amorose. Marte è molto più giovane e suppongo che Aquila delle notte abbia raggiunto la pace interiore che tutti vorremmo non per raggiunti limiti di età ma perché è un uomo saggio e indirizza le energie per realizzare azioni creative. D’altronde quando una persona sta bene con sé stesso e col mondo, sa bene che il vero amore non è quello descritto nei filmetti rosa strappalacrime in cui ogni azione diventa un dramma e le parole non sono mai comprese appieno dagli amanti. L’Amore con la A maiuscola non ti lega a una sola persona e ti fa dipendere da lei ma ti fa Amare il mondo intero con annessi e connessi. L’Amore ti fa gioire della bellezza che ti gira attorno, sempre presente in tutte le stagioni della vita. Credo, piuttosto, che la gelosia di Marte nasca dall’insicurezza dettata, appunto, dall’età; dal divario generazionale che glielo fa vedere come un padre.

È smesso di piovere. Un vento energico spazza via le nuvole. Le masse grigiastre si rincorrono nel cielo; si addensano a sud, verso il mare. Tagli di sole illuminano i muri lucidi dei palazzi arroccati su via Carlo V. La littorina della calabro arranca sulla salita prima di fermarsi alla stazione di Pratica: sembra davvero una lumaca! Certo che l’autore del pezzo graffiato sul locomotore è davvero un perspicace umorista, e poi l’assoluta padronanza pittorica rende la finzione visiva talmente somigliante da visualizzare un’enorme chiocciola preistorica alle prese con un mostro di metallo. È veramente simpatica! Comunica e infonde buonumore.
Bella vera? Sono dovuta andare all’assalto diverse notti. Di giorno me la guardavo da qua. Osservavo bene e valutavo gl’interventi da fare con Aquila; lui, mi ha dato consigli fondamentali. Col suo aiuto ho completato il pezzo prima del previsto ed ho risparmiato qualche bomboletta. Sono davvero soddisfatta. Tu forse non capisci quello che si prova; lo so, è difficile spiegare certe cose a chi non è in sintonia, ma vedi, un tempo, quando Aquila della notte era ragazzo, c’era uno slogan molto in voga, al quale tutti i giovani credevano, e diceva così: la fantasia al potere! Poi, sono cresciuti e se ne sono dimenticati. Peccato! Spero che il tempo non cambi anche me…Guarda ora s’infila nella tana scivola sotto l’industriale, quindi piazza Matteotti e riappare alla fermata del tribunale. D'altronde anch’io sono figlia di una favola: i miei vecchi, sempre in prima linea nelle lotte di classe, partecipavano a tutte le manifestazioni. Era il tempo della beat generation; i figli dei fiori che contestavano la guerra nel Vietnam, del mettete dei fiori nei vostri cannoni, cantata nei cortei e nelle aule occupate… Ecco io fui concepita durante una di queste battaglie in un’occupazione studentesca. L’evento non turbò per niente quei due ragazzi con l’èskimo anzi, quando venni al mondo, insieme al latte ingerii tensioni di democrazie rivoluzionarie: ero presente insieme a loro nei cortei, ai dibattiti…fin quando…bèh peccato!, ma lasciamo perdere ti sto annoiando! Vieni, ti faccio vedere una cosa molto più interessante!
La seguo. Sul terreno un solco scavato dalla porta sbilenca fatta con tavole inchiodate alla meglio non hanno cerniere: l’asse laterale è legato alla parete con del filo di ferro. Marte, sgancia un fermaglio. Tira l’imposta verso l’esterno; la spalanca più che può. Entra cauta. Alza una tapparella e, fatta luce, m’invita ad entrare. Solleva un vecchio telone e: Bello vero? Va be’ ancora è da restaurare ma tu immaginalo come nuovo: brillante con la tromba acustica che effonde i suoni graffiati dalla puntina che gira nel solco dei settantotto giri. Funziona sai? Marte aziona la manovella posta sul lato della cassetta in radica di noce e carica la molla del fonografo. Mette sul piatto un disco nero e spesso grande quanto una pizza; poggia il pick-up sul margine esterno del disco e la puntina, dalla consistenza di un chiodino, inizia a grattare il solco. Pochi giri e una modulazione diseguale sparge le note di un vecchio valzer. Marte segue la musica. inizialmente con le mani e la testa poi roteando il corpo mi coinvolge nella danza. A metà disco, il suono s’affloscia ma riprende con enfasi dopo un paio di giri di manovella.
Marte ridà la carica una, due, innumerevoli volte. È sudata. Siamo sudati. Abbiamo entrambi il fiatone. Il disco non gira più, la stanza si! Le nostre anime sono incollate. Le lingue esplorano con estrema dolcezza i pensieri rimasti sull’orlo della bocca; appesi ad un istante di romanticismo gli sguardi s’incrociano, accarezzano vicendevolmente il volto dell’altro, i capelli, le spalle. La camicia di Marte è attaccata alla pelle. I capezzoli si ergono indiscreti; spingono con forza il tessuto: sono duri, vogliosi. Li sfioro e l’attimo svanisce. Avverto l’odore del sudore, l’aria stagnante del deposito nelle narici e l’umidità che viene da fuori. Anche Marte riacquista il senno. Si scosta. Ricopre il grammofono, abbassa la tapparella e chiude la porta.

