C’era una volta, e c’è ancora
Cambiali, valvole e nepitelle
La consegna sbagliata (che si rivelò giusta e gradita)
C’era una volta.
(antefatto)
Il racconto prende vita dai ricordi della nonna, di una consegna che a lei sembrava sbagliata negli anni della sua giovinezza. Giovane sposa, casalinga e con i bambini piccoli.
Il facchino salì le scale con il tecnico al seguito, trasportando un oggetto misterioso, ingombrante, avvolto in panni e curiosità. Bussarono alla porta della nonna. Lei aprì, guardò il pacco, poi guardò gli uomini. “Dev’essere un errore,” disse. “Qui non aspettavamo nulla.”
Ma non era un errore. Era il televisore. Il primo del palazzo. A valvole, con un solo canale, ma bastava. Bastava a trasformare il soggiorno in sala proiezione, a far sedere i vicini sulle sedie pieghevoli, a far portare le cuzzupe e le nepitelle, gli gnocchetti e i tardiddhi durante i giorni di festa. Bastava a far diventare la casa del nonno e della nonna il centro di una piccola comunità affettuosa.
La nonna, incredula, si voltò verso il tecnico: “Ma è per noi?”
“Sì signora,” rispose lui. “È proprio per voi.”
Il nonno, dietro la porta, sorrideva. Era la sua sorpresa. Lui che amava le novità, che voleva il futuro in casa, che sapeva che la meraviglia non si compra, si regala.
La sera, il soggiorno si trasformava. Le figlie, con gesti precisi, disponevano le sedie in fila. Non a caso. Era teatro. Era rito. Ogni posto aveva un nome, una presenza attesa. “Qua la comare Concetta e il marito Cecè,” dicevano sottovoce. “Qui zia Antonia, là compare Luigi con la giacca buona.” Mentalmente tenevano il conto. Era un censimento affettivo.
La televisione stentava a partire; dapprima il nevischio, poi, lentamente, le valvole riscaldavano e si accendeva come un sipario. Il primo canale bastava. Bastava a far tacere le chiacchiere, a far brillare gli occhi. I bambini si sedevano per terra, le zie portavano le nepitelle, i tardiddhi, le cuzzupe. Il profumo di festa si mescolava al bianco e nero dello schermo.
Le prime trasmissioni erano lente, solenni, quasi liturgiche. Ma poi arrivò Il Musichiere. E fu rivoluzione. La sigla, le canzoni da indovinare, le risate di Mario Riva. Il pubblico del condominio partecipava come fosse in studio. “Attenti, ora parte la musica!” diceva il nonno. E tutti zitti, concentrati, pronti a indovinare. Le figlie scrivevano i titoli su foglietti, le zie commentavano i vestiti delle cantanti, i bambini battevano le mani.
Il nonno, discreto regista, osservava tutto. La nonna, ancora sorpresa, si sedeva in prima fila. Era la sua sala, il suo pubblico, il suo tempo nuovo.
E il mobile, con radio e giradischi, restava lì. Non geloso, ma complice. Aveva visto tutto. E continua a vedere. Non trasmette più canzoni né radiogiornali o evoca immagini, ma conserva tutto: le sorprese del nonno, lo stupore della nonna, le voci del palazzo, le feste condivise. È un archivio di affetti, un monumento domestico alla meraviglia quotidiana.
C’era una volta, e c’è ancora. Basta guardarlo con gli occhi della memoria per sentire il gracchiare delle trasmissioni radio in lingua inglese e le musiche d'oltreoceano che, come per magia, riceveva e irradiava per casa la rivoluzionaria supereterodina attraverso l'altoparlante mono. E quel pick-up grande quanto un pugno, e le puntine che duravano poco.
Non c’era ancora l’invenzione del Black Friday, ma c’erano le cambiali dal negoziante di fiducia. Non c’era il suono ad alta definizione dei lettori CD, ma il gracchiare delle puntine, simili a chiodi, non dava poi tanto fastidio. Anche perché l’orecchio era poco esigente: bastava l’approssimazione musicale a supporto della voce conosciuta di Luciano Tajoli e Nilla Pizzi. Bastava il calore della presenza, la familiarità del timbro, la magia dell’attesa.
Il mobile, con radio e giradischi, restava lì. Non geloso, ma complice. Aveva visto tutto. E continua a vedere. Non trasmette più canzoni né evoca immagini, ma conserva tutto: le sorprese del nonno, lo stupore della nonna, le voci del palazzo, le feste condivise. È un archivio di affetti, un monumento domestico alla meraviglia quotidiana.
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