A proposito di crisi, politica sociale, povertà e emigrazioni

A testa in giù.


Quando c'era la democraziacristana mangiavamo tutti. “Mangiavi 'nu pocu tu nu pocu eju e nu pocu iddhi...”. È facile sentire frasi analoghe al sud come al nord d'Italia. Ma non possiamo disattendere che la litania, se pur scontata, è il risultato della precarietà sociale che da qualche tempo subiamo.

Tutto sommato, affermazioni simili possono essere intese come il riconoscimento sanguigno e benevolo del proletariato nei confronti della politica della cosiddetta prima repubblica in quanto, tra innumerevoli contraddizioni, diede opportunità anche ai ceti meno abbienti d'impossessarsi della cultura.

La gente comune, quella che ha vissuto i tempi magri sulla propria pelle, quella che non aveva i soldi per comprare scarpe e vestiti ai figli e men che meno giocattoli. In poche parole:
I poveri che gonfiavano le fila del ceto sociale analfabeta composto da contadini, operai e artigiani delle periferie che usciti dall'ultima guerra, gioco forza, si rimboccarono le maniche e lavorarono sodo per se stessi e i loro figli, di sicuro, sorriderebbero davanti alla “nostra” crisi economica.
Non sorriderebbero, invece, davanti alla crisi dei valori che “l'ingegneria economica mondiale” e, nel nostro caso, europea, mette continuamente in discussione, subordinandoli ai profitti.

Le cronache raccontano storie di emigrazioni. Analfabeti catapultati in America, Germania, Svizzera, Argentina, Brasile, Canada e persino in Africa.
Italiani che hanno dovuto legare i sogni con lo spago. Lo stesso spago che legava, sigillando le
"bambole di pezza" pigotte, ph, op. digt
misere cose che avrebbero dovuto lenire i primi sacrifici in terre sconosciute, valigie di cartone e enormi balle di pezza, bagagli portati sulla testa dalle instancabili donne che abbandonavano il duro lavoro nelle campagne calabresi al seguito di mariti o padri costretti a tentar fortuna oltre i confini familiari dei rispettivi paesi.

Papa Francesco è uno dei tanti figli di queste storie, un simbolo che rappresenta la cultura sana delle persone costrette ad emigrare.
Non è per orgoglio nazionalista che cito Papa Bergoglio, non saprei che farmene, e come Lui, altri si sono distinti nei vari campi del fare. Volendo citarli tutti diverrebbe cosa assai ardua. E qui, su questa pagina web voglio ricordare, invece, i molti rimasti sconosciuti alle cronache dei media.

Mi piace pensare agli emigrati che, sì, si sono inseriti a pieno titolo nelle comunità d'oltre frontiere ma che hanno mantenuto, volutamente, vive le tradizioni dei padri che parlavano di onestà, famiglia, lavoro e cultura. Gente che per far studiare i figli, probabilmente, si “costringeva”, cioè, evitava di spendere per sé i pochi risparmi messi da parte con fatica e lungimiranza pur di dare un “futuro” ai giovani.

Mamme e padri che andavano in giro con le pezze ai vestiti rivoltati all'inverosimile. Genitori che passavano indumenti e scarpe dai figli grandi ai piccoli. Mamme che costruivano bambole di pezza per far giocare le femminucce e Padri che insegnavano ai figli come costruire un carro, una spada o un trenino con i rocchetti del filo per rammendi. E figli che sapevano trasformare con la fantasia lo scatolone di cartone in castello o che stando a testa in giù, appesi ad un ramo d'albero, pensavano fosse il massimo della trasgressione.

Adesso, a testa in giù, ci sono i valori della pensiero laico e religioso. E mentre il mondo Cristiano, ad opera del nuovo Papa venuto dalla lontana terra d'Argentina, sta risalendo la china, certa politica sembra non sappia fare altro che crogiolarsi nel litigioso brodo delle accuse reciproche disattendendo  e mortificando le aspettative dei cittadini. 

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