A ben pensarci, è difficile razionalizzare il dato erotico quando sorge spontaneo perché è la natura che chiama, urla, esplode in un attimo e fa perdere la testa, ma superato l’attimo, il resto, è un’azione da schifo se non suffragato dal sentimento.
E meno male ch’è così, altrimenti addio passioni perché è proprio l’assenza di una vigilante lucidità coercitiva che fa scattare la libido: la mancanza di freni inibitori spinge la mente a pascolare oltre i confini del comune senso del pudore, e ci sta pure bene fino a quando non accade qualcosa di altrettanto irrazionale da indurre all’analisi. In momenti gradevoli i sensi si accendono e si spengono nell’acme del piacere. Le affinità elettive cantate dai poeti, nella realtà non compaiono o, perlomeno, ancora nessuno ha urlato amore al proprio partner dopo i primi anni di convivenza. Passata l’ebbrezza del primo momento, si urlano in faccia i difetti, le delusioni, le insofferenze; e con tutto il livore accumulato si rinfacciano le sconfitte, si accusa l’altro d’esserne l’artefice, non si cerca più un punto d’incontro, magari, anche attraverso l’atto sessuale, no! A quel punto, il rancore rende estranei e se uno dei due insiste, rischia pure una denuncia per violenza com’è successo ad Aquila della notte qualche giorno prima che la moglie lo abbandonasse. Eppure, sull’altare avevano promesso amore per la vita, finché morte non separi; ma queste sono formule.
Di fatto, al primo ostacolo, l’unione, consacrata davanti a Dio è andata a farsi fottere. La signora è rispuntata dopo un lungo silenzio; famelica come un avvoltoio a carpire i frutti maturati dalla poetica di un linguaggio sofferto, un linguaggio nato e affinato nel vissuto quotidiano a contatto con realtà a lei ignote.
Ma oltre alla sua meschina realtà quante storie si nascondono nell’area metropolitana? Quali sono i pensieri del vicino di casa, del coinquilino, del consanguineo? Solo Dio lo sa. Noi non possiamo fare altro che osservare. Osservare dall’esterno senza emettere verdetti. Semmai ascoltare, se qualcuno ci parla.

