Sandokan e l’Università: il nuovo nemico del governo
Tra fiction televisiva e realtà politica
Mentre la tv rilancia vecchi eroi d’avventura, la politica inventa nuovi antagonisti: questa volta tocca all’Alma Mater.
E, mentre scorrevano le solite strisce pubblicitarie che annunciavano il ritorno di Sandokan, il tigre della Malesia, ecco che dalle stanze del potere arrivava l’ennesima sfuriata governativa. Non contro pirati o corsari, ma contro un “nemico” ben più insolito: l’Università di Bologna.
Il rifiuto dell’Alma Mater di attivare un corso di Filosofia riservato agli ufficiali dell’Accademia di Modena è stato subito trasformato in un caso politico. Il governo ha agitato lo spettro dell’ideologia, accusando l’ateneo di chiusura e arroganza. Ma la realtà è meno romanzesca: l’università ha semplicemente difeso il principio che la formazione accademica non si riserva, non si privatizza, non si piega a logiche di potere.
Così, mentre la televisione ripropone vecchi miti d’avventura, la politica sembra inventarne di nuovi, trasformando istituzioni culturali in antagonisti da combattere. Una narrazione che rischia di ridurre il dibattito pubblico a sceneggiatura di fiction, dove il “nemico” di turno serve più a consolidare consenso che a risolvere problemi reali.
Nei fatti si vede una enorme crisi di pensiero, istituzionale e governativa. Uno scontro tra poteri voluto dagli esponenti di governo che tentano di mettere sotto il tacco arrogante del totalitarismo ideologico il Paese ma non ha spazio nella nostra democrazia.
Il rifiuto dell’Università di Bologna di attivare un corso riservato agli ufficiali diventa terreno di scontro politico. Ma dietro la polemica si intravede una crisi istituzionale più profonda: il tentativo di subordinare l’università al potere esecutivo.
La vicenda del corso di Filosofia richiesto dall’Accademia Militare di Modena e respinto dall’Università di Bologna ha assunto proporzioni ben oltre il merito della proposta. Non si tratta semplicemente di un piano formativo, ma di un confronto tra due visioni della democrazia.
Da un lato, l’università ha difeso la propria autonomia e il principio che la conoscenza è un bene pubblico, accessibile a tutti e non riservabile a categorie privilegiate. Dall’altro, il governo e i vertici militari hanno interpretato il rifiuto come una chiusura ideologica, trasformando la questione in un caso politico.
Il vero nodo è istituzionale: quando il potere esecutivo pretende di imporre percorsi formativi “dall’alto”, senza rispettare le regole e le procedure accademiche, si rischia di incrinare l’equilibrio tra i poteri. L’università non è un ministero né un’agenzia governativa: è un luogo di libertà, di ricerca e di confronto critico.
La polemica rivela una crisi di pensiero e di metodo. Invece di aprire un dialogo costruttivo — magari attraverso convenzioni o poli decentrati, strumenti già esistenti e collaudati — si è scelto lo scontro frontale. Così, la richiesta di un corso riservato diventa simbolo di un tentativo di piegare l’università a logiche di potere, con il rischio di trasformare l’autonomia accademica in terreno di conquista politica.
In una democrazia matura, il sapere non si piega né si riserva. L’università deve restare spazio libero, inclusivo e indipendente, capace di dialogare con tutte le istituzioni ma senza mai rinunciare alla propria missione: formare cittadini, non sudditi.
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