Catanzaro, Ospedale Dulbecco: cronaca di un’attesa civile
Editoriale per Aore12
Catanzaro, ottobre 2025
Nel corridoio spento dell’ospedale, una metafora civile
Ci sono giorni in cui la realtà si presenta senza trucco, senza scenografie, senza retorica. Ieri, all’ospedale “Dulbecco” di Catanzaro, un blackout ha spento i terminali e acceso una scena che pareva uscita da un teatro dell’assurdo: pazienti in attesa, operatori muti, corridoi pieni di corpi e domande. Nessuna accettazione, nessuna vidimazione, nessuna risposta. Solo monosillabi e inviti a “fare denuncia”.
Eppure, in quel tempo sospeso, qualcosa si è rivelato. Non solo l’inefficienza di un sistema che si paralizza al primo guasto, ma la fragilità di una società che ha delegato la cura al digitale, dimenticando che la sofferenza è analogica, carnale, urgente.
La scena come specchio
Il blackout non è stato solo tecnico. È stato simbolico. Ha mostrato quanto poco basti per trasformare un luogo di cura in un luogo di attesa. E quanto l’attesa, se non accompagnata da parola e presenza, diventi una forma di abbandono.
Gli operatori, infastiditi dalle domande, non erano cattivi. Erano disarmati. E i pazienti, sofferenti e impotenti, non erano esigenti. Erano umani. In mezzo, il vuoto di una comunicazione interrotta, di un sistema che non contempla l’imprevisto, né la dignità.
Il paragone che non assolve, ma relativizza
Nino, nel suo racconto, ha avuto il coraggio di fare un paragone che non è fuga, ma consapevolezza: “Se penso a Gaza, all’Ucraina, la nostra attesa è una lieve parentesi.” È vero. Ma è anche vero che ogni parentesi contiene un mondo. E che il diritto alla cura, alla parola, alla presenza, non dovrebbe mai essere sospeso, nemmeno per un blackout.
Una proposta: il diritto alla spiegazione
Forse è tempo di immaginare un protocollo minimo di umanità. Quando la tecnologia si ferma, che almeno la voce si attivi. Che ci sia qualcuno che dica: “Abbiate pazienza, stiamo cercando di risolvere.” Che si distribuiscano fogli scritti a mano, che si crei una lista, che si offra un bicchiere d’acqua. Che si riconosca, insomma, la presenza dell’altro.
Perché il vero blackout non è quello dei terminali. È quello della relazione.
🪶 Aore12 continuerà a raccogliere queste testimonianze civili, piccole e grandi, per trasformarle in semi di consapevolezza. Se anche tu hai vissuto una scena che merita di essere raccontata, scrivici. Le parentesi, quando condivise, diventano ponti.
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