Un po' di storia dell'arte
riflessioni
Cammino tra le strade di una città che sembra aver dimenticato il peso della memoria. I muri, un tempo custodi di voci e colori, oggi sono lisci, levigati, pronti a ospitare pubblicità effimere e messaggi di consumo. Eppure, sotto quella superficie, pulsa ancora la forza dell’immagine narrante: la pittura che racconta, che denuncia, che resiste.
Viviamo un’epoca di rottura. L’etica e la morale sono
derise; concetti “vecchi”, accantonati come oggetti inutili. Ma ciò che è
antico non è mai davvero inutile: proprio quando sembra superato, diventa
strumento di contrasto. Così l’arte, che molti vorrebbero relegare a puro
ornamento, si rivela arma di resistenza.
La figurazione, con la sua immediatezza, imprime nella
memoria collettiva simboli che non si cancellano. I murales di Diego Rivera, la
*Guernica* di Picasso: immagini che hanno trasformato tragedie e lotte in icone
universali. Non estetica fine a sé stessa, ma linguaggio politico, gesto di
opposizione lontanissimo dalle “valutazioni” correlate alla maestria del
mestiere pittorico. Anche se c’è chi ancora ama l’odore della trementina e il
rumore delle setole dei pennelli sulla tela e lo eleva ad atto catartico contro
gli stress moderni. Niente da eccepire! Anche se una corrente di pensiero la
ritiene una pratica inutile dal punto di vista della ricerca nel campo delle
arti figurative attente ad latri linguaggi
La figurazione non è l’unica voce attuale e la storia dell’arte
lo testimonia. Kandinsky, con le sue astrazioni, ha dimostrato che il segno e
il colore possono scuotere interiormente più di mille parole. Joseph Beuys ha
trasformato la performance in atto politico, dimostrando che l’arte non ha
bisogno di figure riconoscibili per incidere sulla coscienza.
Nell’era digitale, la pluralità di linguaggi amplifica la
denuncia: il messaggio può passare attraverso un glitch, un collage
polimaterico, una manipolazione fotografica che smaschera le contraddizioni del
presente. La pittura narrante diventa contrappunto lento e profondo, mentre le
opere dematerializzate si diffondono nello spazio virtuale, raggiungendo luoghi
e coscienze al di fuori dei circuiti ufficiali.
L’arte, in tutte le sue forme, diventa dispositivo di
sabotaggio simbolico. Non buonismo, ma opposizione attiva e creativa. È un
grido contro l’arroganza dei forti, contro i traffici sporchi e i profitti
illeciti. È memoria che resiste, immagine che denuncia, gesto che
emancipa.
In un mondo dominato da immagini superficiali e consumabili,
l’arte riafferma la sua funzione critica. Figurativa o astratta, digitale o
performativa, essa non si limita a decorare: scuote, destabilizza, apre spazi
di libertà. È l’etica della resistenza che si fa visione, colore, materia. È la
voce che non tace, il segno che non si cancella, la coscienza che non si
arrende.
Riflessioni sui “linguaggi mutevoli” dell’arte
La città contemporanea, segnata da processi di consumo e
omologazione, sembra aver smarrito la memoria storica inscritta nei suoi spazi.
I muri, un tempo custodi di narrazioni collettive, oggi si offrono a messaggi
pubblicitari effimeri. Tuttavia, l’arte continua a costituire un dispositivo di
resistenza simbolica, capace di riaffermare valori etici e politici in un
contesto che tende a marginalizzarli.
La figurazione ha svolto un ruolo centrale nella costruzione
della memoria collettiva. I murales di Diego Rivera, con la loro funzione
pedagogica e sociale, e la *Guernica* di Pablo Picasso, icona universale della
tragedia bellica, dimostrano come l’immagine possa trasformarsi in linguaggio
politico. In questo senso, l’arte figurativa non si limita a un’estetica
contemplativa, ma diventa strumento di opposizione e coscienza critica.
La modernità ha ampliato il ventaglio dei linguaggi
espressivi. Wassily Kandinsky, attraverso l’astrazione, ha mostrato come il
colore e la forma possano incidere interiormente senza ricorrere alla
rappresentazione mimetica. Joseph Beuys, con le sue performance, ha ridefinito
l’arte come “scultura sociale”, sottolineando la dimensione politica e
comunitaria del gesto artistico. Questi esempi attestano che la resistenza
estetica non si esaurisce nella figurazione, ma si estende a forme sperimentali
e concettuali.
Un contributo significativo alla riflessione contemporanea
proviene da Mario Iannino, artista calabrese attivo da oltre mezzo secolo. La
sua ricerca, espressa nella mostra *Linguaggi mutevoli* (Catanzaro, 2024),
esplora la relazione tra “studio semantico e poesia visiva”, sottolineando come
l’arte debba sublimare ciò che comunica e ciò che emoziona. Nei suoi lavori
polimaterici e digitali, Iannino affronta la “dematerializzazione dell’opera” e
la stratificazione visiva come strumenti di resistenza simbolica, capaci di
trasformare frammenti di consumo e tracce di memoria in narrazioni
critiche.
In testi come *Segno, gesto, figurazione. Saggezza e utopia
nei linguaggi dell’arte* (2006), egli ribadisce la centralità del segno come
veicolo di coscienza e opposizione. La sua ricerca conferma che l’arte, anche
nell’era digitale, mantiene una funzione etica e politica, opponendosi alla
superficialità del consumo visivo.
In sintesi, la creatività, in tutte le sue forme, l’operazione
artistica si configura come sabotaggio simbolico. Essa non si limita a
decorare, ma destabilizza, interroga e apre spazi di libertà. La sua funzione
critica si oppone all’arroganza dei poteri economici e politici, riaffermando
l’etica della resistenza come principio fondante. L’arte diventa così memoria
attiva, gesto emancipativo e coscienza collettiva.
La dialettica tra figurazione, astrazione, linguaggi
digitali e ricerche come quelle di Mario Iannino mostra come l’arte, lungi
dall’essere un mero ornamento, continui a svolgere un ruolo politico e sociale.
Essa riafferma la necessità di un’etica della resistenza che, attraverso
immagini, segni e performance, contrasti la superficialità del consumo visivo e
restituisca alla collettività strumenti di consapevolezza e opposizione.
La riflessione sull’arte come pratica di resistenza trova un’eco potente nelle parole di Jean Dubuffet, teorico e fondatore dell’Art Brut. Egli sottolineava come la vera forza dell’arte risieda nella sua capacità di emergere fuori dai circuiti convenzionali, lontano dalle logiche del consumo e dalle imposizioni culturali. In questo senso, l’Art Brut diventa un paradigma di autenticità e opposizione, un linguaggio che restituisce dignità alle forme espressive marginali e spontanee, ribadendo la funzione sociale e politica dell’immaginazione.
La citazione a J. Dubuffet è d'obbligo. E' la chiusa ideale per ribadire che: l’arte, sia essa figurativa, astratta, digitale o “bruta”, continua a essere un atto di resistenza e consapevolezza, capace di scardinare le abitudini visive e di aprire spazi di libertà collettiva.
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