Don Achille Gigliotti il prete del Corvo
All’inizio, come in ogni nuovo cammino — che sia un amore, un viaggio o un progetto — ci muoviamo con slancio. Ma se l’entusiasmo non alimenta l’avventura, la speranza di riuscire si spegne, e ciò che doveva essere conquista si trasforma in resa.
L'entusiasmo, una forza invisibile ma potente che spinge
all'azione e a superare le avversità. è ciò di cui eravamo carichi.
Scendere a Corvo dalla città non è stata una impresa
semplice ma la necessità di abitare in una casa propria è stata la forza propulsiva
che ha alimentato la scelta. Non c’erano strade e men che meno le opere ritenute
superflue quando ci sono ma che ne senti la mancanza quando li cerchi e
mancano. Un bar, l’ufficio postale, un negozio, i giardini. La Chiesa!
Pazienza, arriveranno! ci dicevamo convinti.
Siamo stati dei pionieri, non ci sono dubbi. Persino la sede della chiesa non era costruita e le funzioni si svolgevano nei locali odorosi di cemento fresco delle cooperative appena insediate.
Don Achille Gigliotti, il
giovane sacerdote dalla voce profonda trasmetteva fiducia con le sue omelie.
Invitava non all'azione priva di senso suggerita dall'errata interpretazione di
una sorta di "fedazza" popolare ma alla riflessione e al corretto
modello di vita suggerito nelle sacre scritture. ill suo pensiero collimava con
il mio e quando gli proposi una installazione semplice, elementare nella
struttura ma pregna di significato, lui accettò subito. Era una
"provocazione!" Una valigia di cartone con dentro alcuni elementi simbolo
del Natale; l’installazione fu esposta in uno di quei locali improvvisati per
ospitare la funzione della santa messa della Nascita del Salvatore.
l'idea era semplice ma nello stesso tempo
"rivoluzionaria" perché osava riflettere sulle implicazioni commerciali
che le festività religiose portavano e si sono implementate nel tempo:
consumismo, esaudimento di edonistici possessi, quindi regali, feste, baldorie
e con la religione di fianco come se fosse, la natività e ciò che rappresenta,
un calzino spaiato dimenticato in valigia dopo un viaggio e ritrovato per caso.
Ecco, don Achille non temeva confrontarsi, spronava il gregge. E il mio
racconto profondamente evocativo ma autentico è oggi una testimonianza per
ricordare un sacerdote, un uomo, che ho sempre immaginato solo, sofferente di
un a solitudine mai esposta e se pur sorridente con il mondo, la portava dentro
e lo faceva soffrire come ogni uomo costretto a portare la Croce.
Il suo dolore l’ho letto nel linguaggio del corpo, sempre
misurato e nella sua voce profonda quando suggeriva o intimava percorsi differenti
durante gli anni dell’insediamento urbano, un momento di fondazione, di
coraggio e di visione, dove l'entusiasmo iniziale si è fatto motore di
cambiamento.
Il trasferimento a Corvo, con tutte le sue difficoltà, non
solo mie, si trasforma in un atto pionieristico, quasi epico, dove la mancanza
di infrastrutture non ha spento la speranza ma l’ha alimentata sotto la spinta
del giovane prete e dei rispettivi convincimenti sociali e politici.
In quel contesto la figura di Don Achille Gigliotti emerge
come un faro spirituale, capace di guidare non con dogmi ma con riflessione e autenticità.
La sua voce che non necessitava essere amplificata, le omelie che invitavano
alla consapevolezza, e la sua apertura all’arte come mezzo di provocazione e
meditazione sono elementi che rendono la sua parola ancora più potente nel
tempo.
Lo ha dimostrato quell’anno lontano in cui ancora si
celebrava messa negli spazi improvvisati. E la valigia di cartone con il
calzino spaiato è un’immagine poetica e destabilizzante all’interno della
funzione religiosa. Un gesto artistico che rompe la retorica del Natale
consumistico e ci riporta al senso originario della natività: fragilità,
viaggio, povertà, speranza. Quel calzino dimenticato diventa simbolo di ciò che
è trascurato, marginale, ma forse più autentico.
La denuncia del consumismo che accompagna il Natale come festa
svuotata di senso, dove la religione rischia di diventare un accessorio fa il
paio con la morale corrente.
Don Achille: la voce che ci manca
Ci ha lasciati dopo una lunga lotta contro un male che non
ha avuto pietà. Ma non è il dolore fisico che ricordo oggi. È la sua voce.
Quella voce che riempiva i locali ancora grezzi delle cooperative, quando Corvo
era solo un sogno di quartiere. Quella voce che sapeva accarezzare e scuotere,
che parlava di Dio come si parla di un amico, che non imponeva ma invitava.
Don Achille era presenza. Era sguardo, era ascolto, era
silenzio che diceva più di mille parole. ma anche "fustigatore". Era il prete che accettava una valigia
di cartone come simbolo del Natale, perché capiva che la fede vera nasce nel
disordine, nella povertà, nel calzino spaiato dimenticato dopo un viaggio.
Quell’installazione, semplice nella forma ma potente nel
significato, fu esposta in uno dei locali improvvisati dove si celebrava la
messa. Dentro la valigia, alcuni oggetti quotidiani e un calzino spaiato: un
gesto artistico, una provocazione, un invito alla riflessione. Don Achille non
solo la approvò, ma la fece sua. Disse che era “necessaria”, perché ci
costringeva a guardare il Natale con occhi nuovi, lontani dal consumismo, dalle
luci artificiali, dai regali imposti. Ci ricordava che la natività è anche
dimenticanza, viaggio, precarietà. E che Dio nasce proprio lì, dove nessuno
guarda.
Oggi, quella voce si è spenta. Ma non il suo eco. Lo
sentiamo ancora tra le mura della chiesa che ha visto crescere, tra le mani che
ha benedetto, tra le lacrime che non ha mai avuto paura di mostrare. Lo
sentiamo nei dubbi che ci ha insegnato ad accogliere, nelle domande che ci ha
lasciato in eredità.
Don Achille non era solo un sacerdote. Era un uomo che ha
scelto di stare, di restare, di costruire. E ora che non c’è più, ci accorgiamo
di quanto ci abbia insegnato a vivere.
Grazie, Don Achille. Per ogni parola, per ogni gesto, per
ogni silenzio. Ci manchi. Ma ci sei.

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