Il Colle chiamato a decidere quando l'Italia chiama
Buon Natale Italia! Il Bel Paese alle prese con il “sì” che divide e i simboli diventano politica.
L’eliminazione dell’esclamazione finale dall’Inno di Mameli riapre il dibattito sul rapporto tra forma e sostanza nell’azione delle istituzioni. Una scelta filologica che molti percepiscono come un gesto superfluo, soprattutto in un momento in cui il Paese chiede ben altre prove di serietà costituzionale.
La decisione di rimuovere il tradizionale “sì!” conclusivo
dell’Inno di Mameli, formalizzata da un decreto presidenziale, è stata
presentata come un atto di rigore filologico: il testo originale di Mameli non
lo prevedeva, e dunque le esecuzioni ufficiali devono attenersi alla versione
“pura”. Una motivazione tecnicamente ineccepibile, ma politicamente fragile.
Perché quel “sì”, pur non essendo autentico, era diventato
autenticamente nostro. Non un vezzo, ma una consuetudine collettiva.
Un’esclamazione che chiudeva l’inno con un respiro di partecipazione, un
piccolo rito condiviso. La sua cancellazione, per molti, non è un atto di
precisione, ma un gesto che ignora la dimensione viva dei simboli nazionali.
Il punto, però, non è solo estetico o emotivo. È politico.
In un contesto in cui la credibilità delle istituzioni è messa alla prova da
comportamenti discutibili di alcuni esponenti pubblici, l’attenzione dedicata a
un dettaglio musicale rischia di apparire come un esercizio di formalismo
autoreferenziale. Una cura maniacale della cornice mentre il quadro presenta
crepe ben più evidenti.
Il decreto avrebbe potuto essere l’occasione per ribadire
con forza l’obbligo costituzionale di esercitare le funzioni pubbliche “con
disciplina e onore”. Avrebbe potuto richiamare chi, nelle istituzioni,
dimentica che la dignità non è un ornamento, ma un dovere. Invece si è scelto
di intervenire su un simbolo che non chiedeva di essere corretto, ma semplicemente
rispettato nella sua evoluzione storica.
La vicenda del “sì” finale è dunque rivelatrice: mostra
come, talvolta, la politica preferisca la manutenzione dei simboli alla
manutenzione della credibilità. E come il Paese, sempre più spesso, percepisca
questa distanza.
Il rischio è che, togliendo un “sì” dall’inno, si finisca
per togliere un “sì” anche alla fiducia dei cittadini.
Il Paese del “sì”
negato.
Mentre l’Italia affronta problemi giganteschi, le
istituzioni trovano finalmente il coraggio di intervenire… sull’unica cosa che
funzionava: un monosillabo gridato alla fine dell’inno.
C’è chi sogna riforme epocali, chi invoca serietà
istituzionale, chi chiede che la politica torni a occuparsi del Paese reale. E
poi c’è chi, con un colpo di genio, decide che la priorità nazionale è…
togliere un “sì” dall’Inno di Mameli.
Un’operazione chirurgica di altissimo profilo: finalmente
possiamo dormire sonni tranquilli, sapendo che nessuno, durante una cerimonia
ufficiale, oserà più pronunciare quella pericolosissima sillaba che minacciava
l’ordine costituzionale.
Il “sì” non era filologico? Vero. Ma nemmeno la pizza con
l’ananas lo è, eppure nessun decreto presidenziale è mai intervenuto a tutela
della tradizione gastronomica. Il punto è che quel “sì” era diventato un
riflesso collettivo, un piccolo sfogo patriottico, un modo per dire: “Ok,
l’inno è finito, possiamo respirare”. Toglierlo oggi, con solennità
burocratica, ha lo stesso effetto di un vigile urbano che multa una bicicletta
mentre dietro di lui passa un tir contromano.
La cosa più ironica? Il decreto avrebbe potuto essere
l’occasione per ricordare a certi rappresentanti pubblici che la Costituzione
chiede disciplina e onore, non solo precisione filologica. Ma evidentemente è
più facile correggere un inno che correggere i comportamenti.
Così, mentre il Paese affronta inflazione, crisi
internazionali, tensioni sociali e un generale senso di sfiducia, le
istituzioni si dedicano alla manutenzione dei simboli. Che è un po’ come
ridipingere la porta di casa mentre il tetto perde acqua.
Il risultato è paradossale: togliendo un “sì” dall’inno, si
è dato un altro “no” alla percezione di serietà. E il cittadino, che già si
sente poco ascoltato, ora ha un motivo in più per pensare che chi governa viva
in un universo parallelo, dove i problemi veri sono quelli che si risolvono con
un tratto di penna.
Ma almeno una certezza l’abbiamo: l’Italia è un Paese dove
si può discutere per giorni di un “sì” che non c’è più. E forse, in fondo, è
proprio questo il nostro inno nazionale.
P.S. Sì, lo so: quella “a” senza h farà sobbalzare più di un esegeta. Ma tranquilli: non è ignoranza, è solo la mia eterna guerra personale con l’ortografia — e per questa volta ha vinto lei. 😏

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