Dimenticanze e dolorosi ritrovamenti
LA SOLENNE GIORNATA DELLE FORZE ARMATE E DELL’UNITÀ D’ITALIA
E IL MIO “NO”, ANCHE DA QUI, ALLA GUERRA
di Franco Cimino
Le cerimonie che gli Stati celebrano nel calendario civile che si sono dati sono una sorta di rito laico che, al pari di quelli religiosi, servono a stimolare la fede e il credo nei valori costitutivi di quello Stato, oppure a rinnovare la memoria su fatti straordinari che lo hanno impegnato lungo il cammino della sua storia.
È comunque sempre un modo per rafforzare il legame tra i cittadini e la nazione.
Per questo le cerimonie pubbliche — dunque i riti laici — rappresentano un valore in sé, particolarmente significativo nel processo di crescita della coscienza civica dei cittadini rispetto al loro dovere di essere “figli anche della patria”.
Hanno anche un compito principalmente formativo, educativo, in particolare per i giovani, ed etico per quanti non sono più giovani e per gli anziani.
Questi riti hanno una forza straordinaria: richiamano memoria, rinnovano sentimenti, generano emozioni profonde. È così in tutti i Paesi.
Si pensi alla bandiera che sventola mentre si ascolta l’inno nazionale, alle parate, soprattutto quelle militari, e alle simbologie che quelle ritualità rappresentano figurativamente.
Uno dei riti laici più importanti per l’Italia è la celebrazione del 4 novembre.
In questo giorno ricorre la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, che celebra la firma dell’armistizio di Villa Giusti, il quale pose fine alla Prima Guerra Mondiale.
Con le Forze Armate si onorano tutti i militari caduti combattendo per l’Italia, tornata unita con la restituzione di Trento e Trieste grazie all’eroico sacrificio dei soldati morti in battaglia, tutti lì, in quella calda trincea in cui lo scontro avveniva alla baionetta, petto contro petto, elmetto contro elmetto.
Anni fa, quando ero ragazzo — e prima ancora bambino — questa giornata era considerata festiva a pieno titolo, con la chiusura di tutte le attività lavorative.
Era talmente importante da rendere felici soprattutto gli scolari e gli studenti, che avrebbero fatto una prima, bella, lunga vacanza nella settimana “dei morti”: quattro giorni di riposo dopo appena un mese dall’inizio dell’anno scolastico (allora il 2 ottobre).
Ma che ci importava del 4 novembre! Noi scolari e studenti pensavamo ad altro.
Ci fermavamo un poco solo per il dolore che si rinnovava nelle nostre famiglie il giorno dedicato ai defunti, quello che ci vedeva tutti uguali, poveri e ricchi, donne e uomini, ignoranti e colti, professionisti e manovali, pescatori e disoccupati.
Era quello il giorno dell’eguaglianza, perché la morte non fa distinzione e il dolore non fa sconti a nessuno per la perdita di un proprio caro.
Cos’era dunque il 4 novembre? Ci importava poco, anche perché ne sapevamo poco o nulla.
A scuola se ne parlava appena, e quella vacanza arrivava quasi all’improvviso, cogliendo tutti di sorpresa — maestre e professori.
Crescendo e studiando ne abbiamo colto il significato e conosciuto il suo richiamo storico.
In questo giorno si celebra, sotto l’egida della festa delle Forze Armate, la fine della guerra del ’15-’18 e la vittoria dell’Italia in quel tragico conflitto mondiale che costò milioni di vite.
Il 4 novembre è il giorno del patriottismo, dello “spirito italico”, come recita un’antica retorica: valori derivati da un eroismo lontano.
Sono ormai centosette anni da quella guerra che pensavamo irripetibile.
Invece arrivarono il nazifascismo e la guerra del ’39-’45, la seconda guerra mondiale.
Anche lì, in tutta Europa e nelle altre parti del mondo coinvolte, milioni di morti.
Questa volta anche tra la popolazione civile, se si pensa a Hiroshima e Nagasaki, completamente distrutte e avvelenate per decenni dalle bombe atomiche sganciate dagli americani.
Americani che poi risultarono, come la storia ha scritto, gli artefici della fine della guerra, i liberatori dei paesi oppressi dalle dittature, i costruttori di un nuovo ordine mondiale insieme alla potente Russia allora alleata, con la quale divisero il mondo in due sfere d’influenza: quella occidentale e quella orientale.
Questa guerra e la sua positiva conclusione vengono da noi ricordate ogni anno, con ardenti ritualità, il 25 aprile, sotto il titolo solenne di Festa della Liberazione: liberazione dal nazifascismo e dalla guerra.
Ma il 4 novembre, attraverso le imponenti parate militari — soprattutto quelle di Roma — richiama più plasticamente l’idea della guerra.
Eppure quel richiamo è, per noi, un “no” alla guerra: quel “mai più” che ha trovato posto nella nostra Costituzione democratica.
E invece, dall’inizio degli anni Sessanta, abbiamo visto crescere in numero e in potenza le guerre nel mondo.
Il fatto che l’Europa occidentale non abbia conosciuto conflitti interni non ci protegge dal dolore di aver visto aumentare la potenza di fuoco e il numero delle guerre in gran parte del pianeta.
Sono decine quelle che devastano, distruggono, uccidono. E non si fermano.
Diverse generazioni di giovani sono cresciute con le immagini sempre più devastanti e orribili delle guerre, che i mezzi di comunicazione ci portano quotidianamente nelle nostre case.
