Libertà, lavoro tra sfruttati, emancipati, lobby e capitale
Il lavoro non sempre rende liberi.
Anzi, quando non emancipa dalla fatica e dalla schiavitù del
salario, è sofferta costrizione per quanti sono costretti a servire
cattivi padroni.
Gli schiavi di esseri umani continuano
ad esercitare il macabro mercato. Le organizzazioni sindacali sembra
che, in funzione della nuova organizzazione del lavoro e per limitare
i danni connessi, abbiano ceduto terreno e conquiste alla classe
dominante, alle lobby e al capitalismo selvaggio.
Le nuove realtà sociali im-produttive
si chiamano: lavori socialmente utili, esodati, cassintegrati,
disoccupati di lungo e medio termine, sfruttati, lavoratori in nero o
del sommerso, braccianti immigrati, collaboratrici domestiche,
badanti.
È un esercito sconfinato che vive ai
margini della miseria composto di donne, bambini e uomini giovani e
vecchi che affronta con piccoli espedienti le giornate. Giorni che si
ripetono uguali; ore che scandiscono enormi sacrifici. Persone che
forse non hanno mai avuto modo di conoscere il pensiero filosofico di
pensatori e sindacalisti e le lotte culturali di quanti hanno messo
al servizio degli sfruttati il loro impegno.
Il lavoro svolto per necessità non è
liberazione ma sottomissione, sfruttamento, asservimento al dio
denaro! E se, come si dice, il denaro è lo sterco del diavolo,
meglio tenersi lontani! Essere Angeli! Creature emancipate, che usano
il loro tempo terreno al meglio. Impegnandosi in attività
gratificanti. Solo così il lavoro è libertà. Liberazione dalle
pastoie capitalistiche. Dallo sfruttamento. Dalla sottomissione
ricattatoria imposta dalla teoria del consumo veloce alla quale ci
siamo adeguati con estrema mitezza.
Negli anni, dalle prime lotte per
conquistare il diritto di lavorare 8 ore al giorno e avere
corrisposto un salario garantito e adeguato (?), molte conquiste
sociali sono andate perse per favorire le pretese di certi
imprenditori e di certa politica.
Oggi paghiamo lo scotto. E lo paghiamo
tutti. Dipendenti. Bisognosi. Benestanti. Imprenditori!
Esserci appiattiti sulle ovvietà.
Diventare cacciatrici e cacciatori di “like”. Esporre il lato b o
due canotti ben gonfiati dal chirurgo plastico: apparire piuttosto
che essere! Non poteva durare in eterno. Alla fine arriva il conto. E
che conto!
È ancora possibile augurare e
augurarci un buon primo maggio? Per il presente e il futuro?
Riusciremo a ritrovare il filo logico del pensiero positivo che
lascia sì spazi al divertimento e alla spensierata visione goliardica
della movida, alle piazza piene; agli stadi pieni. Ai concerti
affollati! E alle rappresentazioni culturali in generale senza il
timore del contagio? Riusciremo a relazionarci senza dare peso alle
esteriorità? Ai titoli. Alle griffe che portiamo addosso?