Conservare senza celebrare

La tombatura visiva come pratica di testimonianza





La materia come testimone: pratiche di tombatura visiva nel contemporaneo

Il presente saggio esplora il concetto di tombatura visiva come pratica artistica e curatoriale che espone, conserva e stratifica materiali poveri e frammenti del quotidiano, senza ricorrere a retoriche celebrative o occultanti. Attraverso un’analisi teorica e una contestualizzazione dell’opera di Mario Iannino, si propone una lettura della tombatura come gesto civile, memoriale laico e dispositivo di resistenza alla logica del consumo e dell’oblio.

Nel contesto dell’arte contemporanea, la materia ha assunto un ruolo centrale come veicolo di memoria, resistenza e testimonianza. La tombatura visiva si configura come una pratica che non cerca la sublimazione estetica, ma la persistenza etica del vissuto. È un gesto che espone ciò che resta, stratifica ciò che è stato, conserva ciò che rischia di essere dimenticato.

A differenza di pratiche come l’impacchettamento di Christo, dove l’occultamento genera tensione estetica e promessa di rivelazione, la tombatura visiva non nasconde: espone senza spettacolo, conserva senza monumentalizzare.

La tombatura visiva è una forma di curatela radicale. Non seleziona per bellezza, ma per densità testimoniale. Carta strappata, tessuti, pigmenti grezzi, reti, residui: ogni elemento è un reperto, un frammento di esperienza che viene conservato non per la sua forma, ma per la sua capacità di parlare al tempo.

Questa pratica si avvicina all’archeologia visiva, ma rifiuta la neutralità scientifica. È archeologia affettiva, civile, militante. Ogni strato è una voce, ogni lacerazione è una memoria.

 L’opera di Mario Iannino si colloca emblematicamente all’interno di questa prospettiva. Iannino ha sviluppato una pratica visiva che unisce poetica del frammento e etica della conservazione. Le sue composizioni polimateriche non cercano la bellezza, ma la verità del vissuto. Non occultano l’assemblaggio, lo espongono. Non decorano, documentano.

La sua “tombatura” non è mai nostalgica. È conservazione attiva, memoriale laico, archivio povero per i posteri. Ogni strato di carta, ogni rete, ogni pigmento grezzo è un atto di resistenza contro l’oblio. La materia, in Iannino, non è medium: è testimone.

In particolare, le sue opere recenti mostrano una tensione verso il discorso secco, non mieloso, non estetizzante. La tombatura diventa così forma di pedagogia visiva, che insegna a guardare ciò che resta, a leggere ciò che è stato, a immaginare ciò che verrà.

La tombatura visiva, nella pratica di Iannino e in altri contesti contemporanei, assume una funzione pedagogica. È una forma di educazione alla memoria, che si oppone alla cultura dell’effimero e del consumo. In questo senso, l’opera tombata è anche un dispositivo didattico: non insegna nozioni, ma attitudini. Invita a osservare, a interrogare, a conservare.

La pedagogia della tombatura è inclusiva, accessibile, non spettacolare. È una pedagogia del frammento, del residuo, della dignità del lavoro e della vita quotidiana.

La tombatura visiva è una pratica politica. Espone ciò che il sistema tende a nascondere: il lavoro, la fatica, la marginalità, la fragilità. Rifiuta la logica del mercato, la seduzione del decoro, la spettacolarizzazione del dolore. È una forma di resistenza estetica, che si oppone alla retorica della bellezza e alla dittatura dell’immagine.

In questo senso, la tombatura è anche una forma di lotta: contro l’oblio, contro la superficialità, contro l’omologazione. È un gesto che rivendica il diritto alla memoria, alla complessità, alla testimonianza.

La tombatura visiva non è una tecnica, ma un atteggiamento. Non è una forma, ma una posizione etica. È una pratica che invita a curare la coscienza, a conservare il vissuto, a esporre la verità. In un tempo che tende a rimuovere, a semplificare, a spettacolarizzare, la tombatura visiva propone una estetica della responsabilità.

