Ritratti di Calabria
Un cestino di uva fragola al centro della tavola, disposto come una natura morta caravaggesca, mi riporta indietro nel tempo: ai miei quindici, sedici anni.
Era fine dicembre, e in casa fervevano i preparativi al calore del focolare: "pàssuli e granati", lenticchie, castagne, fichi secchi con noci e miele, conservate per allietare i giorni di festa. Gli acini passiti dell'uva, pronti per il pan di spagna, decimati dalla golosità dei bambini erano comunque lì ad impreziosire la tavola: ogni cosa aveva un posto, un significato, un sapore che non si dimentica. Come le pagine di Saverio Strati, che non si leggono soltanto: si respirano. Penetrano la mente, sedimentano, e lasciano addosso l’odore inconfondibile della calabresità. Una calabresità fatta di sfumature sensoriali, di voci dialettali, di gesti antichi che resistono al tempo. In questi giorni, a cent’anni dalla sua nascita, Strati ritorna. Non come monumento, ma come presenza viva. Come quel bambino che la nonna cercava in soffitta, tra le provviste e i sogni. Come un chicco d’uva passita che segna il tempo, a ogni rintocco di mezzanotte.
Il 16 e 17 ottobre 2025, Sant’Agata del Bianco ha celebrato il suo figlio più illustre con il convegno “100 Strati. Identità, memoria e futuro”. Due giornate dense di interventi, letture, testimonianze. Studiosi, scrittori, cittadini, studenti: tutti riuniti per restituire voce a chi ha raccontato il Sud senza retorica, con la dignità dei contadini, dei migranti, delle donne silenziose e forti. Le sue opere, da Tibi e Tascia a Il selvaggio di Santa Venere, non sono solo romanzi: sono archivi viventi, mappe interiori, geografie dell’anima calabrese.
E mentre si parlava di Strati, io pensavo alla nonna che saliva in soffitta per sincerarsi dei "beni" custoditi e da preservare. Per i roditori aveva disseminato la soffitta con le tagliole ma contro i golosi ci metteva tanta comprensione e amore.
«Duv’è u zzitieddhu? Vùa u vidi ca jiu 'ntò chjiancatu?» Diceva, infilando la scala. Totò, bambino goloso e irrequieto, si nascondeva tra le provviste. Il sottotetto sembrava una cambusa: patate, noci, castagne, pomi invernali, fichi secchi e qualche "paleddha e ficundiani". I grappoli d’uva appesi alle canne si asciugavano al fresco, gli acini diventavano dolci, appassiti: i pàssuli erano irresistibili. La nonna lo sapeva. Lo cercava lì, dove si conservavano le cose buone, le cose vere. Come le parole di Strati, che si conservano nei cesti della memoria.
Erano anni in cui le tradizioni si indossavano prima dei vestiti. Nessuno parlava di consumismo. I centri commerciali non avevano ancora invaso le coscienze. La pubblicità non era ancora diventata ossessione. Si viveva con poco, ma quel poco aveva senso. E a fine anno, la tavola si riempiva di promesse: dodici chicchi d’uva passita, uno per ogni mese, da mangiare al ritmo delle campane. Un rito semplice, ma potente. Come la scrittura di Strati.
Oggi, mentre lo celebriamo, non possiamo limitarci a ricordarlo. Dobbiamo continuare a leggerlo, a respirarlo, a trasmetterlo. Perché la sua voce non è solo letteratura: è testimonianza. È radice. È futuro.
Un cestino di uva fragola al centro della tavola, disposto come una natura morta caravaggesca, mi riporta indietro nel tempo. a quando i pàssuli 'nzema a ri granati, le lenticchie, i ceci, i fagioli, i fichi secchi con noci e miele, gli acini passiti per il pan di spagna prendevano il posto tra di noi in casa con un significato, un sapore che non si dimentica. Come le pagine di Saverio Strati, che non si leggono soltanto: si respirano. Penetrano la mente, sedimentano, e lasciano addosso l’odore inconfondibile della calabresità. Una calabresità fatta di sfumature sensoriali, di voci dialettali, di gesti antichi che resistono al tempo. In questi giorni, a cent’anni dalla sua nascita, Strati ritorna. Non come monumento, ma come presenza viva. Come quel bambino che la nonna cercava in soffitta, tra le provviste e i sogni. Come un chicco d’uva passita che segna il tempo, a ogni rintocco di mezzanotte.
