Archeologia di un mondo che non c'è più
"attimi di vita contadina" foto Ledda/Veltri "I braccianti in Calabria" 1983 |
Quando la terra si lavorava con la forza delle braccia e l'aratro era trainato dai buoi i contadini vivevano di stenti e di fatica. In quel tempo l'unico sostentamento proveniva dalla terra e dalle colture che il contadino riusciva a produrre. Perciò, il suo problema non era lo spread o la tassa sulla casa e neanche la macchina e i relativi giochetti strategici di Marchionne. Il contadino pregava la Divina Provvidenza, suo unico concessionario di fiducia, affinché facesse piovere nel momento giusto così da ottenere un buon raccolto e ché non si ammalassero gli armenti, l'asino, le capre, il maiale, le galline.
Il contadino si alzava al levar del
sole e, bardato l'asino, si avviava a controllare il podere sulla
soma del ciuco. Dava l'acqua alle colture attraverso una serie di
ruscelli d'irrigazione che lui stesso scavava nel terreno e
“stagghiava l'acqua” mandava l'acqua dove era necessaria, estirpava le erbacce
infestanti e raccoglieva gli ortaggi e la frutta maturata dal sole.
L'acqua del fiume o della sorgente era di tutti e le regole di buon vicinato, affinché nessuno rimanesse senza, imponevano la turnazione programmata per le innaffiature dei poderi.
Ovviamente i terreni limitrofi ai
pozzi d'acqua, alle fiumare o con sorgenti proprie erano le più
ricche e ambite.
Gli utensili del mondo rurale erano pochi ma necessari: zappe, vanghe, tridenti,
rastrelli, “chjiantaturi” punteruoli autoprodotti con dei rami e
servivano per piantare le giovani piantine. Cesti, panieri e cannicci
per raccogliere e contenere i frutti o essiccarli al sole.
E poi c'erano i cocci per mangiare o
contenere le provviste in salamoia, sotto sale o ricoperti con la
sugna di maiale che in dialetto calabrese si chiamano: salàturi,
'nsàlatera, pìgnata, vòzza.
La brocca, (a vòzza) è un recipiente
di terracotta che un tempo conteneva l'acqua o il vino oggi è un
souvenir.
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