Il bus metropolitano, mezzo giallo e mezzo rosso, è bloccato ad una delle fermate del viale Magna Graecia. All’interno, stipati come sardine, i passeggeri difendono le postazioni conquistate; altri, impossibilitati a salire dopo una snervante attesa, si accalcano alle porte, protestano, lanciano accuse bestemmie contro l’amministrazione comunale. Aquila, scavalca l’intoppo: s’infila col treruote tra le palazzine dei ferrovieri e sbuca nei pressi del centro commerciale.
La collina d’argilla, alle spalle del centro commerciale, è fortemente segnata dall’acqua; innumerevoli solchi la fendono. La pioggia ha scavato il terreno molle e scoperto le radici degli eucalipti e ha travasato sull’asfalto mezza collina. Le ruspe ammassano il terriccio melmoso ai bordi del parcheggio illuminato dai fari delle torrette. L’area, debitamente transennata, è interdetta agli estranei.
Oltre il muro di cinta del centro commerciale le lampade a gas illuminano le bancarelle e proiettano ombre irreali nello spiazzo antistante, dove orientali, nordafricani, italiani, polacchi offrono le mercanzie più disparate ai passanti esposte su banchetti empirici allestiti ai margini del feudo della grande distribuzione.

L’odore di Marte me lo sento addosso, piacevole, insinuante. Non mi abbandona! e la qual cosa non mi dispiace affatto! Con somma sorpresa penso a lei alla sua figura insignificante, talmente comune da passare inosservata, come d’altronde è stato fino a un attimo prima del ballo. Strano, sono trascorsi due giorni e sento ancora addosso l’odore della sua pelle!

La lavatrice smette di scuotere la roba nel cestello: ha finito! S può stendere il bucato. Non sono il solo a sciorinare i panni oggi: i balconi sono invasi o stanno per esserlo, come accade di solito nelle giornate assolate. Pare che tutte le casalinghe stiano scrutando il cielo e si precipitano a fare le grandi pulizie. La vivacità di questi frangenti dà la sensazione di vivere una giornata estiva, non tanto per il tepore quanto per il lavorìo che ferve negli appartamenti e le attività che s’intuiscono attraverso gl’infissi spalancati, i tappeti sui davanzali, il rumore delle scope elettriche e le donne discinte impegnate, appunto, nei lavori domestici.
Non credo che Marte si ridurrà mai così come una casalinga qualsiasi; lei è un’intellettuale! Senz’altro dedicherà quel tanto che basta alle incombenze di casa. Magari darà più peso alla crescita interiore all’intelletto; dedicherà la maggior parte del suo tempo ai figli e al compagno… “Compagno” mi dà un senso di fastidio pensare che ci possa essere qualcuno al suo fianco che non sia io; mi starò innamorando? Fino ad oggi non avevo considerato affatto quest’evento. Nei miei programmi di vita non c’è l’unione stabile con un’altra persona: non credo a queste forme di mutuo soccorso; d’altronde la quotidianità è stracolma di menzogne, di cadute di stile, di tradimenti inutili e di miti infranti.
Forse è la sua diversità, l’anticonformismo col quale Marte affronta la vita che la rende speciale; speciale fino al punto di sentirmi male al solo pensiero di non vederla. Non è servito a niente pensare ad altro per minimizzare l’accaduto. Le sensazioni riaffiorano prepotenti e riportano la mente a quegli attimi. All’odore del suo corpo nelle narici, a come mi ha inebriato e fatto impazzire. Ritengo di essermi violentato inutilmente se dopo due giorni ancora tutto il suo essere mi perseguita! Sarei dovuto ritornare e ricominciare; riprendere dal punto in cui abbiamo troncato. Sì da quel preciso momento! Ma niente è perduto, ci vado ora!

Il campo è tranquillo; un cane randagio che accorpa nel suo dna più razze trotterella tra le baracche semideserte. Aquila della notte non c’è, o perlomeno il suo motofurgone non è parcheggiato al solito posto; perciò desumo che sia fuori. Comunque busso alla porta una, due volte. Nessuna risposta. Faccio il giro della baracca sbircio dalla finestra semichiusa ma all’interno non vedo nessuno.
Ehi sono qui! Com’è bella! È più alta; il suo volto è radioso. No, non è più alta è su una pietra, ma è raggiante. Le vado incontro e l’abbraccio. Lei s’irrigidisce; si ritrae dall’abbraccio e dice ferma: mettiamo in chiaro una cosa: io non ho nessuna intenzione di aprire parentesi vincolanti nella mia vita. Quello che è stato non ti autorizza a farti film. Io sto bene così! Non ho bisogno di nessuno. L’altro giorno ero fuori di testa… e comunque, mi andava in quel momento, ma non è detto che mi vada sempre!, l’energia dell’amore preferisco incanalarla nei miei graffiti, d'altronde non c’è stato niente! Se ti và puoi continuare a venire ma come un caro amico e niente di più! altrimenti puoi anche fare a meno di frequentarmi.

