Fichi, pane nero e memorie di campagna.
c'era una volta in Calabria,
“Il tempo delle mani buone”
Estate 1953
Fu un’estate generosa, quella del ’53. Il sole sembrava
avere pazienza, indugiava sulle foglie larghe dei fichi “boffa e trojani”, che
piegavano i rami fino a sfiorare la terra. Alcuni frutti, impazienti, caddero
acerbi, come bambini che non sanno aspettare. Comunque incolpevoli, caddero a
terra a causa dell’abbondante produzione difficile da mantenere sull’albero
fino a maturazione.
La nonna, con il grembiule annodato stretto e le mani
esperte, scolpite dal lavoro all’aperto, agili e forti, raccoglieva ogni dono
della campagna, dalle colture domestiche coltivate con sapienza e quelli donati
generosamente dalla natura: bacche, more di rovo, funghi, asparagi selvatici,
cicorie.
Quell'estate. e in quel caso, staccava i frutti dal ramo con movimenti decisi. Non un fico si lacerava durante la raccolta. Una certa quantità di fichi li essiccava con cura, e poi li farciva con le noci, faceva le rinomate “crocette” per imbandire la tavola a natale che, immancabilmente scomparivano ancor prima delle feste. Altre le trasformava in marmellate dense e profumate. Ma io, bambino curioso, aspettavo solo quel momento: quando apriva un fico maturo e lo passava con decisione sulla fetta di pane nero. Era il mio dolce preferito, senza zucchero, senza cerimonie. Solo bontà! Era la merenda perfetta.
Il pane nero, fatto in casa con le farine nostrane del grano
autoctono macinato a pietra, aveva un sapore particolare che non ho più
assaporato in città. Qualità organolettiche decise, dense che sapevano di
germogli odorosi sbocciati nei campi e maturate al sole di Calabria.
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