Semplici e poeticamente patetici.
Questa la definizione più appropriata per rappresentare l'atmosfera
degli anni sessanta e settanta quando si iniziavano a vedere
dappertutto le prime copie dei fotoromanzi. All'inizio fu il bianco e
nero a narrare gli amori ingenui conditi con un pizzico di maliziosa
morbosità consentita dalla censura del tempo.
Gli “attori” sembravano statuine
posizionate in atteggiamenti plastici inverosimili, impensabili nella
realtà.
E i testi? Elementari, sintetici,
efficaci!
Era la realtà virtuale dei primi anni
settanta venduta per poche lire nelle edicole.
Non c'era luogo frequentato da donne,
ma anche dai maschietti, esente di almeno una copia fotoromanzosa.
Quasi in tutte le case come dal parrucchiere, dal dentista e persino
dal meccanico si poteva trovare una copia di “Grand Hotel, Sogno”
e sfogliare un amore a fumetti.
Anche i cantanti non disdegnavano il
racconto per immagini e trasbordavano volentieri dal mondo della
musica in quello del racconto fotografico. Per loro era una mossa
astuta di marketing. Regalavano storie d'amore ai fans e promuovevano
l'ultima canzone.