Nel centenario della nascita di Saverio Strati, la Calabria si raccoglie attorno alla sua voce, aspra e poetica, per ricordare un autore che ha saputo raccontare il Sud con dignità, memoria e verità. A Sant’Agata del Bianco, suo paese natale, il convegno “100 Strati. Identità, memoria e futuro” ha riunito studiosi, scrittori e cittadini per due giornate di riflessione e testimonianza. In questo clima di ritorno alle radici, anche i ricordi più minuti tornano a farsi parola. Ritratto;
Racconto:
«Duv’è u zzitieddhu? Vùa u vidi ca jiu 'ntò chjiancatu?» si chiese la nonna mentre infilava la scala per salire in soffitta. Conosceva bene Totò, bambino goloso e irrequieto, e sapeva che lo avrebbe trovato lì, tra le masserizie preparate per i giorni di festa. Il sottotetto della vecchia casa in pietra somigliava a una cambusa: le patate stavano in un angolo, le noci e le castagne nei cesti, i pomi invernali nei panieri, e sulla lettiera di canne riposavano i fichi secchi. Appesi a delle canne, i grappoli d’uva seccavano al fresco e gli acini, giorno dopo giorno, diventavano asciutti, dolci, appassiti. I "pàssuli" erano una tentazione per chiunque, una leccornia che nemmeno gli adulti sapevano resistere, figuriamoci Totò, che alla golosità univa un’energia incontenibile. La nonna lo conosceva bene, sapeva che si sarebbe nascosto proprio lì, tra le provviste che aspettavano il Capodanno secondo i programmi dei componenti della famiglia matriarcale e lei depositaria saggia guidava con amore e segnava la rotta delle giovani anime.
Erano persone semplici, osservanti delle tradizioni e le indossavano prima ancora dei vestiti, come una seconda pelle che li proteggeva dalle escursioni termiche e dalle intemperie della modernità. Lo facevano d’istinto, perché ancora non era arrivata la bomba che avrebbe sconquassato tutto: il consumismo diffuso, i centri commerciali, la pubblicità ossessiva che si infila dappertutto, sui muri delle strade, in televisione, e infine nei dispositivi diventati appendici di ogni essere “tecnologicamente civilizzato”: telefonini, tablet, computer.
Siamo negli anni ’60 ’70, e si respirava aria buona.
Le tavole imbandite per la fine dell’anno si riempivano di ogni ben di Dio conservato con cura: "pàssuli nigri e granati russazzi", promesse di guadagni come le lenticchie, ma anche gioia concreta. Fichi secchi guarniti con noci e miele, acini d’uva passita per impreziosire il soffice pan di spagna, e poi, la notte del 31 dicembre, la gara a chi riusciva a mangiare almeno dodici chicchi d’uva al ritmo delle campane mentre segnavano la mezzanotte, il passaggio, la soglia tra il tempo vecchio e quello nuovo tra allegre risate e parole d'auguri sentiti.
Oggi, un cestino colmo d'uva viola e le foglie verdi attaccate al grappolo, posto al centro della tavola, mi riporta indietro nel tempo. Tutto ritorna, come un sapore che non si dimentica. Come le pagine di Saverio Strati, che non si leggono soltanto: si respirano. Entrano nella mente, si depositano lentamente, e lasciano un odore inconfondibile di calabresità—quella fatta di sfumature cromatiche e sensoriali che solo qui, in Calabria, si possono cogliere. E da lì, trasmigrano. Verso nuove mete, senza perdere la radice.
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