Ragioniamo su una questione semplice:
se il lavoro mi ammazza a che mi serve?
Da qualche giorno assistiamo alla
guerriglia verbale tra chi vuole fare ripartire la produzione e chi,
più cautamente, dice di aspettare.
Alcuni dicono di tutelare il lavoro per
evitare una catastrofe economica immane e irreversibile per le
economie nazionali e mondiali.
Non ho nozioni o studi adeguati in
merito, però una cosa, a mio avviso, è certa: se il lavoro inteso
quale fonte di guadagno privato dagli attenti analisti economici
uccide o mette in discussione la salute delle maestranze, il lavoro
stesso è una potenziale bomba umanitaria forse peggio dell'atomica.
Possiamo fare con esattezza matematica
l'assioma tra l'ex ilva di Taranto e i tumori che l'inquinamento
atmosferico provocava nell'interland tarantino fino a dove arrivavano
le polveri inquinanti degli altiforni.
A Taranto non si è guardato alla
salute pubblica che include lavoratori e ambiente circostante.
Le cordate imprenditoriali avevano
occhi e orecchie e pancia solo per gli affari. Perlomeno questo è
venuto fuori dalle inchieste.
La pandemia attuale del coronavirus
tocca indistintamente tutte le aree. La globalizzazione ha fatto
questo enorme regalo all'umanità.
È un dovere civico reagire agli
egoismi. Siano essi di carattere politico strumentale, economico
pubblico o, peggio, privato.
Questa è l'occasione buona per pensare
a una rinascita culturale che vede al centro l'essere umano. Il
lavoro è uno strumento che deve servire l'uomo e non viceversa.
L'abolizione di alcuni tasselli importanti che riguardavano le tutele dei lavoratori, come sancito dalla legge 20 maggio 1970, frutto di trattative e lotte sociali tra le parti ha fatto sì che i rapporti tra i due mondi degenerassero a discapito dei deboli e, di fatto, non più rappresentati nelle sedi istituzionali.
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