Di questi conflitti, per i diversi interessi politici ed economici in gioco, ne seguiamo solo due, ma entrambi coinvolgono indirettamente molti paesi, anche il nostro, e l’intera Unione Europea.
Tutti partecipiamo alla guerra che la Russia ha mosso contro l’Ucraina, invadendo militarmente un paese piccolo, autonomo e indipendente.
Da tre anni e mezzo ne stiamo pagando un costo altissimo, soprattutto sul piano economico, attraverso l’invio di armi, risorse economiche e intelligence militari.
Che si sia dalla parte giusta o no, l’Italia vi partecipa attivamente.
E anche se si agisce coerentemente ai nostri principi democratici per difendere il diritto internazionale contro tiranni e occupanti — dunque, per quanto si possa essere “nel giusto” — siamo in guerra.
È una guerra comoda, quella vissuta sui divani, davanti al desco familiare, mentre scorrono in televisione le immagini crude di soldati e civili, di donne, bambini e vecchi che cadono sotto i colpi di mitra, cannoni e missili gettati a grappoli dagli aerei.
Immagini di distruzione totale: di città, strade, scuole, chiese, case. Di tutte quelle strutture fondamentali alla crescita economica e civile di un popolo.
Strutture costate anni di duro lavoro e sacrificio a quei popoli.
Sono due anni e un mese da quel tragico, folle e brutale assalto terroristico di Hamas contro gli israeliani radunati ai confini della Striscia di Gaza.
Ne furono barbaramente uccisi circa duemila e sequestrati trecento, tra uomini, donne, bambini e anziani.
Dopo orribili sofferenze, ne sono tornati vivi meno di cento. Degli altri, Israele attende ancora di ricevere i corpi degli ultimi sei.
In questi due anni abbiamo assistito, da parte dell’esercito israeliano — uno dei più potenti al mondo — a una reazione brutale e selvaggia come forse la storia non ricorda. Più di settantamila morti civili, circa trentamila sono i bambini
Completamente distrutto l’intero territorio della Striscia: abbattute tutte le città, non resta in piedi neppure un edificio.
E quella terra fiorente e fruttifera è ora completamente bruciata.
Ci vorranno decenni per rivedere un filo d’erba, e molti ancora per un albero robusto come il popolo palestinese.
Ancora l’orrore non cessa.
Nonostante il risibile accordo di “pace” di trenta giorni fa, sottoscritto solo dagli occupanti israeliani — assenti i rappresentanti ufficiali dei palestinesi — si continua a uccidere, con i due mezzi più inumani che il capo del governo israeliano ha utilizzato: i bombardamenti e la fame, dovuta alla chiusura di ogni valico e strada che avrebbe consentito alle organizzazioni umanitarie internazionali di portare cibo e medicinali. Anche nelle tendopoli dove sono stati ammassati un milione di profughi palestinesi.
Ancora guerre, dunque, nel mondo e a due passi da casa nostra.
Ancora il rischio di una nuova guerra mondiale, se solo uno degli Stati più forti commettesse il più stupido degli errori.
Una guerra mondiale “a pezzettini”, come la chiama Papa Francesco: un nome azzeccato, perché davvero di guerra mondiale a pezzettini si tratta.
A me i riti religiosi e laici sono sempre piaciuti, per i valori di cui sopra ho detto.
E sempre, quando ho potuto, li ho vissuti personalmente, partecipandovi con autentica emozione.
Quella del 4 novembre, da anni, è diventata per me più che una festa: una vera celebrazione di memoria e di rinnovazione di valori.
Memoria dentro di me e valori radicati nel mio petto.
Ma quest’anno, benché il 4 novembre si celebrasse come sempre nella piazza distante appena cinquanta metri da casa mia, non ci sono andato.
Sentivo la musica della banda militare suonare i brani tradizionali di questa festa — “Il Piave”, “Il Silenzio”, l’inno di Mameli — ma non ce l’ho fatta.
È stato più forte di me trattenere nel cuore il dolore per le guerre che si consumano ancora a poca distanza dall’Italia e, ancor meno, dalla Calabria: appena al di là del nostro bellissimo mare, un tempo mare di pace e di civiltà.
Troppi morti, troppi colpi di cannone, troppi aerei, troppo fumo acre di polvere nera, di sudore, di sangue, di carni sbriciolate.
E tutto questo, se guardi bene, si vede anche nel nostro cielo, apparentemente celeste come quello di stamani.
Quelle grida di madri disperate per la morte dei figli e quei pianti assordanti di bambini terrorizzati dalla morte che arriva troppo presto alle loro coscienze ancora in formazione, si sentono anche qui, a Catanzaro.
Sovrastano i passi delle rappresentanze delle diverse forze militari che sfilano in piazza Matteotti e le musiche che si alzano per celebrare quella vittoria lontana e il giuramento che ci impegna a respingere, a ripudiare — come la Costituzione dice — la guerra.
Ma oggi non può essere giorno di festa per una vittoria militare.
Non può esserlo per l’unità del nostro Paese o per la sua liberazione dal tiranno o dallo straniero.
Non può esserlo se ci sono ancora dieci guerre che uccidono, massacrano, distruggono, in diverse parti del mondo, anche a un passo da noi.
Non si può celebrare alcuna forza militare, neppure come forza di difesa della propria terra, se in queste stesse ore popoli vengono violentati nel loro diritto ad avere una patria e una terra propria, o se altri paesi tengono il piede, con gli scarponi del potente, sul capo e sul cuore dei più deboli.
No, oggi non me la sono sentita di andare alla festa.
Franco Cimino
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