Mi ha usato! Mi ha semplicemente usato; io o un altro, non sarebbe cambiato nulla, stata la stessa cosa! Sì perché se afferma che è stato un attimo di sbandamento l’attimo avrebbe potuto averlo con chiunque. Che idiota che sono!
Il cane meticcio annusa gli angoli. Segna il suo territorio, annusa e passa oltre. Un altro cane si avvicina, si annusano, scodinzolano e si perdono oltre i cespugli. Anch’io me ne vado in silenzio. M’infilo in macchina col mio carico di rabbia e lungo la strada incrocio Aquila di ritorno. Lo scoppiettio del motocarro anticipa la visione del singolare mezzo, ormai fuori commercio da chissà quanti anni. Mi metto di lato, sul bordo della stradina per fargli spazio. Si ferma vicino e: Come va? Se hai un attimo di tempo voglio farti vedere una cosa. Dai torna indietro!
Non mi andrebbe, ma per una questione di rispetto gli dico di sì. Ripercorro a marcia indietro i pochi metri fatti. Accosto alla parete di legno e spengo il motore. Aquila, mi fa cenno con la mano. Lo seguo. Vedi! -dice nell’indicarmi dei lavori- È in crisi. Non è da lei fare queste cose, la conosco bene! ‘sto groviglio di colori che imprigionano la colomba, quei rossi… è sintomatico: vorrebbe potersi concedere evasioni sentimentali ma ha paura di soffrire. D’altronde, che vuoi, ha quasi quarant’anni vissuti nella più completa libertà, quindi è normale che chiuda la porta in faccia alle emozioni che la destabilizzano; davanti ad un imprevisto come l’amore si ha paura di sbagliare.
Osservo il pezzo e noto che una scia di colore assume le sembianze di un cuore. Un cuore talmente gonfio che a momenti scoppia, forse per il troppo amore costipato. -mi viene da pensare-. Che però è immediatamente circoscritto da un filo spinato.
Le dobbiamo stare vicini. –esorta Aquila nel prendermi sottobraccio e mi trascina con sé- Vieni, vieni; andiamo a trovarla senz’altro starà dipingendo nella baracca.
Sì, Aquila ha ragione, lei è lì, davanti ad un’enorme tavola, e l’assale quasi fosse una fortezza da espugnare. La battaglia intrapresa da Marte è chiara!, d’acchito si intuisce la veemenza del suo sentire interiore trasmigrare nelle campiture cromatiche buttate con rabbia in un susseguirsi di gesti veloci. I segni grafici s’inseguono, esplodono provocando rapsodie magistrali, grovigli pirotecnici, schizzi sublimi in perenne movimento. C’è tensione emotiva nel pezzo. Ma Marte non sembra soddisfatta. Afferra una bomboletta: vaporizza, crea trasparenze e pone in primo piano un nastro ellittico la cui metà suggerisce di guardare oltre, verso la parte centrale del dipinto. Lo sguardo, non fa fatica ad abbracciare la composizione scaturita dalla sua sensibilità creativa; penetra, sonda, ispeziona e dialoga con l’autrice nell’immediatezza. Sono annichilito di fronte a tanta forte bellezza. Tossisco. Il colore nebulizzato pizzica la gola. L’aria è irrespirabile, ma non so se il lieve disturbo è da imputare al gas delle bombolette o ad altro. L’aria diventa sempre più irrespirabile. Mi precipito fuori. Respiro avidamente. Boccheggio mentre cerco di contenere i conati di vomito che accompagnano l’estromissione dell’aria. La testa mi gira. Aquila mi sostiene da un braccio. Marte mi guarda con apprensione; rientra in casa ed esce con un bricco di latte. Aquila me lo avvicina alla bocca. Non riesco a berlo. Mi siedo su un tronco e respiro lentamente. Piano piano la sensazione di spossatezza scompare; riacquisto i ritmi biologici ma rimane la secchezza delle fauci. Bevo qualche sorso di latte e Marte mi passa un fazzoletto bagnato sulla nuca. Ha dei bei fianchi! -Ce l’ho ad altezza occhi!-. Alzo la testa, seguo la linea sinuosa del suo corpo: la bretella della salopette è calata e il seno turgido modella prepotente il cotone leggero della t-short fin sulle spalle toniche, il collo snello leggermente flesso, sorregge una testolina fiera imbracata nella bandana nera.
Noto una leggera ombra d’apprensione turbare il suo volto bruno; nonostante lei cerchi di nasconderla dietro una maschera d’impassibilità: non vuole esternare l’invocazione d’affetto che trasborda dai suoi occhi. Non indossa orecchini o ori ornamentali; ha solo un laccetto intorno al collo con una placchetta d’oro che s’adagia sul petto, con su scritto “Annalisa”.