L’opera di Mario Iannino ne è testimonianza viva: un archivio povero, ma densissimo; una pratica che unisce lavoro, educazione, arte e testimonianza; una forma di cura del futuro che non cerca il consenso, ma la persistenza della coscienza.


Mario Iannino: la tombatura come forma di coscienza materiale

Nel lavoro di Mario Iannino, la tombatura visiva si manifesta come una pratica di resistenza alla dispersione del senso. Le sue composizioni polimateriche non si affidano alla retorica dell’assemblaggio né alla seduzione della materia. Al contrario, espongono con rigore ciò che resta: frammenti di carta, tessuti, pigmenti grezzi, griglie, tracce di uso e consumo. Ogni elemento è lasciato nella sua evidenza, senza mascheramenti, come a dire che la verità del vissuto non ha bisogno di essere abbellita.

Questa esposizione del residuo richiama la riflessione di Georges Didi-Huberman, secondo cui “ciò che brucia non si mostra, ma lascia tracce” (Survivance des lucioles, 2009). La tombatura non cerca di rappresentare il trauma o la perdita, ma di renderne visibile la sopravvivenza materiale. In questo senso, la materia non è medium, ma testimone.

La sua ricerca si fonda su un principio semplice e radicale: la materia conserva ciò che la storia tende a rimuovere. Non si tratta di estetizzare il frammento, ma di riconoscerlo come documento di una condizione. Come scrive Jacques Rancière, “l’arte è politica perché rende visibile ciò che era invisibile” (Le partage du sensible, 2000). Iannino non cerca la monumentalità, ma la persistenza silenziosa. Le sue opere non parlano a nome di un’identità, ma espongono una condizione collettiva: quella di chi ha attraversato il lavoro, la fatica, la marginalità, e ne ha tratto non una narrazione, ma una stratigrafia.

Questa stratificazione richiama anche la concezione di Aby Warburg, per cui l’immagine non è mai un’unità chiusa, ma un campo di tensione tra sopravvivenze. La tombatura visiva, in questa prospettiva, è una forma di montaggio mnemonico, dove ogni frammento conserva una forza latente, una memoria non pacificata.

Nel lavoro di Mario Iannino, la tombatura visiva si manifesta come una pratica di resistenza alla dispersione del senso. Le sue composizioni polimateriche non si affidano alla retorica dell’assemblaggio né alla seduzione della materia. Al contrario, espongono con rigore ciò che resta: frammenti di carta, tessuti, pigmenti grezzi, griglie, tracce di uso e consumo. Ogni elemento è lasciato nella sua evidenza, senza mascheramenti, come a dire che la verità del vissuto non ha bisogno di essere abbellita.

Questa esposizione del residuo richiama la riflessione di Georges Didi-Huberman, secondo cui “ciò che brucia non si mostra, ma lascia tracce” (Survivance des lucioles, 2009). La tombatura non cerca di rappresentare il trauma o la perdita, ma di renderne visibile la sopravvivenza materiale. In questo senso, la materia non è medium, ma testimone.

La sua ricerca si fonda su un principio semplice e radicale: la materia conserva ciò che la storia tende a rimuovere. Non si tratta di estetizzare il frammento, ma di riconoscerlo come documento di una condizione. Come scrive Jacques Rancière, “l’arte è politica perché rende visibile ciò che era invisibile” (Le partage du sensible, 2000). Iannino non cerca la monumentalità, ma la persistenza silenziosa. Le sue opere non parlano a nome di un’identità, ma espongono una condizione collettiva: quella di chi ha attraversato il lavoro, la fatica, la marginalità, e ne ha tratto non una narrazione, ma una stratigrafia.

Infine, la pratica di Iannino può essere letta alla luce di Giorgio Agamben, che definisce la testimonianza come “ciò che resta quando il linguaggio fallisce” (Quel che resta di Auschwitz, 1998). La tombatura visiva è proprio questo: ciò che resta, ciò che non può essere detto, ciò che si espone senza parlare. È una forma di pensiero incarnato, che non separa il fare dal riflettere, né l’estetica dall’etica. È una pratica che non cerca pubblico, ma posteri. Non domanda attenzione, ma ascolto. Non offre soluzioni, ma tracce da interrogare.


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