La farsa

 IL DOLOROSO SPETTACOLO DELL’ALASKA



di Franco Cimino


Dramma e farsa sono due facce della stessa medaglia.

Ovvero, due lati della stessa faccia umana.

O, ancora, due parti del cuore dell’uomo.

O meglio: due zone del cervello umano non ancora ben studiate.


Sono elementi che si affiancano.

Non hanno vere divisioni, né confini,

per la facilità con cui spesso si scambiano di posto,

si confondono, si fondono.


Li abbiamo visti agire insieme ieri, in Alaska,

attraverso due uomini che si sono mossi insieme.

Sul grande scenario chiamato Ucraina,

lasciata sola e lontana,

i due attori hanno portato avanti

tanto il dramma quanto la farsa.


Il primo l’ha creato.

Il secondo l’ha inventata.

La farsa.


L’antropologia ci insegna che, tra questi due elementi,

ne esiste un terzo: l’ipocrisia.

Quello spettatore che vorrebbe salire sul palco

e farsi attore,

ma per pigrizia, convenienza, soggezione o incapacità,

resta seduto in platea.

Sbadigliando.


I primi due protagonisti sono un potente della Terra

e un altro che aspira a tornare ad esserlo:

Donald Trump e Vladimir Putin.

Il terzo protagonista è l’Europa.


Trump e Putin sono andati in scena insieme,

in quella che è sembrata una brutta farsa,

trasformata dalla propaganda del “sistema”

in un imbarazzante spettacolo da cabaret.


Due aerei presidenziali atterrati sulla stessa pista,

a pochi minuti e pochi metri di distanza.

Il cerimoniale delle grandi occasioni,

tappeti rossi stesi dalle scalette dell’uno a quelle dell’altro.

I due presidenti che scendono simultaneamente,

l’uno con passo atletico, l’altro con passo stanco,

incontrandosi a metà del breve tragitto.


Che brutta scena:

il potente americano che applaude il collega russo.

Che immagine sgradevole:

la stretta di mano tra i due, con sorrisi larghi,

quasi fosse una festa di compleanno.


Che visione inquietante:

entrano nella stessa auto,

come vecchi compagni di liceo

che si rincontrano dopo anni.

Dai finestrini oscurati li si vede ridere.

Divertiti.


Che dolore constatare

che i potenti si fanno una legge propria,

modificabile a piacimento,

oltre il diritto internazionale.

Un diritto che ha dichiarato Vladimir Putin

criminale di guerra,

colpevole di crimini contro l’umanità.


E mentre i due ridevano e stringevano mani,

gli aerei e i missili russi continuavano

a bombardare l’Ucraina.

Edifici abbattuti.

Strutture distrutte.

Persone uccise.

Non soldati.

Civili.

Innocenti.


Uno spettacolo dolente,

celebrato con il cerimoniale solenne

che si dedica alle grandi occasioni:

alla giustizia,

alla vita,

alla libertà.

Alla dignità della persona.

Dei popoli.

Delle nazioni.

Dei territori.


Io sono rimasto incollato alla televisione

dalle 19 di ieri sera fino alle prime ore del mattino.

Anch’io, in attesa.

Trepidante.

Di una risoluzione.

Di una conferenza stampa che fosse vera.


Ma è arrivata solo altra propaganda.

Ancora retorica consumata.

Facce di marmo, ben allenate nella mimica autoritaria.

Ancora una stretta di mano.

Ancora larghi sorrisi.

Ancora, la dichiarazione

di una “profonda amicizia personale” tra quei due.


Cosa si siano detti davvero,

in quella stanza chiusa,

non ci è dato sapere.

Ma lo si può immaginare.


Dell’Ucraina, del suo destino,

della sua lotta per l’integrità e l’indipendenza,

non si è parlato.

O meglio:

l’Ucraina è stata trattata come merce di scambio

su uno scacchiere molto più grande,

fatto di interessi americani, russi

e forse personali.


Il documento finale lo conferma:

vuoto, sterile, impalpabile.


L’Europa,

o almeno quella parte “volenterosa” di essa,

ha stilato un proprio documento.

Più leggero, certo,

ma in linea con le minime condizioni richieste dall’Ucraina.


Quelle di Putin, invece,

le conosciamo a memoria.


Cosa potrebbe venire da un improbabile vertice a tre

(Trump, Putin e Zelens’kyj),

con l’Europa naturalmente esclusa?


È difficile immaginarlo.

Ma facile prevederlo:

le posizioni resteranno ferme.

Non negoziabili.


Il massimo che si potrà ottenere

è una tregua.

Una tregua più lunga, forse.


Ma le tregue, lo sappiamo,

servono solo ai forti:

per riposare le truppe,

ricaricarsi,

e armarsi di nuovo.


E così, di tregua in battaglia,

di protocollo in bomba,

questa guerra continuerà

finché l’Ucraina non sarà ridotta al suolo,

come i suoi palazzi.

Come le sue scuole.

Come i suoi morti,

che non smetteranno di essere contati.


E io,

che sogno la pace e la bellezza,

mi batto,

lotto,

spero,

piango.


Disarmato.


Anche qui,

su questo teatro di morte.

Di sangue.

Di prepotenza.

E di viltà.


– Franco Cimino

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