Natale senza bontà: il potere che divide.

 


 Mentre la retorica invita alla pace e alla solidarietà, la realtà mostra un mondo piegato da logiche di dominio, guerre e soprusi. Dalla Groenlandia contesa per “sicurezza” alle armi vendute come garanzia di stabilità, fino alle stragi in Gaza e ai conflitti dimenticati in Ucraina, Congo e Myanmar: la barbarie resta inaccettabile, anche quando colpisce una sola vita.

Il Natale dovrebbe essere il tempo della bontà, della sospensione dei conflitti e della ricerca di un senso comune di umanità. Eppure, anno dopo anno, la cronaca ci ricorda che la retorica della pace resta confinata nelle parole, mentre i fatti raccontano altro.

Gli esempi arrivano dall’alto, da quella classe dirigente che, forte di un potere costruito su basi ambigue e spesso prive di verità, tenta di imporre la propria volontà al mondo. La proprietà privata diventa terreno di conquista: basti pensare alle dichiarazioni di Donald Trump sul desiderio di acquisire la Groenlandia per motivi di “sicurezza logistica”. Una sicurezza che, paradossalmente, si traduce nella produzione e vendita di armi, nell’imposizione di dazi e nella diffusione di discorsi che trovano eco in servi sciocchi e convinti, pronti a trasformare vaneggiamenti in teorie.

Intanto, nella Striscia di Gaza e nelle terre contese da Netanyahu, la popolazione inerme continua a subire bombardamenti e violenze. Le vittime sono tante, ma anche una sola basterebbe a definire la barbarie inaccettabile. E non è un caso isolato: in Ucraina, in Congo, in Myanmar, la guerra e la sopraffazione restano strumenti di dominio.

Hannah Arendt, riflettendo sulla “banalità del male”, ci ha insegnato che la violenza non nasce sempre da ideologie complesse, ma spesso dalla cieca obbedienza e dall’incapacità di pensare criticamente. È proprio questa banalità che vediamo ripetersi oggi: individui e governi che, in nome della sicurezza o del profitto, perpetuano ingiustizie senza interrogarsi sulla loro legittimità morale.

Pasolini, con la sua critica feroce alla società dei consumi, ci ricordava che la vera violenza non è solo quella delle armi, ma anche quella culturale, che omologa, svuota e riduce l’uomo a ingranaggio di un sistema. In questo senso, il Natale stesso rischia di diventare un rito consumistico, più legato al mercato che alla solidarietà.

Nemmeno l’Italia è immune: qui la tensione sociale e politica si traduce in conflitti meno appariscenti ma ugualmente corrosivi, che minano la fiducia dei cittadini e alimentano divisioni. La retorica della sicurezza e della stabilità si scontra con la realtà di un Paese che fatica a garantire equità e giustizia.

Il Natale, dunque, si rivela specchio di un mondo che non riesce a fermarsi, che non sa rinunciare alla logica della forza e del profitto. Eppure, proprio in questa contraddizione, si nasconde la sfida più grande: ricordare che la bontà non è un copione da recitare, ma una scelta da compiere. Una scelta che, se fosse davvero collettiva, potrebbe cambiare il corso della storia.

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