I cani randagi trotterellano, seguiti da alcuni bambini, tra le baracche rese vive dai loro rumori e dalle grida di una mamma che chiama il figlio per farle un servigio.

Meglio? M’interrogano all’unisono Marte e Aquila. Annuisco e, costatata la mia ripresa, Aquila si allontana. Tira su le maniche e inizia a scaricare dei vecchi pannelli pubblicitari dal cassonetto del furgoncino. Le stratificazioni cartacee sovrapposte sulle vecchie tavole di masonite inducono a formulare assonanze linguistiche col vissuto quotidiano anche remoto.

Vedete ragazzi, -dice Aquila indicando un pannello- Mimmo Rotella ha avuto un’ottima illuminazione: ha sovvertito le potenzialità di dialogo del prodotto effimero pubblicitario in linguaggio artistico, rendendolo perciò duraturo. Ha saputo creare le giuste atmosfere e a saputo suggerire agli osservatori distratti punti d’osservazione differenti; Mimmo ha saputo indurre le menti a scavare, lacerare idealmente prima di strappare un lembo di carta, scoprire e ricoprire in modo da rievocare un momento particolare legato, appunto, a un dato episodio sopito ma presente nella memoria dei singoli e nei linguaggi collettivi della memoria metropolitana. Un linguaggio metropolitano scontato se vogliamo, semplice e perciò sottovalutato. C’è voluto l’estro creativo e la sensibilità artistica del nostro caro conterraneo Mimmo Rotella per ridestare la poetica e concentrare l’attenzione linguistica, a livello mondiale, e conferire la giusta valenza ai caratteri effimeri del manifesto pubblicitario. Qui, in queste tavole, si vede chiaramente il passaggio del tempo, la storia dei costumi, i modi di pensare, le manipolazioni strutturali ambientali e mentali subite negli anni dai consumatori. Ve la ricordate? Eternit: per l’eternità! E dopo aver inondato l’ambiente di questo prodotto, gli studi recenti ci dicono ch’è cancerogeno! Ora costa molto disfarsene e la gente lo butta dove capita. Quanti danni genera l’avidità umana e l’opportunismo dei singoli! Come se si vivesse in eterno. A proposito d’eternità, Marte, ricordati che non sei più una ragazzina, perciò, vedi di cogliere l’attimo e mangia quando hai fame! Reagisci! Concludi! Prendi una decisione! una qualunque; l’importante che quanto tu decidi non ti faccia rimpiangere qualcuno o qualcosa ma ti faccia superare l’incertezza che ti ha accompagnato in questi giorni. In ogni modo, se vuoi sapere la mia opinione: è da sciocchi perdere il tempo così; perché, poi? Te lo sei chiesto? Ama! Ama senza timore perché non c’è cosa più bella al mondo. Cogli l’attimo …e questo vale per tutti: amatevi ragazzi! perché l’Amore fa bene alla Vita!

©mario iannino

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