Tricivare: vocabolo affettuoso, inventato
Est/etica in atto: una visita all’officina del necessario.
Il rapporto tra estetica ed etica, per chi crea con coscienza, non è una scelta ma una condizione. Nei creativi autentici, è un legame indissolubile, una tensione fertile che genera forma e pensiero. Anche Mario Iannino, da sempre seminatore di testimonianza visiva, cerca quell’equilibrio: non come compromesso, ma come crocevia.
Oggi gli ho fatto visita. L’ho "tricìvato", direi così, con questo verbo che mi viene dal cuore e dalla lingua viva, “tricìvare”: un vocabolo inventato che sa di visita affettuosa, di osservazione discreta e complice, per aggiungere una nota di testimonianza viva. L'ho trovato intento a lavorare su "est/etica". Era immerso nel gesto, tra cartone, rete, impasto. Non c’era spettacolo, ma concentrazione. Non c’era posa, ma cura. Il polimaterico semitombato prendeva forma sotto le sue mani, come se ogni frammento dovesse trovare il suo posto non solo sulla superficie, ma nella coscienza.
In quel momento, ho visto l’opera non come oggetto finito, ma come processo etico. Il gesto non decorava, interrogava. Il colore non abbelliva, denunciava. E la materia, umile e resistente, parlava più forte di qualsiasi parola.
Presentazione dell’opera "est/etica" di Mario Iannino:
est/etica: il polimaterico come forma di testimonianza civile
L’opera "est/etica" di Mario Iannino si colloca nel solco di una ricerca che interroga il rapporto tra materia, consumo e responsabilità. La tecnica del “polimaterico semitombato” su cartone non è una semplice sperimentazione formale, ma una pratica di resistenza visiva e concettuale: un gesto che trasforma il supporto umile in luogo di memoria e interrogazione.
Il cartone, materiale povero e ricorrente nella produzione dell’artista, accoglie frammenti di packaging alimentare—icone del consumo seriale—che vengono parzialmente sepolti sotto rete e impasto cementizio. Questa semitombatura non mira alla cancellazione, bensì alla sospensione: ciò che è visibile resta esposto, ma ciò che è occultato reclama attenzione. L’opera genera una tensione tra il troppo e il niente, tra il brand e il bisogno, tra il colore industriale e la materia grezza. In questa dialettica, l’estetica non è evasione, ma strumento etico.
Il titolo est/etica è crasi e crocevia: separa e unisce, come il lavoro stesso. La barra obliqua non è solo segno grafico, ma dispositivo critico. Indica una soglia, una biforcazione, un punto di contatto tra due logiche apparentemente inconciliabili. L’estetica del surplus—del troppo, del decorativo, del seriale—viene messa in dialogo con l’etica del necessario—del gesto, della cura, della responsabilità.
Il lavoro di Iannino non moralizza, ma armonizza. La sua pratica curatoriale e artistica si fonda su una poetica del frammento e della stratificazione, dove ogni elemento è traccia di un sistema e ogni copertura è gesto di resistenza. L’impiego di materiali di scarto non è né provocazione né estetizzazione del rifiuto, ma tentativo di restituire dignità a ciò che il sistema espone e consuma senza memoria.
In questo senso, est/etica è anche un atto pedagogico. L’opera invita a leggere il visivo come forma di testimonianza, dove la composizione non è decorazione ma interrogazione. Il polimaterico diventa linguaggio civile, capace di tenere insieme il vissuto e il collettivo, il gesto individuale e la denuncia sistemica.
La semitombatura, infine, è rito e metodo. Non chiude, ma sospende. Non cancella, ma interroga. È una forma di cura che riconosce la ferita e la espone, senza spettacolarizzarla. In questo gesto, Mario Iannino rinnova la sua ricerca sul potere etico della forma, trasformando il visivo in spazio di responsabilità condivisa.
Nino, il tuo neologismo “tricivare” è una gemma lessicale che vibra di affetto, radicamento e invenzione etica. Ecco come potremmo presentarlo in forma definitoria e narrativa, con tono discorsivo e civico:
ps:Tricivare — lemma sinonimo di testimonianza
Tricivare (v. tr.) — verbo di nuova coniazione, nato dalla fusione semantica e affettiva di trovare, fare visita, cibare e civare (in calabrese: offrire cibo, nutrire). Esprime l’atto di cercare qualcuno per nutrirlo — non solo di cibo, ma di presenza, cura, stima. È gesto concreto e simbolico, che unisce visita e nutrimento, radicando l’affetto nella pratica.
Etimologia affettiva:
- Tro- da trovare: cercare l’altro, riconoscerlo.
- -ci- da cibare/civare: nutrire, offrire, condividere.
- -vare da fare visita: entrare nel tempo dell’altro con rispetto.
“Tricivare” è un’azione che si compie in silenzio, come quando ci si presenta con un piatto pronto, si bussa con un pane, si entra con un gesto che dice: ti penso. È azione che supera il dono, perché è testimonianza e condivisione. Tricivare è nutrire l’altro come forma di riconoscimento; è fare visita con il pane e con la parola.
Tricivare è l’atto di cercare qualcuno per nutrirlo — di cibo, di presenza, di parola. È visita che porta pane, gesto che porta memoria. È verbo che unisce il trovare all’offrire, il nutrire al riconoscere. Tricivare è testimonianza.
Nel contesto della cultura e dei costumi calabrese, nutrire è più che alimentare: è riconoscere l’altro come degno di cura. Tricivare è verbo che resiste all’indifferenza, che trasforma il cibo in linguaggio, la visita in memoria.
Tricivare non è dono, è relazione. Non è carità, è comunità. È verbo che non si coniuga al passato, ma si compie nel presente condiviso.

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