C'era una volta la fatica quotidiana

 


Mi è capitata sotto gli occhi una foto in b&n: cattura una scena molto eloquente che storicizza la Calabria degli anni della fame, quella di fine dopoguerra e che ancora deve faticare per attingere alle “comodità” della rivoluzione industriale. Racconta di quando ancora si era costretti a ricorrere alle risorse naturali fuori dalle mura domestiche, insomma fare provviste e scorte oggi impensabili, quali: l’acqua da bere e per lavare, la legna per scaldarsi e cucinare, e mi è sovvenuto un ricordo che, gioco forza, si è intrecciato con la storia della famiglia nel bosco.

Quando si dice il caso. Tutto ebbe inizio al pronto soccorso. I tre bambini, intossicati dall’ingestione di funghi tossici furono portati per essere trattati dal servizio sanitario nazionale.

Lì furono attenzionati dai servizi sociali e venne fuori una storia singolare. Non di degrado ma di volontà di vivere allo stato “semibrado” dei genitori che provenivano da oltre Italia. Lei, stando alle notizie diramate copiosamente sui social, pare fosse una sportiva, praticava cavallo fino  a quando una malattia non glielo impedì. Di lui vi sono meno notizie ma entrambi hanno preso la decisione di vivere e crescere i figli come qualche decennio addietro, come se non vi fosse stata nessuna evoluzione tecnica, scientifica e sociale che nell’insieme formano la cultura dei popoli. Ma la cosa assurda, sempre che sia vera, pare che abbiano chiesto al servizio sanitario nazionale 50.000€ a figlio per estrarre loro il sangue a fare gli accertamenti. Tra le stranezze c’è che abitano un vecchio casolare fatiscente, privo di infissi, servizi igienici all’interno, quindi energia elettrica, gas e acqua erogate dal sistema urbano. Perché? Perché nelle condotte dell’acqua si annidano le microplastiche; il resto non saprei, anche se comunque sono serviti da internet attraverso accrocchi tecnici che personalmente ignoro.

Ho una certa età, e ricordo, se pur come un sogno lontano, la festa che facemmo in casa quando arrivò il messo comunale a dire che avremmo potuto fare domanda e avere l’acqua in casa e che, a spese nostre, avremmo potuto allacciarci alla fogna comunale. Non dovevamo più andare a fare rifornimento alla fontana comunale sotto casa e le donne non erano più costrette a fare il bucato al fiume o al lavatoio pubblico. I lavelli per i panni, li ricordo, erano enormi e si trasformavano in ottime vasche da bagno. Le casseruolate di acqua bollente, stemperate con la manetta della fredda erogata dal comune fu una rivoluzione! E la luce, la lampadina rosata, una sola per stanza, accesa alla bisogna lo stretto necessario… e l’orto in cui razzolavano le galline; l’uovo caldo appena “sfornato”; i pomodori, le melanzane e persino anche un piccolo “quadro” di terra per piantare le patate, ogni cosa a misura del fabbisogno familiare.

Quello che hai raccontato è un intreccio davvero interessante e si connota tra cronaca e memoria personale. Da un lato la vicenda dei genitori che scelgono di vivere “semibradi”, rifiutando i servizi e le comodità moderne, dall’altro il tuo ricordo vivido di quando l’acqua e la luce entrarono nelle case come una vera rivoluzione sociale. 

Davvero due mondi a confronto. Da una parte la famiglia “semibrada” che popola il web in questi giorni sembra incarnare una sorta di ribellione contro la modernità, con motivazioni che oscillano tra convinzioni personali (microplastiche, rifiuto della tecnologia) e scelte radicali di vita. È un ritorno forzato a un passato che però non è più quello di una comunità rurale solidale, bensì di isolamento.

E la tua “memoria” che descrivi con calore il passaggio da un mondo di fatica quotidiana (fontane, lavatoi, lampade risparmiate) a uno di conquiste civili. L’acqua corrente e la luce elettrica non erano solo comodità, ma simboli di dignità e progresso. Il paradosso consiste nel contrasto in quello è la tua memoria storica che custodisce la gioia di avere finalmente accesso a servizi essenziali, che significavano emancipazione e loro, invece, che rifiutano proprio ciò che per generazioni è stato un traguardo di civiltà. 

È come se la tua esperienza fosse la prova vivente che il progresso non è un lusso, ma un bene comune che ha migliorato la vita di milioni di persone. 

La storia che hai riportato ci fa pensare: fino a che punto la libertà individuale può spingersi, quando mette a rischio la salute dei figli? E quanto è fragile la memoria collettiva, se qualcuno oggi può considerare “autenticità” ciò che ieri era fatica e privazione? 

Il tuo racconto è prezioso perché mostra il valore delle conquiste quotidiane che spesso diamo per scontate. La lampadina rosata, l’acqua calda miscelata al rubinetto, l’uovo appena raccolto: sono immagini che raccontano un’Italia che ha lottato per uscire dalla povertà materiale e che oggi rischia di dimenticare quanto sia stato difficile arrivarci. 

Qui il passato non è memoria, ma scelta radicale: rifiuto dei servizi essenziali, isolamento, diffidenza verso la tecnologia e la scienza.

È un ritorno a un “naturale” che però non coincide con la vita rurale solidale di un tempo, bensì con una forma di autarchia che rischia di mettere a repentaglio la salute dei figli.

Il paradosso è forte: ciò che per generazioni è stato un traguardo di emancipazione viene oggi rifiutato come contaminazione o perdita di autenticità.

 Il nodo centrale: La tua memoria mostra come il progresso sia stato un bene comune, frutto di lotte e sacrifici. La cronaca attuale solleva domande sulla libertà individuale: fino a che punto può spingersi, se mette a rischio i minori? E ci interroga sulla fragilità della memoria collettiva: ciò che ieri era privazione oggi può essere romanticizzato come “vita autentica”.

Il valore del tuo racconto È una testimonianza preziosa perché ricorda che acqua, luce, servizi igienici non sono lussi, ma conquiste civili. Ci invita a non dare per scontato ciò che ha cambiato radicalmente la qualità della vita in Italia e altrove. E ci mette davanti a un contrasto che è anche culturale: tra chi vede nel progresso un bene comune e chi lo percepisce come minaccia.

Non erano semplici comodità, ma simboli di dignità, di progresso sociale e di appartenenza a una comunità che si stava modernizzando.

Direi che il tuo intreccio è quasi un piccolo saggio antropologico: memoria vissuta e cronaca contemporanea che dialogano e ci obbligano a riflettere sul senso di “modernità” e sul prezzo della libertà.

La tua testimonianza è un affresco vivido della Calabria del dopoguerra, comune al resto del territorio italiano e anche oltre, quando l’arrivo dell’acqua corrente e della luce elettrica fu percepito come una conquista di civiltà.

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